GABBIANI, Anton Domenico
Figlio di Giovanni e Maria Simi, nacque a Firenze il 13 febbr. 1652. Secondo il racconto delle fonti (la biografia di F.S. Baldinucci [1725-30] e quella redatta dall'allievo del G., I.E. Hugford [1762], che introduceva l'edizione di cento stampe del maestro) ricevette la sua prima educazione a Firenze: dapprima presso V. Spada e J. Sustermans, celebrato ritrattista della corte medicea, in seguito, e per otto anni, nello studio di V. Dandini, in quegli anni vivace laboratorio della nuova generazione artistica locale.
Il 20 maggio 1673 il G., insieme con C. Marcellini, A. Bimbacci e G.B. Foggini, si trasferì a Roma, beneficiario di un triennio di studi presso l'accademia per artisti fiorentini fondata da Cosimo III e diretta da C. Ferri ed E. Ferrata. Il nuovo insegnamento indirizzò il giovane allievo allo studio del barocco e del classicismo romano, soprattutto di Pietro da Cortona e C. Maratta. Sul volgere degli anni Settanta completò il suo lungo e articolato cursus studiorum - improntato evidentemente alla definizione di uno stile composito, sostanzialmente eclettico e pienamente in linea col grand goût favorito da Cosimo III - con un viaggio a Venezia, dove, su suggerimento di L. Mehus, studiò presso il ritrattista S. Bombelli.
Ritornato a Firenze nel 1680, il G. dette inizio all'attività autonoma solo a partire dal 1684, anno in cui i documenti ricordano l'esecuzione di una perduta Annunciazione che decorava la "spezieria" di palazzo Pitti (Chiarini, 1976, p. 333). All'anno successivo risale la prima importante commissione pubblica: la pala con S. Francesco di Sales in gloria, dipinta per la chiesa fiorentina dei Ss. Apostoli, dove i pur predominanti elementi maratteschi e cortoneschi - riscontrabili nell'assetto compositivo e nella teatrale scenografia - non cancellano il debito con la maniera di V. Dandini, come rivela la posa enfatica del santo, l'andamento corposo della pennellata, il chiaroscuro accentuato secondo i modi di F. Furini.
Nella seconda metà degli anni Ottanta il G. si dedicò all'esecuzione dei ritratti della corte dei Medici che - da Cosimo III al principe Ferdinando - furono i suoi principali protettori e mecenati. Accanto ai ritratti ufficiali di Vittoria Della Rovere, del principe Ferdinando e della sorella, Anna Maria Luisa (ora a Pitti), sono ricordate "alcune storie a olio di musici, suonatori e cacciatori, con vari animali appresso, nel tempo della deliziosa villeggiatura di Pratolino" (Baldinucci [1725-30], 1975, p. 66). Si tratta di quattro ritratti di gruppo, oggi conservati a Pitti, nei quali il G. raffigurò i più valenti esecutori della camera musicale di Ferdinando (Chiarini, 1976, pp. 333-335). Stilisticamente vicini a queste opere, e quindi databili nello stesso periodo, sono l'Autoritratto già nella collezione Hugford (Bartarelli, 1951-52, p. 113) e la tela con i Famigli della corte del principe Ferdinando, ricordato dall'allievo biografo nella villa di Castello (Hugford, 1762, p. 11), entrambi ora agli Uffizi.
Tra il 1690 e il 1691, con una interruzione dovuta a un viaggio a Vienna (luglio-dicembre 1690), il G. dipinse, in collaborazione con P. Reschi e B. Bimbi, gli specchi della galleria di palazzo Medici-Riccardi (Gregori, 1972). Questa delicata realizzazione segnò l'avvio di un intenso decennio durante il quale il G. fu protagonista delle decorazioni ad affresco dei più importanti palazzi nobili di Firenze.
Perduti il Giove in Olimpo nell'alcova di Poggio a Caiano (1691: Marchini, 1985) e il Parnaso nello sfondo del teatro della Pergola, il suo stile dotto e raffinato, integrato alla perfezione col gusto aulico e internazionale del vecchio e nuovo establishment fiorentino, è comunque apprezzabile negli affreschi dei cosiddetti "mezzanini" di palazzo Pitti, eseguiti per Ferdinando tra il 1692 e il 1693. L'anno seguente, dopo alcuni lavori in palazzo Strozzi-Ridolfi, il G. affrescò in casa Gerini tre ariose composizioni mitologiche (Diana cacciatrice, La caccia al cinghiale, Il riposo di Diana), la cui arcadica ambientazione offre echi felici del paesaggismo romano e veneziano (Ewald, 1976). Nel 1696 per il marchese Filippo Corsini dipinse nel soffitto della galleria la Glorificazione di palazzo Corsini, il cui modellino viene sollevato dalle personificazioni del Valore, dell'Architettura e dell'Ingegno (Guicciardini Corsi Salviati, 1989, pp. 55, 126): qui il linguaggio freddamente eclettico del G. riesce a stemperarsi in tonalità più vibranti e in soluzioni atmosferiche che forse devono qualcosa ai soffitti affrescati tre anni prima, nello stesso palazzo, da A. Gherardini.
Dopo un presunto viaggio padano dell'autunno 1696 (Bartarelli, 1951-52, p. 119), il G. tornò in Toscana per affrescare alcune sale dei palazzi Orlandini del Beccuto a Firenze e Sansedoni a Siena (1697). Ancora per i Medici lasciò nella villa di Poggio a Caiano l'Apoteosi di Cosimo il Vecchio (1698), per il cui lavoro fu ricompensato con 400 scudi (Chiarini, 1976, p. 337).
In tutte queste imprese decorative il G. si fece interprete raffinato, anche se a volte ripetitivo, delle aspirazioni delle casate fiorentine verso una pittura idealizzata, del tutto adeguata ai luoghi di rappresentanza e ai soggetti aulici; una pittura che si dimostrava al passo sia con il ductus cortonesco - oltretutto aggiornato sulle novità napoletane che Luca Giordano aveva lasciato a Firenze nella galleria di palazzo Medici-Riccardi - sia con i parametri classicisti stabiliti dal Maratta. Rispetto alla stesura finale, sempre accurata ma spesso scolastica nel taglio compositivo e arida nella tessitura cromatica, una maggiore sensibilità coloristica e un'imprevista facilità di tocco - steso veloce e leggero - si coglie negli splendidi bozzetti preparatori che accompagnano l'esecuzione di quasi tutte le opere di maggior impegno (Ewald, 1974). A questa produzione si lega, sempre a livello preparatorio, quella dei numerosissimi disegni, nella quasi totalità conservati agli Uffizi: l'alta qualità di questi fogli - cui vanno aggiunte alcune interessanti incisioni (Bartsch, 1870) - è la riprova di una elaborazione formale attenta e rigorosa, propria della tradizione accademica fiorentina, che trovava fondamento e ispirazione anche nell'attività di copista ricordata dalle fonti (Hugford, 1762, pp. 53-55).
Intorno al 1699, nel tentativo di arricchire e vivacizzare la sua tavolozza, il G. soggiornò una seconda volta a Venezia. Al rientro mise a frutto quest'esperienza nel bel Ratto di Ganimede (1700: Firenze, Uffizi), dipinto per il principe Ferdinando.
I primi due decenni del Settecento sono per il G. anni di frenetica attività, dominati dalla lunga e faticosa decorazione della cupola di S. Frediano in Cestello a Firenze con la S. Maria Maddalena assunta, affrescata sempre per Ferdinando tra il 1702 e il 1718. Negli stessi anni eseguiva: l'Erminia tra i pastori (1702) per Poggio a Caiano, l'Assunzione della Vergine (1702 o 1707) per la chiesa di S. Maria di Candeli, ora perduta (Meloni Trkulja, 1982), il Riposo nella fuga in Egitto, dipinto nel 1704 per il principe Ferdinando (in deposito presso la chiesa della Sacra Famiglia a Marina di Carrara), che per la sua "perfezione e bellezza… fu fatto esporre dal detto Gran Principe alla pubblica vista per consolazione del popolo sulla piazza del Duomo in congiuntura dell'Ottava del Corpus Domini" (Hugford, 1762, p. 10), la Discesa dello Spirito Santo (1710 circa), da un prototipo dandinesco, per l'altare maggiore della chiesa benedettina di S. Giorgio alla Costa a Firenze.
Alla scomparsa di Ferdinando, nel 1713, continuarono, anche se affievolite, le commissioni medicee. Per il granduca Cosimo III nel 1714 il G. eseguì il Cristo che impartisce la comunione a s. Pietro d'Alcantara alla presenza di s. Teresa d'Avila (Bayerische Gemälde Sammlungen, Schleissheim), destinato alla figlia Anna Maria Luisa, elettrice palatina (Ewald, 1974): modellata su un'opera che il suo maestro, Dandini, aveva eseguito nel 1670 per la chiesa di Ognissanti (Bellesi, 1988), la tela mostra nello stesso tempo coscienti apprezzamenti delle novità decorative che Sebastiano Ricci aveva esibito a Firenze nei palazzi Pitti e Marucelli (1706-07). Probabilmente nel 1715 il G. dipinse un secondo Autoritratto (Firenze, Uffizi), rispondendo così a una pressante richiesta del granduca, che desiderava inserirlo nella raccolta iniziata dal cardinale Leopoldo de' Medici.
Il graduale cedimento alla moda rocaille, per quanto mai tanto evidente da negare il fedele sostrato marattesco, si coglie pienamente nelle opere eseguite nel secondo decennio fuori Firenze: dalla Presentazione al tempio nel Museo civico di Pistoia (1716: Curcio, 1982) al Martirio di s. Lorenzo e all'Assunta di Pescia, dal Transito di s. Scolastica di Borgo a Buggiano all'affresco con la Vergine che dona l'abito ai sette fondatori dell'Ordine dei servi di Maria per il santuario di Montesenario (1718).
Tra il 1720 e il 1722 il G. realizzò per Cosimo III l'Assunzione della Vergine e la Madonna col Bambino e i simboli della Passione (Chiarini, 1987), opere in cui l'artista si riavvicinò alle forme del tardo-classicismo, mostrandosi così al corrente delle tendenze dei marattiani romani, G.B. Chiari e A. Masucci. Per lo stesso committente nel 1723 dipinse il Transito di s. Giuseppe (Firenze, Accademia). La sua produzione sacra si chiuse con l'Apparizione della Vergine a s. Filippo Neri, eseguita nel 1724 nella chiesa di S. Firenze: l'opera può considerarsi l'ultimo omaggio del G. all'amato Maratta, la cui tela di identico soggetto, entrata da anni nella collezione granducale, funzionò da modello strutturale e stilistico.
Due anni dopo, il 22 nov. 1726, il G. morì, precipitando dalle impalcature di palazzo Incontri a Firenze, dove stava affrescando il Convito degli dei. Per volontà del figlio, G. Ticciati gli eresse un monumento funerario nella chiesa di S. Felice in Piazza.
Tra i numerosi allievi citati dalle fonti, accanto alle personalità di B. Luti e di T. Redi, un posto a parte merita il nipote, Gaetano Gabbiani (prima metà del sec. XVIII): ritrattista, abile nell'uso del pastello, nel 1731 realizzò una tela con S. Nicola di Bari che risuscita tre bambini nella chiesa di S. Spirito a Firenze (Meloni Trkulja, 1989). Hugford ricorda, forse con un certo malanimo, che la sua scriteriata condotta economica costò la dispersione dello studio che lo zio gli aveva lasciato in eredità (1762, pp. 49 s., 69 s.).
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