NOVAZIANO, antipapa
Ne sono ignoti luogo e data di nascita. Una tarda notizia di fonte orientale (Filostorgio), che lo fa nascere in Frigia, appare tendenziosa per l'evidente accostamento del suo rigorismo con quello dei montanisti. In base al poco che di lui si conosce non ci sono motivi validi per non considerarlo romano. Congetturalmente si colloca la sua data di nascita intorno al 200. Le notizie su N. anteriori allo scisma che da lui ha tratto il nome derivano da una lettera del suo antagonista Cornelio (in Eusebio, Historia ecclesiastica VI, 43), quanto mai di parte, sì che i dati che fornisce vanno attentamente vagliati. Ammalatosi gravemente, aveva ricevuto il battesimo per aspersione, anziché per infusione, senza l'unzione e l'imposizione delle mani. Per altro, a queste carenze si dovette porre riparo quando papa Fabiano lo elesse presbitero, nonostante la forte opposizione del clero. Dalle parole di Cornelio questa opposizione viene giustificata adducendo l'imperfezione del battesimo, ma non si è lontani dal vero ipotizzando un certo senso di estraneità e di fastidio, se non d'invidia, da parte di molti membri del clero romano, mediamente allora di livello culturale piuttosto basso, a riscontro di una personalità di grande spicco, dotata di ottima formazione scolastica e di cultura nettamente superiore alla media. Cornelio gli fa anche carico di essersi appartato per paura, al tempo della persecuzione di Decio (250), rifiutandosi di prestare la sua opera a favore della comunità: ma la notizia appare poco attendibile, e comunque grandemente esagerata, dato che fu proprio N. che, a nome dei presbiteri romani, indirizzò a Cipriano, vescovo di Cartagine, le lettere comprese, come epistole 30, 31 e 36, nell'epistolario di quest'ultimo. In effetti, messo a morte papa Fabiano all'inizio della persecuzione, la comunità romana aveva deciso di attendere tempi migliori prima di dargli un successore, e nell'intervallo la direzione della Chiesa fu assunta dal Collegio dei presbiteri. Ad essi perciò si era rivolto Cipriano per cercare lumi e conforto a causa della questione dei lapsi, cioè dei tanti fedeli che avevano apostatato o comunque si erano gravemente compromessi con i persecutori e però subito dopo pretendevano di essere riammessi nella comunità. Ma sia Cipriano sia i presbiteri romani si trovarono d'accordo nel respingere questa pretesa e rinviare la soluzione del caso a quando fosse finita la persecuzione. Questa a Roma aveva già perso di vigore prima che la morte di Decio in battaglia la facesse terminare del tutto. Perciò già all'inizio del 251 la comunità fu in grado di dare a Fabiano un successore, ma l'elezione del nuovo vescovo fu molto contrastata, perché fu aspramente contesa tra N. e un altro presbitero, Cornelio. Le fonti che informano su questo contrasto e sullo scisma che ne derivò, tutte avverse a N., gli fanno carico di aver aspirato al seggio papale per ambizione, e probabilmente c'era del vero nell'accusa, in quanto, date le dimensioni ormai assunte dalla comunità cristiana di Roma e di conseguenza l'importanza e il prestigio del suo seggio episcopale, era naturale che ogni candidato a ricoprirlo fosse mosso anche da una certa dose di ambizione, e certamente quella di Cornelio non era da meno di quella di N.: forse quest'ultimo riteneva che il suo superiore livello culturale e intellettuale lo abilitasse in special modo a quell'alto ufficio, ma queste doti non dovevano riscuotere molto credito in un ambito comunitario in prevalenza di basso profilo e sospettoso nei confronti di chi fosse culturalmente dotato. Si deve anche tenere conto del malanimo che almeno alcuni degli altri presbiteri romani nutrivano nei confronti di N. già dal tempo della sua elezione presbiterale. Ma al di là di tutte queste motivazioni d'ordine più o meno personale, il dissidio era alimentato soprattutto da una profonda divergenza d'ordine comunitario: N. era conosciuto per essere di tendenza rigorista, cioè poco o niente affatto propenso alla riammissione nella comunità di tutti i lapsi; invece Cornelio era di tendenza molto più moderata, forse fin troppo. Già trent'anni prima, al tempo di papa Callisto e dello Pseudo Ippolito, la tendenza lassista del primo aveva avuto la meglio sul rigorismo del secondo, e lo stesso esito si ebbe anche ora, tanto più che la persecuzione aveva provocato moltissime defezioni ed era naturale che la comunità nel suo complesso fosse orientata a riassorbire nel suo seno i lapsi, sia pure a determinate condizioni, piuttosto che respingerli irrimediabilmente via da sé. Come nel precedente contrasto, anche ora si scontravano due opposte concezioni della Chiesa, una rigorista ed elitaria, che aspirava a una Chiesa di pochi eletti e perfetti, senza riguardo per le debolezze della massa; l'altra invece di tendenza più universalista, e comprensiva per quelle debolezze cui riteneva che una salutare penitenza potesse porre rimedio. Data questa radicale divaricazione di natura ideologica, si comprende sia perché il contrasto sia stato tanto acceso sia perché la parte soccombente non abbia inteso demordere e si sia irrigidita nella sua posizione fino a provocare lo scisma nella comunità. Si sa che N. inviò alcuni suoi sostenitori, tra cui l'influente presbitero Massimo, a Cartagine, al fine di assicurarsi l'appoggio di quella sede importante allora retta da Cipriano, e ai danni di Cornelio fu addirittura diffusa la voce di un suo cedimento durante la persecuzione di Decio, mentre gli veniva addebitato il comportamento troppo remissivo nei confronti di alcuni lapsi. I sostenitori di Cornelio non furono certo da meno, e la sua lettera sopra ricordata e conservata da Eusebio presenta un campionario delle voci che allora furono diffuse a danno di Novaziano. Come si apprende anche da Cipriano (ep. 55), certamente gli si rimproverò, tra l'altro, anche la buona preparazione culturale che facilmente poteva essere presentata come segno di superbia e di distacco rispetto alla massa dei semplici fedeli. N. rimase in minoranza, e ben sedici vescovi consacrarono Cornelio vescovo di Roma. Allora N. si fece consacrare anche lui da tre vescovi, che nel suo tendenzioso racconto Cornelio presenta come di sedi insignificanti, persone molto semplici che si erano fatte raggirare dai partigiani di quello, e fu lo scisma, il primo storicamente accertato nella storia della comunità cristiana di Roma: per questo, con termine alquanto anacronistico in quest'epoca, si suole definire N. antipapa. Dopo qualche esitazione, ragguagliato sui fatti Cipriano prese decisamente le parti di Cornelio e con una fitta propaganda epistolare ne avallò la nomina, mentre attaccava decisamente N.: ma a questo proposito va precisato che nessuna delle accuse e delle dicerie che si leggono nella lettera di Cornelio trova riscontro in quelle di Cipriano; il rimprovero infatti che egli gli muove è che la sua filosofia e la sua eloquenza non gli avevano impedito di spezzare l'unità della Chiesa (ep. 55, 24). In effetti, la linea programmatica tenuta da Cornelio nei confronti dei lapsi, sia pur con una certa maggior arrendevolezza, nella sostanza coincideva con l'atteggiamento possibilista cui si uniformarono quasi tutti i vescovi della cristianità, sì che era ovvio che essi si schierassero dalla parte di Cornelio, tranne qualche eccezione, di cui la più importante fu rappresentata da Fabio, vescovo di Antiochia, che preferì la linea rigorista di N., così come in Occidente Marciano di Arelate (Arles). Rinforzata la sua posizione, Cornelio fu in grado di convocare, nell'autunno del 251, un concilio cui partecipò una sessantina di vescovi italiani, nel quale fu confermata la scomunica a danno di Novaziano. Questi per altro persistette nel suo atteggiamento. Dopo questa non si hanno su di lui notizie precise; ma Socrate, molto bene informato riguardo ai novaziani, scrive (Historia ecclesiastica IV, 28) che egli aveva testimoniato la fede col martirio durante la persecuzione di Valeriano (257-258), e si sa che in Oriente nel VI secolo circolavano atti del suo martirio, cui Fozio (Bibliotheca 182) non prestava molta fede. Per altro, nel Martyrologium Hieronymianum al 29 giugno viene segnalata la memoria del martire N. e nel 1932 in una catacomba sulla via Tiburtina, presso la chiesa di S. Lorenzo, è stata trovata un'iscrizione funebre, che recita: "Novatiano beatissimo / martyri Gaudentius diac[onus] / f[ecit]" (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VII, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1980, nr. 20334). I pareri degli studiosi sono controversi riguardo all'identificazione di questo martire, ma è indubbio che la convergenza di varie testimonianze a favore del martirio del N. scismatico appaia piuttosto significativa. Va a tal proposito innanzitutto rilevato che la cronologia dell'area cimiteriale in cui si rinvenne questa sepoltura è ben definita tra il 257 e il 260, come dimostrano alcune iscrizioni datate in situ del 266 e del 270 (ibid., nrr. 20335, 20336, 20337, 20338); vi sarebbe in definitiva una indubbia sincronia tra la morte di N. (258) e la datazione dell'area in cui fu deposto. La sepoltura, ricavata su roccia vergine (cioè non precedentemente occupata da altre sepolture) e foderata da lastre marmoree, è del tipo a mensa successivamente monumentalizzata e decorata con l'aggiunta di colonnine frontali e di un apparato figurativo ad affresco e mosaico. È a questi interventi non anteriori al IV secolo che si deve riferire l'iscrizione dipinta su intonaco: si tratta infatti di un titolo dedicatorio che si aggiunse all'epitaffio originario evidentemente andato perduto. Una prassi questa largamente documentata che trova altri significativi riscontri, ad esempio con l'intervento di Damaso presso il sepolcro di s. Gennaro nel cimitero di Pretestato commemorato dalla celebre dedica "Ianuario beatissimo martiri / Damasus episcopus fecit" (ibid., V, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, ivi 1971, nr. 13971). Si sa che, poco tempo dopo la decisione di N. di operare lo scisma, alcuni dei suoi sostenitori scelsero di rientrare nella Chiesa cattolica, tra i quali il presbitero Massimo sopra ricordato: eppure lo scisma non soltanto non si esaurì ma si diffuse ben oltre le mura di Roma, sia in Occidente sia in Oriente, ed era ancora vitale nel V secolo, a conferma che, al di là di motivazioni di carattere personale, esso era ben radicato dal punto di vista ideologico. In effetti, la continua e sempre più diffusa propagazione della religione cristiana comportava costi notevoli quanto alla condizione morale dei suoi membri, perché la quantità difficilmente può accordarsi con la qualità: e di fronte alla constatazione che, giorno dopo giorno, molti, troppi cristiani scendevano a compromessi di ogni genere col mondo che li circondava, l'immagine di una Chiesa di perfetti, necessariamente ristretta di numero e intransigente verso ogni concessione al mondo, si presentava a non pochi cristiani come ideale da perseguire, anche a costo di separarsi dalla massa dei fedeli aderenti alla Chiesa cattolica. Al di là della vicenda del personaggio N., la sua concezione elitaria di una Chiesa "senza macchia né ruga" (Efesini 5, 27) era destinata a sopravvivere a lungo alla scomparsa del suo ideologo. La buona formazione letteraria, e culturale in genere, di N., che anche gli avversari gli riconoscevano, si concretò in un certo numero di scritti, alcuni dei quali sono giunti sotto i nomi di Tertulliano e di Cipriano. Per altro Girolamo (De viris illustribus 70) conosceva parecchie opere come di N.: oltre il De cibis Iudaicis e il De trinitate che sono sopravvissute, De pascha, De sabbato, De circumcisione, De sacerdote, De oratione, De instantia, e molte altre che non nomina. In linea preliminare va rilevato che sono state scritte in latino, mentre qualche decennio prima lo Pseudo Ippolito si esprimeva ancora in greco, che era la lingua ufficiale della comunità di Roma. Mentre in Africa già alla fine del II secolo i letterati cristiani scrivevano in latino, a Roma, data la fisionomia più accentuatamente orientale della comunità cristiana, ciò si è verificato soltanto verso la metà del III, a opera appunto di Novaziano. Quanto alla cronologia degli scritti conosciuti, l'unico dato certo è che le tre lettere comprese nell'epistolario ciprianeo e dettate a nome dei presbiteri romani datano al 250. Che il De trinitate sia stato composto prima dello scisma è affermazione generalizzata ma non per questo meno destituita di ogni supporto di una qualche consistenza. Anche sugli altri tre scritti giunti, De cibis Iudaicis, De spectaculis, De bono pudicitiae, c'è incertezza: c'è chi li colloca tutti e tre nel periodo dello scisma, ma altri fa distinzione, datando a questo periodo soltanto la terza opera e collocando le prime due nel periodo anteriore. Quanto al contenuto, nelle tre lettere, 30, 31 e 36, dell'epistolario di Cipriano, esso è funzionale alla crisi provocata in tutte le comunità cristiane di allora dalla persecuzione di Decio. Le lettere sono indirizzate a Cipriano e rispondono alle sue sollecitazioni in merito alla questione dei lapsi: in effetti Cipriano, che all'inizio della persecuzione si era allontanato da Cartagine, si trovava allora in difficoltà, perché approfittando della sua assenza alcuni presbiteri a Cartagine riammettevano indiscriminatamente i lapsi nella comunione della Chiesa, mentre Cipriano intendeva sospendere per il momento ogni decisione, in attesa del ritorno della pace, per poter esaminare con calma la questione. Pressato da questa difficoltà, egli aveva scritto a Roma per cercare conforto nell'appoggio di quella comunità: in questo ordine d'idee le epistole 30 e 36 approvano la sua condotta e biasimano l'"immoderata petulantia" dei lapsi, che pretendono di essere riammessi subito nella comunità, mentre dovrebbero dedicarsi ininterrottamente alla penitenza nella speranza di commuovere la clemenza divina. Di carattere diverso è l'epistola 31, scritta a nome di un gruppo di confessori, cioè di fedeli che avevano resistito ai persecutori e ora attendevano in carcere che le autorità si pronunciassero a loro riguardo. Cipriano aveva loro indirizzato una lettera di conforto e di incoraggiamento, ed essi lo ringraziano e, mentre confermano il loro proposito di resistere ai persecutori, si raccomandano alle sue preghiere. Tutte e tre le lettere danno a vedere una cifra stilistica molto superiore ad altre lettere di origine romana che si leggono nell'epistolario ciprianeo. Il De cibis Iudaicis, che nei due manoscritti che lo tramandano è attribuito a Tertulliano, si presenta come un piccolo trattato in forma epistolare che N. assente invia ad alcuni "fratelli carissimi" che gli avevano scritto già più di una volta sollecitando il suo intervento. Se lo scritto è stato dettato dopo lo scisma, questi fratelli vanno identificati con la comunità scismatica di Roma, cui N. scrive durante una sua assenza. Ma, come si è sopra accennato, c'è chi ipotizza un N. ancora presbitero, in una data anteriore al 250, e identifica i fratelli con una delle sette comunità "parrocchiali" in cui papa Fabiano aveva ripartito la Chiesa di Roma. Come che sia, questa comunità si era rivolta a N. in merito alla persistenza, nella Roma cristiana, di tradizioni e pratiche giudaiche, spiegabili in una data così tarda in considerazione della fisionomia accentuatamente giudaizzante della originaria comunità cristiana di Roma. Nella risposta N. fa riferimento a precedenti lettere in cui aveva trattato del sabato e della circoncisione (sono il De sabbato e il De circumcisione ricordati da Girolamo e non pervenuti) e si propone di trattare ora delle prescrizioni e dei divieti alimentari: e lo fa con argomentazione ormai tradizionale (presente già in Barnaba e Ireneo), osservando che i giudei avevano erroneamente interpretato in senso letterale prescrizioni alimentari che invece andavano interpretate in senso spirituale, cioè allegoricamente, perché quelle prescrizioni parlando di animali intendevano rappresentare i costumi e le azioni degli uomini, per cui essi sono o diventano puri o impuri. Per esempio, a seconda se gli animali sono o no ruminanti e hanno o no l'unghia spaccata, essi simboleggiano le tre categorie di cristiani, giudei ed eretici, pagani. Anche il De spectaculis, tramandato sotto il nome di Cipriano, è indirizzato, in forma epistolare, alla comunità da cui N. è lontano: l'argomento è tradizionale e l'autore ben conosceva l'omonimo trattato di Tertulliano; l'occasione per la nuova trattazione è offerta dall'argomento che alcuni fedeli, per giustificare la loro frequenza agli spettacoli del circo e del teatro, opponevano alla proibizione, e cioè che nella Scrittura non si legge un esplicito divieto ad assistere a quegli spettacoli. Si è cercato di precisare meglio l'occasione di questo accentuato interesse di almeno alcuni cristiani per gli spettacoli, mettendolo in relazione con le celebrazioni che si svolsero, sotto l'imperatore Filippo l'Arabo, nel 247, ricorrenza millenaria della fondazione di Roma, durante le quali furono dati spettacoli di ogni genere. N. argomenta in senso contrario che la Scrittura proibisce nel modo più categorico ogni manifestazione di idolatria, ed effettivamente quegli spettacoli, in quanto collegati con ricorrenze e cerimonie religiose, si configuravano agevolmente come manifestazione idolatrica. Quanto agli spettacoli teatrali, di rincalzo N. aggiunge anche la loro manifesta immoralità. Il De bono pudicitiae, tramandato senza nome d'autore da manoscritti contenenti scritti di Cipriano, ha in comune con gli altri due trattati l'indirizzo a una comunità da cui N. è momentaneamente assente, anche se qui manca l'intestazione epistolare. Ma, mentre in quelli la missiva di N. è stata motivata da una richiesta o comunque da una contingenza specifica, qui essa non viene specificata, e l'interesse dell'autore per la buona condotta dei suoi corrispondenti, "in virginibus in continentibus in matrimoniis", è di carattere generico, così come del tutto usuali, per non dire abusate, sono le sue esortazioni e i suoi ammonimenti, e altrettanto gli esempi biblici che produce, Giuseppe e Susanna. Insomma, niente di nuovo rispetto a quanto si legge in Tertulliano e Cipriano. Opera principale di N., dottrinalmente una delle più significative dei primi tre secoli cristiani, è il De trinitate. Girolamo, che lo conosceva come di N., informa che correva anche sotto il nome di Cipriano (De viris illustribus 70), e come tale si sa che era conosciuto e diffuso a Costantinopoli verso il 370, grazie a una notizia di Rufino (De adulteratione librorum Origenis 12), il quale dal canto suo riteneva che l'opera fosse di Tertulliano. Del De trinitate non è giunto alcun manoscritto, ma nel XVI secolo se ne conoscevano due, forse tre, dei quali hanno fatto uso i primi editori a stampa, M. Mesnart nel 1545 a Parigi, S. Ghelen nel 1550 a Basilea, J. de Pamèle nel 1579 ad Anversa. Quest'ultimo riconobbe come di N. l'opera che i precedenti editori avevano pubblicato come di Tertulliano, evidentemente sulla scorta dell'indicazione dei manoscritti. Dato che, come si vedrà or ora, la concezione specificamente trinitaria di Dio che N. presenta è molto imperfetta e il nome trinitas, già messo in uso da Tertulliano, non è mai riportato nell'opera, si può ragionevolmente supporre che il titolo De trinitate sia stato apposto solo in un secondo tempo all'opera, che originariamente potrebbe essere stata intitolata in altro modo (De fide?). N. si è ispirato molto da vicino all'Adversus Praxean di Tertulliano, anche se è esagerato definire il suo scritto "quasi un riassunto dell'opera di Tertulliano", come afferma Girolamo; ma mentre l'opera tertullianea tratta in modo specifico il tema cristologico in polemica con l'eretico Prassea, quella di N. si presenta a modo di trattazione organica di dottrina, che intende dichiarare la regola di fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. L'opera si ripartisce agevolmente in quattro parti, per altro quantitativamente molto ineguali una rispetto all'altra: la prima parte (capitoli 1-8) tratta di Dio Padre; la seconda, di gran lunga la più estesa (capitoli 9-28), parla di Cristo Figlio di Dio; allo Spirito Santo è dedicata la breve trattazione compresa nel capitolo 29, mentre i capitoli finali 30-31 tornano sul Padre e sul Figlio per delinearne il reciproco rapporto. Il De trinitate si colloca nella scia delle accese discussioni in materia trinitaria che c'erano state a Roma agl'inizi del III secolo, soprattutto nel secondo e nel terzo decennio, e che avevano visto la contrapposizione tra le dottrine monarchiane e quella del Logos. La dottrina del Logos, che sviluppava una linea rappresentata da Giustino, Ireneo, Tertulliano e che, quanto al fondamento scritturistico, s'ispirava soprattutto a Paolo e a Giovanni, valorizzava la figura di Cristo come parola (Logos) e sapienza (sophia) di Dio, preesistente all'incarnazione come entità divina, distinta dal Padre in quanto da lui realmente generata: perciò in questo contesto Cristo veniva presentato quale figlio reale di Dio, a lui subordinato, artefice della creazione e, mediante l'incarnazione nell'uomo Gesù, della redenzione del mondo e dell'uomo. L'enfasi che questa dottrina poneva sull'alterità del Logos rispetto a Dio Padre a molti sembrava distinguere un dio maggiore e un dio minore, sì che essa veniva considerata una forma di diteismo; perciò le si oppose una più rigida concezione monoteista di Dio (monarchianismo, da monarchia, cioè affermazione di un solo Dio), articolata in due ben distinte dottrine: quella adozionista considerava Cristo un mero uomo dotato di speciali carismi divini, che gli avevano valso per adozione la dignità di Figlio di Dio; quella modalista identificava il Figlio col Padre, come un suo modo di essere, mediante il quale, sotto l'aspetto di Figlio, era stato il Padre a patire sulla croce (patripassianismo). Già agl'inizi del III secolo l'adozionismo a Roma aveva perso vigore e, pur conservando una residua vitalità, era stato di fatto emarginato, a beneficio del modalismo che negli anni Venti, sotto la guida di Sabellio, aveva raccolto vasti consensi. L'avevano per altro contrastato vivacemente i sostenitori della dottrina del Logos, rappresentati soprattutto dall'enigmatico autore dell'Èlenchos, che per comodità si definisce qui Pseudo Ippolito. Per cercare di riportare la pace nella comunità, Callisto aveva emarginato le contrapposte tendenze radicali, rappresentate da quei due personaggi, e aveva proposto una soluzione intermedia, che in effetti, come si vedrà meglio tra breve, era molto sbilanciata in favore del monarchianismo. In un contesto così definito N. si colloca, più o meno una ventina d'anni dopo, nella scia dello Pseudo Ippolito, e qui va precisato che il collegamento tra i due personaggi si estende, al di là della dottrina cristologica, anche all'ecclesiologia, perché già lo Pseudo Ippolito, in opposizione a quello che egli definiva il lassismo di Callisto, aveva anticipato la concezione della Chiesa elitaria di pochi perfetti, che si è vista propugnata da N. fino ad arrivare alla rottura con la Chiesa cattolica. Alla luce di queste vistose convergenze non è arbitrario ipotizzare che N. sia stato un discepolo dello Pseudo Ippolito o che, comunque, si sia ispirato da vicino al suo insegnamento. Dopo la prima parte in cui propone la sua dottrina su Dio in termini ormai abituali nella tradizione platonica pagana e cristiana, nella seconda parte e nei due capitoli finali N. tratta a fondo di cristologia, ispirandosi, al di là dell'Èlenchos, soprattutto all'Adversus Praxean di Tertulliano, anch'esso pertinente alla dottrina del Logos e molto più diffuso e ricco di dettagli sull'argomento. Egli polemizza prima con gli adozionisti e poi con i modalisti entrambi monarchiani, che consideravano Cristo i primi un uomo adottato dal Padre per i suoi meriti e i secondi un suo modo di manifestarsi. Contro i primi intende dimostrare la reale divinità di Cristo; contro i secondi la sua sussistenza personale, in quanto Dio, distinta da quella del Padre: se perciò egli è molto esplicito nell'affermazione di un solo Dio, lo è altrettanto nel presentare il Logos come figlio reale di Dio, da lui generato e da lui distinto personalmente. A tal fine egli riprende da Tertulliano il termine persona, con cui quello aveva reso in latino il significato teologico del greco πρόσωπον: "Egli [cioè il Figlio], che è proceduto da colui per il cui volere sono state create tutte le cose, è certamente Dio che procede da Dio, in modo da costituire, in quanto Figlio, la seconda persona dopo il Padre, senza togliere al Padre la prerogativa di essere il solo Dio" (De Trinitate 31, 187). Questo passo, di carattere riassuntivo, evidenzia bene la difficoltà in cui s'imbattevano i sostenitori della dottrina del Logos nell'affermare da una parte un solo Dio e dall'altra la distinzione personale del Figlio dal Padre. In maniera ancora più accentuata rispetto ad altri rappresentanti di questa dottrina, N. enfatizza l'inferiorità di Cristo rispetto al Padre al fine di rilevarne la distinzione: "Perciò, dato che riceve la santificazione dal Padre, è inferiore al Padre, e per conseguenza, in quanto è inferiore al Padre, egli non è il Padre ma il Figlio" (27, 152). Come si vede, la distinzione tra le due persone divine è rilevata al massimo, ma l'inferiorità dell'uno rispetto all'altro propone evidente difficoltà là dove si tratta di dimostrare in che modo i due, così ben distinti uno rispetto all'altro, potessero costituire un solo Dio; né N. ha cercato di eludere la difficoltà, ché anzi ha ben chiarito che non è possibile ammettere non solo due dei uguali tra loro, ma neppure due di diversa divinità (31, 188, 191). D'altra parte, la spiegazione di come Padre e Figlio, pur tanto bene distinti uno dall'altro, possano costituire un solo Dio non gli è riuscita agevole: nell'interpretare l'affermazione di Giovanni 10, 30, che il Padre e il Figlio costituiscono una cosa sola ("unum"), N. spiega "unum" sulla base della "concordia", della "eadem sententia", della "caritatis societas" (De Trinitate 27, 150): vale a dire, l'unità per cui il Padre e il Figlio costituiscono un solo Dio è unità dinamica, unità nel volere e nell'operare. Ma tale unità di concordia e amore in altro contesto è sembrata troppo debole a N. per spiegare l'unità di Dio, ed egli ha affrontato più direttamente questo problema alla fine dell'opera, in un passo di difficile interpretazione, in cui egli afferma che "unico Dio si dimostra il Padre vero ed eterno, da cui solo viene emanata questa potenza della divinità [vis divinitatis], che concessa e diretta anche sul Figlio, di nuovo ritorna al Padre in forza della sottomissione del Figlio [per subiectionem Filii]" (31, 192), il che sembra indicare una acronica, sempre presente circolazione di vita divina che passa dal Padre al Figlio e poi ritorna dal Figlio al Padre. Quel che è certo è che l'unità di Dio viene salvaguardata da N. mediante l'affermazione della netta subordinazione del Figlio al Padre, che è definito unico Dio in quanto principio della vita divina che egli trasmette al Figlio. In questo passo tanto difficile, e al quale ha inteso annettere tanta importanza, N. non fa parola dello Spirito Santo, e più in generale di lui tace sempre dove tratta il problema dell'unità di Dio. In effetti egli dello Spirito Santo parla soltanto nel capitolo 29, ma ne descrive soltanto l'attività santificatrice svolta nell'ambito della Chiesa, senza mai definirlo "persona" divina, alla pari delle altre due, e senza mai comprenderlo, insieme col Padre e il Figlio, in una valutazione globale veramente trinitaria della divinità; in questo senso si è già notato come alla carenza del concetto corrisponda anche la carenza terminologica, in quanto N. si astiene dal fare uso del termine "trinitas", che pure leggeva nell'Adversus Praxean di Tertulliano. In costui l'uso del neologismo era in funzione di una concezione veramente trinitaria della divinità, in quanto egli aveva cercato di inserire anche lo Spirito Santo nel rapporto intradivino: perciò sotto questo punto di vista la riflessione di N. sembra segnare un regresso rispetto a quella di Tertulliano. Questa apparente anomalia va con molta probabilità intesa come una deliberata presa di distanza di N. rispetto alla sua fonte: in effetti Tertulliano, nell'ambito della sua riflessione trinitaria, aveva sviluppato il ruolo dello Spirito Santo in conseguenza della sua adesione al montanismo, sì che N., reagendo in senso antimontanista, ha ritenuto opportuno lasciar cadere quell'aspetto della dottrina trinitaria di Tertulliano che egli riteneva, non a torto, influenzata dalla grande considerazione in cui i montanisti tenevano il Paracleto, cioè lo Spirito Santo, da cui si consideravano direttamente ispirati. Posto perciò che N. si presenta, sulla base del De trinitate, nella veste di qualificato rappresentante della dottrina cristologica e trinitaria del Logos in opposizione alle dottrine monarchiane, così come prima di lui Tertulliano in Africa e soprattutto lo Pseudo Ippolito a Roma, a questo punto è necessario chiedersi che cosa abbia significato questa sua posizione nel contesto dottrinale della comunità cristiana di Roma verso la metà del III secolo. Si è sopra accennato che la maggioranza degli studiosi è orientata a considerare la stesura del De trinitate anteriore all'inizio dello scisma, anche se nell'opera manca ogni serio indizio a favore di questa collocazione cronologica, come per altro anche a favore di una datazione posteriore. Ora va precisato che questo interesse degli studiosi a favore di una datazione alta dell'opera è in funzione di un apprezzamento molto forte del suo significato in ambito comunitario. In effetti, anche se lo scisma novazianeo fu determinato da motivazioni del tutto estranee alla dottrina esposta nel De trinitate, è fuori di dubbio che, se l'opera fosse stata dettata da un N. già scismatico, il suo significato nell'ambito complessivo della comunità romana non avrebbe mancato di risentirne. Invece si avverte forte negli studiosi moderni (F. Loofs, A. Grillmeier, B. Studer, ecc.) la tendenza a considerare il De trinitate novazianeo espressione ufficiale dell'ortodossia romana in ambito trinitario. In altri termini, in relazione al panorama dottrinale di Roma cristiana agl'inizi del III secolo qui sopra delineato, il contrasto tra il monarchianismo modalista e la dottrina del Logos si sarebbe alla fine risolto, e in maniera definitiva, a vantaggio di quest'ultima dottrina, che d'ora in poi avrebbe rappresentato l'indirizzo ufficiale della comunità romana in materia di teologia trinitaria. Ma questa generalizzata convinzione non tiene nel debito conto il fatto che prima di N. la dottrina del Logos era stata rappresentata a Roma dallo Pseudo Ippolito, acerrimo nemico di papa Callisto e capo di un gruppo di fedeli che si era distaccato dal grosso della comunità romana. Di contro, quello che si deve considerare l'indirizzo ufficiale della comunità in ambito dottrinale appare rappresentato dalle prese di posizione di alcuni papi, in successione prima da Zefirino e da Callisto e dopo alcuni decenni da Dionigi, e al di là di differenze anche notevoli da un autore (Callisto) all'altro (Dionigi) si ravvisa tra loro un'evidente continuità: tutti e tre furono ostili alla dottrina del Logos considerata eccessivamente divisiva; tutti e tre ricercarono una soluzione intermedia tra la dottrina del Logos da una parte e il monarchianismo radicale dall'altra; tutti e tre mirarono a salvaguardare al meglio la fondamentale opzione monoteista ereditata dalla più antica tradizione romana (Clemente, Erma). Se dal passato ci si volge al futuro, una concezione fortemente unitaria di Dio, in cui è assente la distinzione di persone, sarebbe stata ancora rappresentata, più di un secolo dopo i fatti di cui ci si sta occupando, dal concilio di vescovi italiani riunito a Roma intorno al 370 da Damaso. Solo qualche anno dopo questa data si comincia a riscontrare anche a Roma la terminologia che distingue Padre Figlio e Spirito Santo come personae divine nell'ambito della Trinità. Di fronte alla continuità e alla coerenza di una impostazione ufficiale di dottrina trinitaria che rifiutava gli esiti, considerati troppo divisivi, della dottrina del Logos, la presentazione di questa dottrina proposta nel De trinitate va considerata soltanto espressione delle convinzioni dottrinali di N. e dei fedeli di Roma che gli erano più vicini, non certo come significativa dell'indirizzo ufficiale della comunità alla metà del III secolo. Fonti e Bibl.: alcuni dati sulla vita di N. prima dello scisma si leggono nella lettera di Cornelio a Fabio di Antiochia, parzialmente riportata da Eusebio, Historia ecclesiastica VI, 43, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1908 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Eusebius Werke, II, 2), pp. 614-22; sullo scisma informano, oltre questa lettera, ibid. VI, 44-45, pp. 624-26, in partic. le lettere 44-55 dell'epistolario di Cipriano (Sancti Cypriani Episcopi epistularium [...], a cura di G.F. Diercks, Turnholti 1994 [Corpus Christianorum, Series Latina, 3B], pp. 211-95). Sull'epigrafe riguardante il martire N., v. Novaziano, La Trinità, a cura di V. Loi, Torino 1975, che alle pp. 5-9 esamina criticamente tutte le notizie relative alla vita di Novaziano. Tutti gli scritti di N. sopravvissuti sono pubblicati criticamente in Novatiani opera, a cura di G.F. Diercks, Turnholti 1972 (Corpus Christianorum, Series Latina, 4), con ampia bibliografia. Per un'edizione commentata del De trinitate, con traduzione italiana, si v. il testo di Loi citato qui sopra; su N. in generale cfr. Dictionnaire de théologie catholique, XI, 1, Paris 1930-31, s.v. Novatien et novatianisme, coll. 816-49; per la concezione della Chiesa in N. e la storia del suo scisma, cfr. H.J. Vogt, Coetus sanctorum. Der Kirchenbegriff des Novatian und die Geschichte seiner Sonderkirche, Bonn 1968; M. Wallraff, Geschichte des Novatianismus seit dem vierten Jahrhundert im Osten, "Zeitschrift für Antikes Christentum", 1, 1997, pp. 251-79; per la teologia di N. v.: A. d'Alès, Novatien. Étude sur la théologie romaine au milieu du IIIe siècle, Paris 1924; A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, Brescia 1982, pp. 332-35; M. Simonetti, Studi sulla cristologia del II e III secolo, Roma 1993, pp. 203-08. Per la sepoltura e l'iscrizione di N. v. in partic. U.M. Fasola, I cimiteri cristiani, in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, I, Città del Vaticano 1978, pp. 191-94; A. Ferrua, Novatiano beatissimo martyri, in Id., Scritti vari di epigrafia ed antichità cristiane, a cura di C.Carletti, Bari 1991, pp. 171-78.