antitesi
. Denominata anthiteton o anthitesis presso i Greci, è conosciuta dai retori latini come contentio, contrarium, oppositio, contrapositum. Consiste nell'accostamento di due parole o di due sententiae di senso contrario, e ha come caratteristica essenziale la disposizione parallela dei termini, talché contribuisce alla definizione dei cola. Inclusa fra i colori retorici nelle ‛ arti poetiche ' medievali, vien limitata nella quadripartizione di Matteo di Vendôme all'opposizione parallela di constructiones, di aggettivi, di nomi, di verbi (Ars versificatoria III 26-29), mentre viene estesa da Evrardo l'Allemanno (Laborinthus 449-450) al contrasto fra due diverse parti del discorso (" vita moritur "), un modulo che trova riscontro nell'uso dantesco dell'a., quantunque non frequentemente: cfr. ad es. dura mitescerent (Ep VII 2). D. preferisce generalmente nell'a. la forma simmetrica; talvolta l'esigenza di variare, ma soprattutto le necessità della metrica e del lessico lo inducono a evitare che le parti del discorso si corrispondano perfettamente, come nei casi seguenti: Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto (If XXVI 136), e cortesia fu lui esser villano (XXXIII 150), trattando l'ombre come cosa salda (Pg XXI 136, dove tuttavia cosa salda equivale al sostantivo neutro del latino); mia mente unita in più cose divise (Pd X 63), com'è vinto / nel montar sù, così sarà nel calo (XV 111, dove tuttavia il verbo è adoperato in funzione sostantivale), non possono quietar, ma dan più cura (Cv IV Le dolci rime 58).
Il gusto dell'accostamento antitetico dei termini è spesso giustificato da un'esigenza di ornamentazione, che mira a dar rilievo al discorso senza però essere richiesta da una complessa ragione espressiva. A parte quei casi in cui la ricerca dell'a. è puramente verbale (cfr. If II 70-71 I' son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; Vn XXXI 12 42-43 com'ella n'è tolta. / Dannomi angoscia; XX 5 14 E simil face in donna omo valente, dove solo la particolare posizione delle parole scopre l'intenzione di un accostamento antitetico; post diei orientis occasum [Ep VII 18], dove orientis è una zeppa per ottenere l'antitesi), s'incontra frequentemente in D. l'a. come procedimento di amplificazione o come un modo di costruire una perifrasi o soltanto come un mezzo per dar rilievo a uno dei termini. Il fondamentale carattere ornamentale non toglie tuttavia all'a., in questi casi, la sua più profonda ragione, che consiste nella consapevolezza filosofica, da parte dell'autore, del valore dimostrativo della distinzione e dell'argomentazione dialettica. Alla tecnica dell'amplificazione vanno ricondotte alcune a. della Commedia, quando la negazione del contrario non serve che a ribadire un concetto: non ti fia grave, ma fieti diletto (Pg XV 32; cfr. If XII 87 necessità 'l ci'nduce, e non diletto, dove tuttavia è più evidente il fondo raziocinativo e interessante la disposizione estrema dei due termini opposti); Prima era scempio, e ora è fatto doppio (Pg XVI 55); a mal più ch'a bene usi (Pd III 106). L'esempio più tipico, anche perché sviluppato in una serie di membri paralleli e teso dall'anafora, è quello di If XIII 4-6 Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami, schietti, ma nodosi e 'nvolti; / non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco, dove si attua una sorta di progressione, che culmina con un'a., più ‛ difficile ' perché meno esplicita (tòsco si oppone alla dolcezza implicita nella nozione di pomi). Questi ultimi casi si accostano tuttavia alla perissologia, di cui un esempio tipico è quello di If XV 124 ( parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde). Lo schema, che qui rivela, ancora, una ragione esornativa, è diffuso nel Convivio come riflesso del procedimento scolastico del ‛ provare e riprovare '. Circonlocuzioni sono sostanzialmente a., come quella di If XXVI 140-141 (la poppa in suso / e la prora ire in giù), con cui l'andare a picco della nave acquista una certa evidenza visiva, o quella di Pg XVI 72 (per ben letizia, e per male aver lutto), o quelle di Pd I 3 (in una parte più e meno altrove), XIII 18 (l'uno andasse al primo e l'altro al poi), XIX 11 (e " io " e " mio ", / quand'era nel concetto e ‛ noi ' e ‛ nostro '), XXVIII 64 (ampi e arti / secondo il più e 'l men), 77 (di maggio a più e di minore a meno). Lo stesso si potrebbe dire della più consueta espressione di Cv IV V 16 maggiormente di te parlare non si può che tacere.
Una funzione simile ha l'accostamento di termini antitetici quando essi non fanno altro che indicare quasi simbolicamente attraverso due estremi una più lunga e varia gamma di situazioni: in caldo e 'n gelo (If III 87; cfr. caldi e geli, Pg III 31; per lo tempo caldo e per lo freddo, Rime CII 9); Morti li morti e i vivi parean vivi (Pg XII 67), per dilettante o ver per doglie (IV 1), si vegghi e dorma (Pd III 100), allenta e tira (XV 6; cfr. Rime XCI 87, CXIV 10), si monta e cala (Pd XXII 103); oppure quando una nozione generica viene risolta nelle sue possibili determinazioni: e dì e notte (Pg VI 113) equivale a " sempre " (cfr. Rime CVI 82, Ep VII 20 tam vernando quam hiemando); la varietà' della forma e dei movimenti delle luci nel cielo di Marte è indicata da tre coppie di vocaboli antitetici (dritte e torte, / veloci e tarde... / lunghe e corte, Pd XIV 112-114); la riposta di D. a s. Giovanni (XXVI 13-18) inizia (e tosto e tardo) e termina (o lievemente o forte) con un'a., e ambedue le coppie antitetiche, che racchiudono un discorso in cui le contrapposizioni sono artificiosamente ricercate (ella... io, v. 15; Alfa e O, v. 17), indicano rispettivamente un tempo indefinito e la varia intensità dell'insegnamento scritturale. A questi vanno aggiunti quei casi in cui l'a. ha una pura funzione esemplificativa e didattica, come ad es. che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia oscura (Cv IV II 4), dove si indica con l'esempio limite l'errore della percezione sensoriale, oppure non enim posset facere terram ascendere sursum, nec ignem descendere deorsum (Mn III VII 5), dove il ‛ miracolo ' vien designato col capovolgimento della più tipica delle leggi naturali.
L'a. in D. è in gran parte legata alla tradizione della letteratura sacra che ama dare particolare rilievo all'opposizione fra il terreno e il divino, il materiale e lo spirituale, l'aspetto esteriore e l'interiore sostanza delle cose e dell'uomo. In Cv IV V 12 il ripetuto contrapporsi di ‛ umano ' e ‛ divino ' costituisce una formula necessaria; diremo lo stesso di coelestia... infera nostra (Ep VI 2). Nella Commedia il richiamo al fondamentale dualismo della concezione religiosa appare variamente risolto: ne la vita corta, / e ne l'etterna (If XII 50-51), qua sù, là giù (Pd XXVII 27), fattore / ... fattura (XXXIII 5-6), defettivo... perfetto (v. 105). Ma, soprattutto, in Pd XXXI 37-39 l'insistenza su questa formula antitetica (ïo, che al divino da l'umano, / a l'etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano) è volta a dar evidenza all'ultima, insolita a., alla quale è affidata un'indiretta e sottile condanna della città quale simbolo dell'ingiustizia terrena. L'opposizione fra il limite umano e la verità che lo trascende suggerisce l'a. luce/tenebre in Pg XV 66, un tema diffusissimo nella letteratura religiosa. A questa prospettiva che domina nel poema e alla stessa situazione del racconto va ricondotto il frequente confronto, che non può risolversi che in forma antitetica, fra le forme viventi e la realtà oltremondana, in cui il poeta si compiace di certa pregnanza allusiva serbata da alcuni termini: sovra lor vanità che par persona (If VI 36), anima viva, / pàrtiti da cocesti che son morti (III 88-89); o dell'apparente assurdità di certe analogie: Qual io fui vivo, tal son morto (XIV 51). Un'analoga opposizione, fra l'apparenza esterna e l'interna realtà, viene talora affidata all'evidenza dell'a.: si veda Vn VII 6 19-20 (di fuor mostro allegranza, / e dentro da lo core struggo e ploro), che riflette una situazione psicologica d'importanza fondamentale nella struttura narrativa del libello; e si vedano specialmente due a. del poema che svolgono un tópos concernente il tema dell'umiltà: Né li gravò viltà di cuor le ciglia / ... per parer dispetto a maraviglia; / ma regalmente (Pd XI 88-91), umile e alta più che creatura (XXXIII 2). Il medesimo tópos è al fondo dell'a. di Pg X 66, che giudica l'umile danza di David (e più e men che re era in quel caso). L'impiego dell'a. è anche collegato con la dottrina etica e in particolare con quella del mondo cortese; sicché l'ardita ricerca di Ulisse è rivolta ad acquistar esperienza de li vizi umani e del valore (If XXVI 99), i due termini che compendiano la vita attiva dell'uomo, e li affanni e li agi (Pg XIV 109) compendiano a loro volta la vita del mondo cortese. Così ‛ vile ' e ‛ gentile ', ‛ gentili ' e ‛ villani ' si contrappongono nella canzone Le dolci rime del Convivio (cfr. Vn VIII 5 5, XXIII 9), consolarsi e dolersi (Rime CIV 74) è contrasto tipico della condizione amorosa, forte e soave (Vn XXVII 3 3-4), dolce e amaro (Rime XCI 19), martiro e dolcezza (v. 77; cfr. pietà e martiro, LXVII 3) caratterizzano la vita amorosa secondo una solida tradizione.
Generalmente D. è attento all'aspetto contraddittorio e drammatico della vita psicologica e lo rappresenta appunto attraverso l'a.: disvuol ciò che volle (If II 37), la tema si volve in disio (III 126), muta in conforto sua paura (Pg IX 65), con voglia accesa e spenta (XXV 13). Ma l'a. si presta perfettamente alla definizione di situazioni particolari, per metterne in evidenza l'innaturalità: sanza 'nfamia e santa lodo (If III 36), e piange là dov' esser de' giocondo (XI 45); o l'eccezionalità: Io non mori' e non rimasi vivo (XXXIV 25). Il tema del meraviglioso, svolto da D. nel canto dei ladri, fra le prestigiose ricerche cui ricorre la descrizione delle insolite metamorfosi, presenta ripetutamente l'a., alla quale è affidata proprio la rappresentazione del momento più incredibile del sozzo spettacolo (If XXV 111, 114, 121). Né è il caso d'insistere sul carattere esplicativo che ha talora l'a., quando il particolare significato di un vocabolo s'illumina attraverso il suo contrario: del viver ch'è un correre a la morte (Pg XXXIII 54), uomini siate, e non pecore matte (Pd V 80), che non sarebber arti, ma ruine (VIII 108), e disiato da persone sagge, / ché de l'altre selvagge... (Rime LXXXIII 126-127).