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Antitrust

di Giuliano Amato - Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)
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Antitrust

Giuliano Amato

Origini ed evoluzione negli Stati Uniti

Il trust è un antico istituto giuridico della common law inglese, che consente di attribuire fiduciariamente ad altri l'esercizio dei propri diritti. A esso pensarono di ricorrere negli Stati Uniti di fine Ottocento le grandi imprese, che erano uscite vincitrici dalle sanguinose guerre concorrenziali degli anni precedenti e che volevano gestire per il futuro una pace concordata.

I loro amministratori si riconobbero l'un l'altro il diritto di votare nei rispettivi consigli societari e si garantirono in questo modo decisioni concordate. Era la fine della concorrenza fra loro e la nascita, di conseguenza, di grandi agglomerati di potere economico, che spaventarono i tradizionali protagonisti dell'economia americana, i piccoli produttori, e i loro rappresentanti politici. Fu così che il Congresso approvò nel 1890 lo Sherman act (v. monopolio, App. III), subito battezzato legge antitrust. Da allora 'antitrust' e 'tutela della concorrenza' sono diventati sinonimi.

Per la verità, una disciplina delle intese restrittive e contro i tentativi di monopolizzazione esisteva già prima ed era fornita dalla stessa common law. Ma i suoi presupposti erano diversi. La common law tutelava infatti, nei suoi contenuti schiettamente giuridici, la libertà di contratto, con la conseguenza, per es., che un'intesa fra venditori sul prezzo, tutte le volte che era volontariamente stipulata fra di loro (e risultava per ciò stesso espressione della loro libertà di contratto), era inattaccabile in giudizio pur rimanendo per converso possibile per i consumatori 'uscire dai loro negozi' e trovarne un altro dove comprare lo stesso prodotto. Con lo Sherman act i divieti divennero molto rigidi, in nome non più della sola libertà di contratto, ma della concorrenza. E questa richiedeva che l'incontro fra venditori e acquirenti non fosse in alcun modo alterato da intese (per es., intese fra i venditori sulle quantità da offrire, o i prezzi da praticare, o i mercati su cui vendere) o da precostituite condotte unilaterali (per es., il rifiuto di rifornire questo o quel negozio da parte di un grande fornitore).

Contribuirono a questa accentuata rigidità diversi fattori. Da una parte le preoccupazioni che avevano portato alla nuova legge, e cioè la difesa dal potere economico sia della libera scelta dei consumatori, sia del 'diritto di stare sul mercato' dei piccoli produttori e dei piccoli commercianti, la sopravvivenza e l'indipendenza dei quali - avrebbe detto più volte la Corte suprema - erano un alimento vitale della democrazia americana. Dall'altra parte dette ragione a queste preoccupazioni la dottrina economica (i Principles of economics di A. Marshall uscirono lo stesso anno dello Sherman act), la quale spiegò non solo che concorrenza c'è soltanto quando quantità e prezzo risultano dal libero incontro fra domanda e offerta, ma anche che ogni alterazione del punto di un tale incontro genera cattiva allocazione delle risorse e quindi inefficienza economica.

L'a. si trovò così con un bagaglio genetico e con una conseguente missione di garanzia, che avevano una duplice valenza. Con esso si garantivano insieme l'efficienza del sistema economico e la democraticità della società nel suo insieme. Il che era reso possibile dalla convinzione, allora radicata, che il modello ideale, da entrambi i punti di vista, fosse quello vagheggiato a suo tempo da Th. Jefferson e caratterizzato dalla equilibrata interazione di milioni di little men.

Per molti anni questa duplice valenza è stata affermata e anzi rafforzata. Basti ricordare il Clayton act del 1914 e le successive leggi che, durante il New Deal degli anni Trenta, imposero con rigore ancora maggiore la tutela dei piccoli operatori, portando la Corte suprema a osservare, davanti ai cambiamenti che stavano oramai intervenendo sui mercati, che la legge sembrava preferire quella tutela alla stessa efficienza economica.

Col tempo, però, i cambiamenti economici hanno prodotto i loro effetti. Si sono allargati i mercati, la concorrenza è diventata internazionale e ha imposto ai suoi protagonisti dimensioni molto più robuste, l'organizzazione industriale e commerciale ha dato vita a nuove formule, che hanno indotto la stessa dottrina economica a rivedere i suoi postulati precedenti: un'intesa verticale di esclusiva fra un produttore e un gruppo di dettaglianti vincola certo questi ultimi a rifornirsi solo da lui e a seguirne le indicazioni per la rivendita; ma consente di offrire servizi migliori ai clienti (per es., l'assistenza postvendita) e, in presenza di più produttori di beni concorrenti, rende la concorrenza 'inter-marca' ancora più vigorosa (sia pure al prezzo della eliminazione di quella 'intra-marca', fra i dettaglianti, cioè, legati a uno stesso produttore). Anche un'intesa orizzontale fra produttori (tradizionalmente la più mal vista) può avere effetti positivi, se essi concentrano i loro investimenti nella ricerca e inventano, grazie a ciò, un nuovo prodotto che nessuno da solo sarebbe riuscito a realizzare. Insomma, non è più sempre vero che l'efficienza coincide con il massimo di concorrenza.

Ovviamente c'è un limite a tutto questo. Che cosa succede se più produttori di beni concorrenti ricoprono l'intero mercato al dettaglio con reti di distribuzione esclusive, cosicché nessun altro può entrare? O se la stessa cosa fa l'impresa più forte del settore, ostacolando i suoi concorrenti più deboli? E che cosa succede se un'intesa fra produttori oltrepassa il confine della ricerca e si estende alla commercializzazione comune dei nuovi prodotti? Sono i problemi dell'a. del nostro tempo, che certo fa ancora scattare i suoi divieti, ma davanti a soglie ben più alte di potere economico. Con la conseguenza che nel mondo cambiato di oggi la duplice valenza iniziale, e cioè la parallela garanzia della democraticità e dell'efficienza economica, si è molto indebolita: su mercati spesso sovrannazionali non hanno potere economico imprese che, all'interno dei rispettivi confini nazionali, hanno invece dimensioni molto elevate e possono esercitare, per ciò stesso, un'influenza politica superiore a quella di ciascun piccolo produttore o commerciante. Inoltre, l'efficienza economica che l'a. difende è sempre più quella che risulta benefica per il consumatore, a prescindere dallo spazio che lascia al diritto (che è sempre meno tale) dei piccoli produttori di stare sul mercato. E a chi sottolinea che ci sono, in ciò che si è perduto, dei valori meritevoli di perdurante tutela, gli addetti ai lavori (o quanto meno la maggior parte di essi) rispondono che a una siffatta tutela deve ormai provvedersi in altro modo, perché essa non può più rientrare fra i compiti dell'antitrust.

Il trapianto in Europa

Abbiamo seguito sin qui l'evoluzione dell'a. come se si fosse trattato di una vicenda interamente americana. In realtà non è così, perché esso è stato trapiantato anche in Europa, dove è giunto nel 1957 con il Trattato della Comunità economica europea a tutela della concorrenza interstatale, e si è esteso via via alla concorrenza interna a ciascuno Stato con successive leggi nazionali: la prima in Germania, sempre nel 1957, le ultime, tra cui quella italiana, nel 1990, un secolo dopo lo Sherman act.

È stato un vero e proprio trapianto, e per più ragioni. La prima è che la nostra tradizione (fatto salvo il Regno Unito) era profondamente diversa da quella americana. Sullo sfondo di principi secolari, secondo i quali lo Stato poteva essere agente economico al pari dei privati, specie per attività collegate a interessi pubblici, le economie europee erano segnate non dalla concorrenza, ma da un radicato dirigismo in Francia e dalla profonda impronta dell'aiuto e della presenza diretta dello Stato nei paesi arrivati in ritardo allo sviluppo industriale, come la Germania e l'Italia. Su queste premesse, per un verso la diffusione a fine Ottocento dei servizi di pubblica utilità volle dire, per l'Europa, diffusione di monopoli pubblici, nazionali e locali, per la loro gestione. Per altro verso, le stesse intese fra privati, e le stesse concentrazioni, in quanto collimassero con politiche nazionali, erano non perseguite, ma tutelate a prescindere dai loro effetti sulla concorrenza. Basti pensare ai consorzi, tipiche forme di intese orizzontali che le leggi italiane e tedesche hanno promosso per decenni.

La seconda ragione è che l'a. è arrivato in Europa (dove già c'erano fondamenta del genere), quando la sua evoluzione era ormai largamente compiuta e quando perciò la sua originaria utopia jeffersoniana (un'economia e una società libere palestre entrambe di piccoli operatori indipendenti) si era venuta perdendo. È bensì vero che si era affermato anche in Europa un fecondo movimento culturale per la concorrenza - la scuola degli ordo-liberali nata negli anni Trenta nell'università di Friburgo - dove un gruppo di economisti e di giuristi aveva messo a fuoco il valore della concorrenza, e dell'ordine legale necessario a garantirlo, alla luce degli effetti devastanti che stava producendo in Germania la collusione fra potere politico e potere economico. Ed è altresì vero che W. Euchen e F. Böhm, l'economista e il giurista di punta della scuola, avevano sottolineato (con parole non diverse da quelle del senatore Sherman) che la concorrenza andava tutelata proprio per il suo valore di presidio democratico e al di là, quindi, delle sole ragioni dell'efficienza economica.

Tuttavia, quando le loro impostazioni giunsero a contatto con la realtà economica dell'avanzato dopoguerra e con la difficile conversione alla concorrenza del contesto europeo e tedesco, gli adattamenti furono inevitabili. E lo testimonia in modo esemplare la legge tedesca sulla tutela della concorrenza, nata da una proposta iniziale di Böhm e approvata alla fine con limiti ed esenzioni settoriali, che egli certo non aveva previsto. Anche se va detto che, in questo modo, la Germania ebbe una legge antitrust. In Italia si cominciò a parlarne negli stessi anni; furono presentati diversi disegni di legge, ma poco dopo il tema venne lasciato cadere. L'Italia continuava in realtà a battere altre strade: gli incentivi pubblici secondo piani di politica industriale, la programmazione, la riserva allo Stato di attività 'strategiche', l'impresa pubblica nazionale e locale. E solo quando divenne stringente l'integrazione del mercato comune, nel quale la concorrenza aveva intanto preso piede, arrivò anch'essa a dotarsi di una legge a. (che a quel punto, a differenza di quella tedesca, fu una sorta di compiuta traduzione in lingua nazionale della disciplina europea).

La disciplina europea, così come quella nazionale italiana, colpisce le intese restrittive, gli abusi di posizione dominante, le concentrazioni fra imprese, che eliminano o rendono impossibile la concorrenza nel mercato rilevante (caso quest'ultimo non previsto nel Trattato del 1957 e aggiunto poi con il regolamento comunitario nr. 4064/89 del 21 dic. 1989). Essa inoltre - e qui ci si riferisce soltanto a quella europea - ha a lungo attribuito alla tutela della concorrenza un valore non autonomo, ma strumentale all'integrazione del mercato e destinato inoltre a flessibili compromessi con le altre politiche - industriale, regionale, sociale - della Comunità. Solo con gli emendamenti al Trattato introdotti a Maastricht nel 1992 la concorrenza è assurta al rango di principio fondamentale.

Questo insieme di caratteristiche ha reso l'a. europeo per più versi divergente da quello americano. La prima, significativa differenza la si deve agli abusi di posizione dominante, che sono un'invenzione tutta europea. In posizione dominante viene a trovarsi un'impresa che ha ancora dei concorrenti (a differenza del monopolio), ma molto più deboli di lei e incapaci di condizionarne i comportamenti. Arrivare a una tale posizione non è illecito, ma a quel punto scatta - dice la Corte di giustizia europea - una speciale responsabilità, che rende abusivi comportamenti altrimenti leciti: rifiutare di servire un compratore, fare prezzi diversi a compratori diversi, legare la vendita di un prodotto a quella di un altro. Gli Americani vedono questo come un modo di accettare il potere economico privato e poi di regolarlo, secondo l'antica tradizione europea che riaffiora anche qui. Nel loro a., infatti, l'impresa che arriva al monopolio può essere smantellata (accade sempre più di rado, ma è successo all'A & T, la società telefonica, nel 1980). Tuttavia, prima che essa ci arrivi, possono essere proibiti soltanto i suoi intenzionali tentativi di farlo, che rechino un danno concreto ai consumatori, non invece i comportamenti di sia pure aggressiva concorrenza, che danneggiano solo i suoi concorrenti più deboli (non più tutelati nel loro diritto di stare sul mercato). Emerge così che l'Europa (la quale - è vero - non prevede lo smantellamento come sanzione finale), grazie alla sua mai sopita propensione regolatoria, finisce per recuperare una tutela che era parte dell'originaria cultura della concorrenza americana.

Ulteriori differenze di rilievo sono dovute all'interazione fra concorrenza e altre finalità comunitarie. Il legame con l'integrazione del mercato ha reso l'a. europeo più rigido di quello americano, in particolare davanti a intese verticali fra produttori e rivenditori che lasciavano ampio spazio alla concorrenza inter-marca, ma non consentivano ai rivenditori la libertà di acquistare il prodotto da un paese all'altro ed erano quindi contro l'integrazione. Per converso, sono state esentate dai divieti intese che, assecondando obiettivi di politica regionale o industriale, davano vita, con aiuti pubblici, a imprese comuni in aree depresse, oppure riducevano in modo concordato capacità produttiva in eccesso.

Non va dimenticata, infine, un'ultima differenza, che riguarda gli assetti istituzionali. Negli Stati Uniti l'organo che decide è il giudice, che lo fa su azione o dei privati, cosa molto frequente, o dell'apparato predisposto ad hoc, la divisione a. del Ministero della Giustizia, che ha solo compiti investigativi e deve battersi quindi in giudizio. In Europa invece l'azione giudiziaria diretta di privati è molto rara, perché gli organi pubblici di investigazione a. hanno anche poteri decisori, cosicché è contro le loro decisioni, soggette sempre a ricorso, che i privati in genere si rivolgono al giudice. A livello europeo a decidere è la stessa Commissione di Bruxelles e il ricorso lo si fa al Tribunale di prima istanza e, quindi, alla Corte di giustizia. Ai livelli nazionali vi sono autorità ad hoc, contro le quali si ricorre in taluni paesi, come l'Italia, al giudice amministrativo, in altri al giudice ordinario.

Con le sue peculiarità e con i limiti dovuti all'interferenza di altre politiche (limiti che tuttavia hanno pesato sempre meno negli ultimi anni), l'a. ha cambiato molte cose in Europa. In un tempo nel quale non è stata soltanto la fine del comunismo a mostrare le inefficienze e le degenerazioni delle gestioni pubbliche, se vecchi monopoli come i telefoni e l'elettricità e se servizi pubblici in esclusiva come i porti, gli aeroporti, le linee aeree, sono oggi in fase di avanzata liberalizzazione, con significativi benefici per gli utenti, lo si deve agli organi comunitari: sia alle loro direttive generali, sia alle loro decisioni su singoli casi a., in cui hanno addirittura configurato come abusi di posizione dominante l'esistenza stessa dei monopoli pubblici, quando questi non fossero in grado di servire la domanda.

L'antitrust in Italia

Anche per l'Italia, non meno che per il resto del continente europeo, l'a. è stato ed è tuttora un'esperienza innovativa. Lo è stato in primo luogo per l'istituzione chiamata ad applicarlo, in base alla l. 10 ott. 1990 nr. 287, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, un'autorità collegiale di cinque componenti, nominati dai presidenti delle camere e assistiti da uffici che essa organizza in piena autonomia. L'Autorità è indipendente dall'esecutivo, non risponde al parlamento, è sottoposta peraltro a sindacato giudiziale, ma non ha essa stessa natura giudiziaria. È forse l'esempio più nitido di autorità indipendente ed esprime così un tipo di assetto che si va diffondendo tutte le volte che funzioni di continuativa attuazione della legge, che anni addietro sarebbero state affidate a tradizionali apparati amministrativi, vengono oggi organizzate altrimenti, proprio per sottrarle agli indirizzi politici che pesano invece su tali apparati (non a caso si è preso a parlare di un'autorità indipendente per la concorrenza per lo stesso livello europeo, dove la Commissione concentra invece poteri politici e decisioni sui singoli casi in applicazione del Trattato).

L'esperienza è stata altresì innovativa per le competenze dell'Autorità, che si svolgono su due versanti: colpire le intese, gli abusi di posizione dominante, le concentrazioni contrarie alla concorrenza (con sanzioni che possono arrivare al 10% del fatturato, ma che non hanno mai natura penale) e segnalare al governo e al parlamento (con atti, in questo caso, ovviamente sprovvisti di effetti vincolanti) leggi, regolamenti, iniziative legislative aventi effetti 'distorsivi' della stessa concorrenza. Su entrambi i versanti l'Autorità si è adoprata per modificare principi giuridici, convinzioni collettive, etiche, professionali ostili alla concorrenza e insensibili ai suoi benefici. L'Italia è un paese dove ancora oggi si preferisce garantire il consumatore più con tariffe massime che con il suo diritto di scelta, dove è ritenuto disdicevole per i professionisti portare via i clienti ai colleghi, dove in più settori la spartizione del mercato, per garantirne una quota a ciascuno, è ritenuta una prassi normale. Grazie alle decisioni e alle tante segnalazioni dell'Autorità, questa è una mentalità che ha preso a cambiare. Ci si avvia conseguentemente verso mercati con meno poteri (fossero anche, in più casi, regolamentati) e con più libertà e più opzioni per coloro che vi operano.

Concorrenza e mercato globale

Certo la ritardata conversione dell'Italia alla concorrenza arriva in un tempo nel quale è anch'essa sempre più partecipe di quel mercato globale, che ha tanto cambiato i connotati della stessa concorrenza e tanto ristretto il ruolo dell'a. nel limitare il potere economico. Con la conseguenza che in Italia ci si affanna ad aprire (e non sempre ci si riesce) i piccoli, vecchi recinti delle professioni protette e dei monopoli pubblici scalzati anche dall'Europa, oppure si contestano i cartelli con cui si difendono, nell'una o nell'altra provincia, cementieri e assicurazioni; e intanto colossi industriali e commerciali competono fra di loro nel mondo, conquistando ciascuno interi paesi.

E tuttavia la conversione non è un ritorno al passato, è comunque l'ingresso in un sistema di regole di cui lo stesso mercato globale non può e non potrà fare a meno. È bensì vero che sulla sua scala smisuratamente più ampia sono ancora più dimostrabili gli effetti benefici per i consumatori di intese e concentrazioni addirittura multinazionali; e che, sulla stessa scala, l'allargata platea dei potenziali concorrenti può essa stessa ridurre i casi di potere economico restrittivo, meritevoli di sanzioni antitrust. Non dimentichiamo, però, che il mercato globale si viene costruendo attraverso ingressi reciproci di imprese in mercati prima nazionali, che non sono fra loro omogenei, ma esprimono in più casi livelli diversi di sviluppo economico, culture diverse, assetti imprenditoriali diversi. Nell'interazione che si sviluppa fra tali diversità, divengono frequenti le occasioni per l'esercizio di un potere economico che solo nell'a. può trovare l'antidoto di cui c'è bisogno e che anzi può essere raggiunto e colpito con efficacia proprio dalla versione europea (di cui quella italiana è partecipe), grazie a quella parte degli originari principi che essa ha mantenuto in vita, con la difesa dagli abusi di posizione dominante. Si pensi alla tutela dell'accesso a mercati sui quali una limitata concorrenza inter-marca fra imprese nazionali autoprotegga le imprese stesse dagli 'intrusi' di paesi terzi; oppure al diritto di stare sul mercato per quei produttori dei paesi più deboli, che rischiano di essere spazzati via dalla concorrenza aggressiva di più forti imprese straniere. Via via che la liberalizzazione dei commerci fa cadere le barriere pubbliche, resta solo l'a. per combattere quelle che i privati sono in grado di mantenere o di costruire attorno ai mercati di cui già hanno o vogliono acquisire il controllo.

È questa dunque la nuova frontiera dell'a.: con quali regole, e con quali istituzioni che le applichino, concorrere all'equilibrato sviluppo dei mercati integrati del terzo millennio. È una frontiera al di là della quale ci si sta appena affacciando con accordi bilaterali - per es. l'accordo fra Stati Uniti e Unione Europea - e con i primi tentativi di costruire un codice multinazionale della concorrenza, in vista di un futuro ancora non scritto.

bibliografia

Sull'origine e sull'evoluzione dell'a. americano si veda The political economy of the Sherman act. The first one hundred years, ed. E.Th. Sullivan, Oxford 1991, nonché in confronto con quello europeo, G. Amato, Antitrust and the bounds of power, Oxford 1997.

Sulle origini dell'a. europeo si veda D. Gerber, Constitutionalizing the economy: German neo-liberalism, comparative law and the new Europe, in American journal of comparative law, 1994, 1, pp. 25-84.

Per approfondimenti specifici sull'a. americano: Ph. Areeda, D. Turner, Antitrust law. An analysis of antitrust principles and their application, 10 voll., Boston 1978-97; su quello europeo: V. Korah, An introductory guide to European economic community competition law and practice, Oxford 1978, 1997⁶; su quello italiano: Diritto antitrust italiano. Commento alla legge 10 ottobre 1990, n. 287, a cura di A. Frignani, R. Pardolesi, A. Patroni Griffi et al., 2 voll., Bologna 1993.

Sulle autorità indipendenti: A. Predieri, L'erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze 1997.

Sull'a. e il mercato globale: F.M. Scherer, Competition policies for an integrated world economy, Washington (D.C.) 1994; E. Fox, Toward world antitrust and market access, in American journal of international law, 1997, 1, pp. 1-25.

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