Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Shoah è un termine utilizzato per definire il genocidio perpetrato dai nazisti ai danni degli ebrei d’Europa durante la seconda guerra mondiale. La storia della Shoah è strettamente legata a quella dell’antisemitismo politico e dello Stato-nazione moderno. L’intera esperienza del nazismo non può essere compresa se non attraverso la congiuntura socio-economica, politica e culturale che ha riguardato un intero continente. Lo sterminio dei semiti diventa la cartina al tornasole di un’intera civiltà e delle modalità con cui le sue strutture organizzative (lo Stato-nazione) hanno disumanizzato il “diverso” per eccellenza: l’ebreo.
All’origine della “questione ebraica”
Shoah è un vocabolo biblico che designa una catastrofe, una distruzione. La genealogia di questo evento cardine di una civiltà intera (quella ebraica), ma anche di tutto l’Occidente, è relativamente recente: si lega – come ha osservato Hannah Arendt – alla nascita dell’antisemitismo moderno e ai meccanismi perversi degli Stati-nazione europei. Coniata nel 1879 dal pubblicista tedesco Wilhelm Marr, l’espressione “antisemitismo” è stata ben presto adottata dal lessico politico degli schieramenti resistenti al processo di individuazione dell’età contemporanea: da quelli conservatori-clericali e reazionari-nazionalisti a quelli socialisti anticapitalisti. L’affare Dreyfus nella Francia della Terza Repubblica è l’evento cruciale che porta all’attenzione dell’opinione pubblica occidentale i limiti intrinseci dell’emancipazione liberale ottocentesca. Pochi anni dopo, l’apparizione a Parigi dei Protocolli dei savi anziani di Sion, apocrifo redatto dalla polizia segreta russa, compendia abilmente il teorema del “complotto ebreo”, fatto proprio – in maniera trasversale – da tutti quei movimenti che identificano nell’ebreo l’alfiere della modernità, il distruttore dei “limiti”, il “traditore” del retaggio. Nella Vienna tardoimperiale, antifemminismo e antisemitismo convergono nel lavoro del filosofo di origine ebraica Otto Weininger, Sesso e carattere (1903). L’ebreo viene rappresentato quale chiavistello e simbolo della disintegrazione contemporanea. Un elemento accomuna tutte queste costruzioni simboliche: la politica si è fatta ormai estetica, ha perso progressivamente la sua aura di discorso razionale intorno al buon governo. L’ebreo “complotta” contro la sanità dell’organismo europeo nella misura in cui rigetterebbe l’ansia di radicamento moderno: il suo nevrotico movimento mette a repentaglio la stabilità e l’identità di quello che Michel Foucault ha definito il “medesimo”.
Il passaggio dall’antigiudaismo religioso all’antisemitismo scientifico è un fenomeno strisciante, trasversale, spesso impercettibile, che coinvolge all’unisono il mondo scientifico, politico e sociale occidentale. L’Europa del periodo interbellico è attraversata da una crisi politica ed economica che marca, da una parte, il crollo del sistema di mediazione dei conflitti interstatali derivante dalla Vienna postnapoleonica (il diritto pubblico europeo, secondo il filosofo tedesco Karl Schmitt), e, dall’altra, l’implosione di tutte le contraddizioni insite nello Stato-nazione contemporaneo. La Società delle Nazioni, l’organo internazionale preposto alla mediazione dei conflitti sorto dopo la prima guerra mondiale per opera delle potenze vincitrici, non riesce a garantire un ventaglio di diritti anzitutto fisici alle persone prive di una cittadinanza politica (di qui la figura degli apolidi). La Palestina, sotto mandato britannico, è una meta tutt’altro che ambita dalla popolazione ebrea (è una terra economicamente arretrata e politicamente insicura). L’emigrazione nel Nuovo Mondo è resa difficoltosa dall’introduzione di quote migratorie protezionistiche, che finiscono per riflettersi soprattutto sui meno abbienti. L’ebreo europeo non è una figura unica e indivisa: in Occidente egli è dotato di diritti politici e civili e ha ridotto l’appartenenza etnico-religiosa a un fatto privato; in Oriente e nel sud sefardita egli avverte con maggiore forza la propria affiliazione etnica a una cultura ben precisa, il che lo rende maggiormente individualizzabile per foggia e abitudini e, di conseguenza, perseguitabile dalle autorità statali.
L’obiettivo dell’antisemitismo nazista è chiaro: procedere alla progressiva emarginazione dei cittadini di confessione mosaica (ora semplicemente Juden, ebrei) dalla Volksgemeinschaft (comunità nazionale) tedesca, sorretta su tre pilastri: il popolo, lo Stato e il capo (Führer). Il metodo innovativo consiste in una forma di violenza legalizzata, l’applicazione del principio schmittiano dello stato d’eccezione, della decisione che informa la regola: nel 1933 vengono promulgate le prime leggi discriminatorie che escludono gli ebrei dalla vita pubblica; nel 1935 le Leggi di Norimberga privano gli ebrei dei diritti costituzionali; nel 1938 si assiste alla requisizione dei patrimoni, ai pogrom e all’esclusione da ogni attività civile; nel 1941 viene imposto agli ebrei di indossare una stella gialla con la scritta Jude. Siamo ormai alle porte della Shoah, dello sterminio pianificato di una civiltà: non è importante tanto stabilire se l’Olocausto rappresenti l’applicazione del programma di Hitler e del suo apparato (tesi della scuola intenzionalista) o se invece sia stato l’esito di un processo conflittuale e incontrollabile di radicalizzazione cumulativa (tesi della scuola funzionalista), quanto evidenziare la sua esemplarità storica e le sue profonde radici nella civiltà occidentale. Lo sterminio dei giudei e di tutta una serie di minoranze “sub-umane” (handicappati, omosessuali, slavi, zigani) pone in luce non solo l’ampiezza e la complessità del progetto profilattico nazista, ma anche il carattere profondamente moderno e innovativo della tanato-politica.
Le tre tappe della “soluzione finale”
La “soluzione finale” della questione ebraica attraversa tre tappe ben precise. Dal 1933 al 1939 il regime nazista giunto al potere procede progressivamente all’esclusione legale dei cittadini di confessione mosaica attraverso misure di emarginazione, di espropriazione e di sfruttamento economico che li rendano superflui e inutili alla società civile tedesca. Il decreto di Norimberga, emanato nel settembre 1935, definisce l’ebreo a partire dalla sua ascendenza: non appartenendo alla “razza ariana”, egli non ha diritto di cittadinanza politica. Il problema dei rifugiati ebrei tedeschi (e austriaci dopo l’annessione al Reich hitleriano nel marzo 1938) viene affrontato dal consesso internazionale durante la conferenza di Evian nel luglio 1938. Voluta personalmente dal presidente americano Roosevelt, la conferenza si limita a prendere atto della tragica situazione creando un comitato ad hoc, con sede a Londra, incaricato di studiare la sistemazione dei profughi. Di fatto viene riconosciuto l’inalienabile diritto di sovranità sui propri cittadini da parte della Germania. Nessun Paese del consesso civile è disposto a ospitare un congruo numero di rifugiati, né ad applicare sanzioni di ordine economico alla Germania. Alla vigilia della seconda guerra mondiale non esiste un asilo sicuro per i rifugiati ebrei esclusa la Palestina per ragioni politiche contingenti poco appetibile: gli emigranti dell’area tedesca avvertono sulla propria pelle la condizione di apolidi, di persone prive di diritti politici e fisici, cioè di uno Stato-nazione che garantisca la loro vita.
La seconda fase della “questione finale” ha inizio con l’occupazione tedesca della Polonia nel settembre 1939, allorquando prende il via la reclusione degli ebrei nei ghetti. Con l’istituzione del Governo Generale (formato dal territorio della Polonia occupata non annesso alla Grande Germania hitleriana), retto da Hans Frank (1900-1946), agli ebrei polacchi viene ingiunto di indossare un “braccialetto ebraico”, viene imposto il coprifuoco e viene vietato l’uso delle ferrovie. A partire dall’inizio del 1940, gli ebrei polacchi vengono riuniti e ammassati in un quartiere cittadino, poi recintato da alte mura e soggetto al coprifuoco serale (Lódz, Varsavia, Cracovia, Lublino e L’vov). Nel giugno del 1940 Adolf Eichmann (1906-1962), responsabile della questione ebraica nell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA) retto da Reinhard Heydrich (1904-1942), elabora un progetto di emigrazione di quattro milioni di ebrei in Madagascar, che viene accantonato per difficoltà di ordine logistico nel febbraio 1942. Nella primavera 1941 vengono creati quattro commando speciali (Einsatzgruppen), composti di volontari delle SS. In previsione della “guerra di sterminio” contro l’Unione Sovietica, la loro missione segreta è quella di assassinare gli alti gradi del regime staliniano e gli ebrei di sesso maschile in un territorio che ne conta circa quattro milioni. Tra la fine di giugno 1941 e la fine del 1942 le Einsatzgruppen sterminano circa un milione e 300 mila ebrei sovietici: catturati spesso con la collaborazione di ausiliari locali (baltici e ucraini), essi vengono spogliati dei propri averi e fucilati sul posto.
La terza fase della “soluzione finale” prende il via con l’aggressione dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941. È molto probabile che proprio in questi mesi Hitler abbia preso la decisione, rimasta evidentemente verbale, del genocidio. Di fine luglio è un dispaccio di Hermann Göring (1893-1946), ministro dell’Interno del Reich, a Heydrich, che lo incarica di “adottare tutte le necessarie misure preparatorie, dall’organizzazione, alla realizzazione, al reperimento dei mezzi materiali, per arrivare a una soluzione totale della questione ebraica nella zona di influenza tedesca in Europa”. Le modalità del genocidio vengono discusse alla conferenza di Wannsee (sobborgo di Berlino) nel gennaio 1942 organizzata dallo stesso Heydrich: senza creare nuove strutture, bisogna evacuare gli ebrei verso est per risolvere definitivamente la “questione ebraica”. La prima tappa dello sterminio pianificato consiste nell’imporre condizioni di vita disumane agli ebrei ammassati nei ghetti polacchi. La seconda tappa consiste nello spogliare di tutti i beni gli ebrei occidentali. Nel giro di pochi mesi iniziano le deportazioni di massa attraverso convogli speciali delle ferrovie: ammassati come bestiame in vagoni-merci, molti ebrei provenienti dai quattro angoli dell’Europa muoiono di fame, di stenti e di malattia ben prima di giungere al campo di concentramento e di sterminio. Le camere a gas fisse diventano, all’inizio del 1942, il mezzo definitivo di sterminio. L’“operazione Reinhardt” conduce alla costruzione di tre campi di sterminio, dove vengono assassinati quasi esclusivamente ebrei polacchi: Belzec, Sobibór e Treblinka. Auschwitz, località dell’alta Slesia polacca, è il luogo prescelto per la costituzione di tre campi diretti dall’ufficiale delle SS Rudolf Höss (1900-1947): un campo di concentramento, uno di sterminio e uno di lavoro. Tra il febbraio 1942 e il novembre 1944 vengono uccisi ad Auschwitz circa un milione di ebrei europei attraverso un potente insetticida (lo zyklon B), mentre i loro corpi vengono cremati in appositi forni. Parallelamente, insieme ai polacchi e agli zigani, molti ebrei sono sottoposti a esperimenti medici eugenetici volti al “miglioramento” della razza ariana.
I campi di Auschwitz, sgomberati già da due mesi dalle forze tedesche, vengono raggiunti e occupati dalle truppe dell’Armata Rossa il 27 gennaio 1945. Una parte dei sopravvissuti inizia una lunga marcia verso ovest che, nella maggioranza dei casi, si concluderà con la morte per stenti e per il freddo.
Alla fine della guerra sono morti in Europa circa sei milioni di ebrei. I pochi superstiti (circa un milione) cercano di reintegrarsi nei vecchi paesi ospitanti, ma, dopo vani tentativi (i pogrom antiebraici proseguono anche dopo la fine della guerra e non pochi ebrei muoiono per malattia), riescono a emigrare in America o in Palestina.
Dopo l’orrore del silenzio, il coraggio della riflessione
La “soluzione finale” della questione ebraica ha evidenziato non solo la forza della macchina burocratico-statale moderna, capace di de-responsabilizzare i suoi membri e di ridurre la persona umana a un mero numero; è stato anche un drammatico esperimento socio-antropologico che ha mostrato la faccia oscura di una intera civiltà. Le vittime, innanzitutto: sono attestati episodi di rivolta nel cuore stesso dell’operazione di sterminio, che raggiungono il loro apice con l’insurrezione del ghetto di Varsavia nell’aprile 1943; i cosiddetti Judenräte (Consigli ebraici), gli organi preposti all’autoamministrazione dei ghetti, hanno dimostrato la frattura esistente tra gli anziani più prudenti e gli idealisti più ribelli. I civili, in secondo luogo: non è tanto importante rileggere moralmente l’atteggiamento di persone che sapevano o che intuivano i crimini, quanto cercare di comprendere che cosa le ha indotte al silenzio. Gli alleati, in terzo luogo: anche in questo caso esistono prove circa la conoscenza del sistema concentrazionario, ma gli obiettivi bellici e ragioni di politica interna hanno indotto soprattutto i Paesi anglosassoni al silenzio. Israele, infine: i silenzi della comunità ebraica in Palestina ( yishuv), maggiormente intenta a perseguire i propri obiettivi politici statuali, hanno re-introdotto la diaspora (e la Shoah) nella propria storia unicamente con eventi quali lo spettacolare processo Eichmann nel 1961.
La fine del XX secolo ha riportato prepotentemente in auge il problema dell’antisemitismo nel villaggio globale. Il vuoto politico-normativo susseguente al crollo del blocco sovietico ha prodotto l’insorgenza del fondamentalismo islamico quale progetto politico smaccatamente antioccidentale, che fomenta una guerra civile egemonica tutta interna alla umma (comunità dei fedeli). L’antisemitismo si è globalizzato, così come l’immagine dell’ebreo: i motivi del “complotto ebraico-sionista”, già ampiamente diffusi negli anni Sessanta e Settanta nel mondo arabo (la diffusione dei Protocolli dei savi anziani di Sion ne sono una testimonianza probante), convergono verso la riscoperta di un intransigentismo religioso e razzista che osteggia l’“imperialismo” americano, arrogante, individualista e relativista, e la possibilità di vivere in un mondo plurale, laico e tollerante. Come ha osservato Georges Bensoussan (1952-), insegnante di storia e autore di pubblicazioni sulla Shoah, l’eredità di Auschwitz non consiste unicamente in un flemmatico e ossessivo sentimentalismo, in un culto dei caduti o dei giusti, in una condanna morale degli assassini, ma ingiunge che la Shoah venga compresa in termini politici, penetrando nell’universo mentale e umano dei carnefici. Liberandola dalle maglie di sterili diatribe teologiche o filosofiche, la storia del genocidio antiebraico diventa il lungo viaggio nel “cuore di tenebra” di una intera civiltà, che mette continuamente in discussione lo statuto di tutti i suoi esseri umani, capaci di aprirsi al nuovo partendo da una lucida e disillusa comprensione di se stessi.