ANTISTENE ('Αντισϑένης, Antisthĕnes)
Figlio d'un Ateniese e d'una schiava di Tracia, solo per metà greco quindi, discepolo, in età matura, di Socrate e, già prima, di Gorgia e d'altri sofisti, Antistene fu il fondatore della scuola che chiamarono dei Cinici e Aristotele diceva degli Antistenei. Gli anni della sua nascita e della sua morte non ci sono noti con precisione. Forse la sua nascita potrebbe essere collocata nel 436 a. C.; e A. avrebbe raggiunto i settant'anni; cosa assai incerta, del resto. Era legato a Socrate come nessun altro; non lo lasciava mai; fu presente alla morte del maestro e ne ascoltò gli estremi insegnamenti; e pose, si può dire, a dogma fondamentale della sua scuola, la forza e l'energia che aveva mostrate Socrate in vita e in morte. Ma non ostante tanta e così sincera ammirazione, Antistene fu più che un semplice discepolo. E così, per esempio, nella vita non gli basta esser povero, come il maestro; vuole ostentare la sua povertà, e ne ha i rimproveri di Socrate, molto più equilibrato dei suoi discepoli.
Ma l'individualità di Antistene si rivela soprattutto nella dottrina. Socrate aveva uno spirito assetato d'analisi e d'esame, congiunto a una straordinaria abilità dialettica; aveva una tendenza a tutto razionalizzare, anche i più umili fatti, e in tutto assodare il dominio della ragione. Ma questa tendenza era in lui attenuata e, in certo modo, mascherata dal suo metodo delle definizioni dei concetti; sicché non sui fatti sembrava ch'egli ragionasse, ma sulle idee; la sua dialettica pareva un semplice gioco di pensieri, da cui la realtà fosse lontana. Procedimento complesso e ingombrante, che ad Antistene non piaceva. Antistene ha bensì lo spirito critico del maestro; ma vuole agire immediatamente sulla realtà, sui fatti, disgustato com'è del carattere artificiale e della corruzione della società nella quale vive; ai mali della società urge provvedere; la definizione socratica non serve allo scopo, è un vano esercizio dialettico.
Il suo metodo vuol essere, come altri ha detto, un empirismo concreto. La scuola cinica ha soprattutto un ideale che mira a radurre in atto: la lotta contro la società civile e il ritorno allo stato di natura. Al lusso, ai bisogni artificiosi, alla mollezza, allo snervamento dell'uomo civile fanno un singolare contrasto la parsimonia, l'indipendenza, la sobrietà degli animali e degli uomini primitivi: a questi bisogna tornare. E Antistene scrive un libro sulla natura, degli animali, appunto con l'intento precipuo di trovare fra questi i modelli da imitare nella vita; e in una serie di scritti si propone, con una nuova interpretazione dei miti, di cercare pur qui appoggio e argomento nella lotta contro la società; segnatamente in quelli consacrati ad Ercole (Ercole maggiore o della forza; Ercole ovvero della prudenza o della forza; Ercole o Mida); si studia di presentare in quest'eroe della forza e dello sforzo il simbolo di quelle doti essenziali per la libertà e l'indipendenza, senza le quali non si dànno virtù e felicità. E in un dialogo politico condanna in blocco tutti gli uomini politici più riputati d'Atene; e in un altro dialogo intitolato Ciro studia e condanna, probabilmente, il sistema d'educazione dei Persiani, per venire alla conclusione che di nessun significato sono le vittorie riportate dagli Ateniesi sopra un nemico cosiffatto, privo di virtù civili e militari, svalutando così le glorie sacre della patria. Condanna ogni forma di reggimento politico; il democratico non meno del tirannico e dell'aristocratico; non secondo le leggi scritte si governa il saggio, ma secondo quelle della natura: concetto informatore del cinismo è la lotta fra la legge titanna e la natura libera, fra il νόμος e la ϕύσις, cioè, in fondo, fra la società e l'individuo. Né meno persegue Antistene, con lo scherno e il sarcasmo, le pratiche superstiziose del culto e le credenze della folla; episodî significativi in proposito si riferiscono di lui; con la sua intelligenza penetrante, con la sua tendenza alle soluzioni radicali, egli non può non riconoscere con chiarezza, non sentire con energia le contraddizioni, le assurdità, le indegnità del politeismo greco e non contrapporre, anche qui, al νόμος corruttore la ϕύσις benefica; ché infatti secondo lui la legge, il νόμος solo vuole che vi siano più dei, mentre, invece, secondo la natura, la ϕύσις, non v'è che un dio unico, il quale non assomiglia ad alcuna cosa visibile, e non può essere rappresentato con alcuna immagine.
Siffatto concetto del ritorno alla natura, alla ϕύσις, e dello straniarsi dal νόμος, dalla vita sociale, Antistene accentua massimamente nel suo disdegno contro i beni esterni e di fortuna, contro le ricchezze, gli onori, la gloria. Antistene è come il filosofo della volontà; a questa forza dominatrice egli riduce addirittura tutta la morale; ciò ch'egli ammira più in Socrate, il maestro, s'è visto, è appunto la forza di volontà ch'egli metteva a dominarsi; l'uomo è soprattutto forza e volontà. Per questo Antistene inveisce contro il piacere; non solo egli nega che il piacere sia un bene, ma lo considera come il peggiore dei mali; preferirebbe al piacere la pazzia; il piacere vuol dire soggezione alle passioni, schiavitù, annientamento della volontà, quindi annientamento dell'uomo: se v'ha un piacere legittimo, è quello solo che deriva dalla fatica, dallo sforzo, dall'esercizio della volontà; a rigore, il piacere vero e proprio non esiste; esiste soltanto sotto forma di scampo, di liberazione dal dolore, λυπῶν ἀποϕυγαί.
Combattendo la mollezza e il rilassamento dei suoi contemporanei, Antistene non sa concepire la morale che sotto la forma negativa di lotta e di contrasto, di superamento di difficoltà e di ostacoli, di efficacia di lavoro e d'azione. Il lavoro e l'azione è il concetto nuovo e saldo del Cinico, quasi si potrebbe dire il lato positivo della sua dottrina negativa. La sola cosa chiara che si scorga in questa dottrina, è che la saggezza si confonde con la volontà diritta, con la forza, con l'impero sopra sé stesso, con l'attività, con l'esercizio: se Antistene dice egli pure, col maestro, che la virtù si può insegnare ed apprendere, intende riferirsi piuttosto all'esercizio morale della saggezza e della prudenza che a un vero e proprio insegnamento scientifico.
Del sapere teoretico, come tale, Antistene non è tenero in alcun campo; la filosofia sta per lui in una maniera di condotta, non nella scienza o in una scienza; quando si pensa alla sua avversione e alla sua lotta contro la civiltà, alla sua propaganda per il ritorno alla semplicità e all'innocenza dello stato di natura, ci si rende conto facilmente di tale atteggiamento. Non aveva una decisa ostilità contro la cultura, come certe frasi a lui attribuite farebbero supporre; ma certo, in ogni modo, la cultura egli considera soprattutto nei suoi effetti pratici; ogni ricerca che si dilunghi da questo scopo pare a lui un perditempo, una sottigliezza, se non anche una delle tante illusioni, di cui sono in preda gli uomini.
Recisamente avverso, adunque, com'era, ad ogni forma di dialettica e di logica, Antistene in sulle prime pareva volesse seguire il metodo del maestro, il metodo delle definizioni: non si può discorrere d'una cosa, se non si dichiara ciò che era e ciò che è, appunto, il discorso non ha altro intento che questo: λόγος ἐστὶν ὁ τὸ τί ἦν ἢ ἔστι δηλῶν (Diog. Laerz., VI, 1, 3). Ma il discepolo da tale premessa giunge ben tosto a risultati inattesi. Non si può dire di una cosa che ciò che è, vale a dire ripetere il suo nome semplicemente: aggiungere un altro nome a quello che la determina varrebbe considerarla altra da quello che è; aggiungere a un soggetto un predicato che gli sia estraneo. Impossibili pertanto le definizioni, quando pretendano chiarire concetti per mezzo d'altri concetti; vani esercizî di parola, che non toccano l'essenza delle cose, le cose si possono tutt'al più comparare ad altre, non definirle; si potrà dire d'una cosa qual'è rispetto ad altre, non dire quale sia in sé stessa.
Un nominalismo schietto, adunque, questo d'Antistene, che è, insieme, uno schietto individualismo. Dell'insegnamento ovvero dei nomi s'intitola una sua opera. Se non si può spiegare una cosa per mezzo d'un'altra; se una cosa non è che ciò che indica il suo nome, vuol dire che ogni realtà è assolutamente individuale; le cosiddette idee generali sono solo astrazioni della mente, nude nozioni, senza esistenza di sorta; "vedo il cavallo, non vedo la cavallita", "vedo l'uomo, non vedo l'umanità", opponeva Antistene a Platone.
E questo nominalismo implica anche la negazione della scienza. Come può esistere la scienza, se delle cose non v'è modo di affermare che la loro identità con sé stesse? Antistene infatti non è lontano dall'ammettere, egli stesso, tale negazione, quando trae dalla sua dottrina la conseguenza che non sia possibile il contraddire. La quale asserzione implica, non solo, come vorrebbe Aristotele, che nessuna proposizione falsa sia possibile, ma che non sia possibile nessuna proposizione in generale; cioè, appunto, che non sia possibile la scienza. Di qui, per Antistene, pena perduta, come s'è detto, ogni sforzo scientifico che non sia volto all'attività pratica. Forse la sua opera in quattro libri "intorno all'opinione e alla scienza", Περὶ δόξης καὶ ἐπιστήμης, e l'altra "opinioni ovvero eristico", Δόξαι ἢ ἐριστικός, non avevano altro intento che questo, stornare gli uomini dalle ricerche scientifiche, come vane.
La lista degli scritti d'Antistene ci è data da Diogene Laerzio; ma, oltre alcuni frammenti, non ci sono pervenute di lui che due piccole declamazioni di molto poco valore, Aiax e Odysseus; la cui autenticità, del resto, è incerta. Timone, come ci narra Diogene Laerzio (VI, 18), chiamava Antistene, per l'abbondanza dei suoi scritti, παντοϕυῆ ϕλεδόνα.
Bibl.: Senofonte, Convito; Diogene Laerzio, VI; A. W. Winckelmann, Antisthenis Fragmenta, Zurigo 1842; C. Chappuis, Antisthène, Parigi 1854; Ad. Müller, De Antisthenis Cynici vita et scriptis, Dresda 1860; Ferd. Dümmler, Antisthenica, Halle 1882; K. Joel, Der echte und der Xenoph. Sokrates, Berlino 1893-1901, II, parte 1ª, p. 38 segg.; L. A. Rostagno, Le idee pedagogiche nella filosofia cinica e spec. in Antistene, Torino 1904; G. Rodier, Conjecture sur le sens ded la mor. d'Antisth., in Année phil., 1907; G. Zuccante, Antistene, in Rend.Istit. Lomb., s. 2ª, XLIX e in Riv. di Filos., VIII (1916); id., Antistene nei dialoghi di Platone, in Rend. Ist. Lomb., ibid., e Riv. di Filosofia, VIII (1916), n. 5; id., Diogene, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5ª, XXIII; G. R. Orsini, I filosofi cinici, Torino 1920 ecc. Da vedere anche, nella parte che riguarda Antistene e i Cinici, le note opere generali di G. Grote, Plato and the other companions of Sokrates, Londra 1885; di E. Zeller, Philosophie der Griechen, Lipsia (1879-1923); di Th. Gomperz, Griechische Denker, ult. ed. Lipsia 1909-1912.