Doni, Anton Francesco
Nato a Firenze nel 1513, fu novizio presso il convento servita fiorentino della SS. Annunziata e ne uscì nel 1540 per iniziare un pellegrinaggio attraverso varie città italiane, alla ricerca (vana) di un mecenate. Rientrato a Firenze, nel 1546-47 aprì una tipografia, cercando senza successo l’appoggio del duca Cosimo, proponendosi come stampatore ufficiale dell’Accademia fiorentina. Dovette allontanarsi di nuovo dalla città natale probabilmente per debiti, stabilendosi nel 1548 a Venezia, dove collaborò con gli stampatori locali, dapprima Aurelio Pincio e Gabriele Giolito e poi soprattutto Francesco Marcolini, presso il quale si affermò come autore di un gran numero di testi (non scevri da plagi e abili manipolazioni editoriali): anzitutto una nuova versione del suo originale catalogo bibliografico (già pubblicato presso Giolito riguardo ai libri a stampa: La libraria, 1550), proseguito in riferimento alle (presunte) opere manoscritte: La seconda libraria (1551); poi una nuova edizione del suo epistolario e soprattutto una serie di singolari libri-contenitore che accoglievano materiali eterogenei (novelle, rime, orazioni, facezie, sentenze), spesso inglobati all’interno di bizzarri dialoghi (come nella Moral filosofia, 1552, nei Mondi, 1552, negli Inferni, 1553 e nei Marmi, 1552-1553). Scontratosi con Pietro Aretino, nel 1555 abbandonò il Veneto, per rientrarvi probabilmente nei primi anni Sessanta, stabilendosi a Monselice, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1574. Nell’ultimo scorcio della sua esistenza si dedicò alla stesura di numerosi manoscritti autografi, che compilava e ornava con elaborati disegni, offrendoli a facoltosi dedicatari nell’auspicio di un’adeguata remunerazione.
In uno dei suoi epistolari compare per la prima volta l’attestazione scritta di un famoso aneddoto riguardante gli ultimi momenti della vita di M., a cui si riferisce Giovan Battista Busini (→) nella lettera a Benedetto Varchi del 23 gennaio 1549: il «tanto celebrato sogno» raccontato dal Segretario a chi lo assisteva in extremis (G.B. Busini, Lettere [...] a Benedetto Varchi sopra l’assedio di Firenze, a cura di G. Milanesi, 1861, p. 85). L’attestazione doniana è interessante perché precede la lettera di Busini di cinque anni, mentre tutte le altre sono di molto posteriori e appartengono a scrittori non italiani. Si trova nella prima raccolta di lettere pubblicata da D. nel 1544, nella scia della fortuna editoriale arrisa all’Aretino epistolografo. L’aneddoto è nella lettera indirizzata da Padova il 15 febbraio 1544 al noto stampatore veneziano Gabriele Giolito, intitolata Visione d’un galante uomo che stava per morire, e così fece (ora in appendice a La moral filosofia. Trattati, a cura di P. Pellizzari, 2002, pp. 388-93). Vi si racconta come «messer Nicolò» (il cognome non compare mai nel testo), «infermo gravemente», è sollecitato a curare la sua anima; gli viene quindi condotto il confessore, che lo trova addormentato. Al risveglio, messer Nicolò si lamenta di essere stato distolto da una bella visione. Nel suo sogno ha visto la propria morte e il compianto dei figli, che però si è arrestato quando si sono resi conto dell’esiguità dell’eredità paterna. Giunge un angelo per accompagnare la sua anima in Cielo, ma Lucifero manda a sua volta un diavolo che la reclama per sé, con abilissime argomentazioni:
Volete voi altro? a come esso favellava, con grazia, con dottrina e senza offendermi di spavento, come già immaginato m’era, ch’io ebbi mezza voglia d’andare con lui. Ma l’angelo prese la mia ragione e gli fece conveniente risposta. Così determinarono che io fossi condotto dinanzi alla maestà di Dio (La moral filosofia, cit., p. 390).
Il diavolo vuole la garanzia che Niccolò darà solo un’occhiata al paradiso e poi lo seguirà; Niccolò accetta, machiavellicamente convinto di poter comunque sfuggire al diavolo una volta giunto in paradiso. Dinanzi alla bellezza dell’empireo gli viene chiesto di scegliere fra l’inferno e quest’ultimo:
E guardando per tutto, non sapeva veder altro che frati, preti, monache, poveri, martiri, donne d’ogni qualità, di abiti molto strani e diversi. E domandando [a] l’angelo: “Dove sono tanti filosofi, tanti imperadori? Dove si ritrova tanti capitani, tante mirabil donne, tanti eccellenti poeti, pittori, musici, scultori e altre mirabil persone?”. “Ne l’Inferno” […]. “Lasciatemi dunque andare, ch’io voglio andare da questi valenti uomini, che non voglio star in Paradiso senza questi uomini da bene”. A punto, signori miei, io era giunto a l’Inferno e ragionava con questi valenti uomini, quando voi m’avete disturbato, mercé del padre che mi veniva a ricordarmi quel che faceva bisogno. Sì che Dio vi perdoni de l’avermi disturbato sì mirabil quiete (p. 392).
D. (nel riferire, manipolandolo a suo modo, o nell’escogitare l’aneddoto) aveva in mente Dante (la disputa tra angelo e demone sull’anima ricorda quelle per Guido e per Bonconte da Montefeltro), Boccaccio (la confessione di ser Ciappelletto), forse anche una delle fonti precedenti che già contenevano la paradossale opzione (la Vita Wulframmi, la Chronica di Sigeberto di Gembloux o più probabilmente la Legenda aurea di Iacopo da Varagine: si vedano Sasso 1988, pp. 262-63; Larosa 2003, p. 95), ma riuscì senz’altro a cogliere il vero spirito di M.: irriverente verso il clero, il suo paradiso non è tale, se manca la conversazione con i grandi uomini; la sua peculiare virtù è essenzialmente diversa da quella dei santi.
Un encomiastico medaglione machiavelliano compare nella Libraria giolitina, significativamente orientato secondo una topica polemica antifiorentina che prende le mosse da Dante (con velate implicazioni antimedicee, visto che D. accomuna M. nella disgrazia a Iacopo Nardi): «[M.], ancor che fussi in grandezze d’onori e di beni temporali accomodato ragionevolmente e sommamente letterato, sopportò di grande ingiurie e ricevette molti fastidi, danni e travagli in vita sua» (La libraria, a cura di V. Bramanti, 1972, p. 147).
Nella Seconda libraria D. rivendica a M. la paternità della novella di Belfagor, della quale dichiara di avere «l’originale in mano», affermando che la stessa «s’è venduta in banco e s’è stampata nelle novelle del Brevio» (La libraria, cit., p. 374): dal suo «originale» ne pubblica il testo (pp. 374-88), rilanciando così, con forza, la questione del plagio ai danni di M. da parte del veneziano Giovanni Brevio. La polemica doniana era in realtà iniziata molto tempestivamente, nel testo di una epistola-catalogo (contenente una serie di titoli che D. era in procinto di stampare nella sua tipografia fiorentina) compresa nel secondo libro delle sue Lettere (1547): qui sono elencate le «Novelle et altre prose di Messer Giovanni Brevio copiate dall’originale di man propria di Nicolò Machiavegli» (a Francesco Reveslà, 10 marzo 1547, in Lettere. Libro secondo, 1547, c. 61v). D. si riferiva polemicamente alla raccolta delle Rime et prose volgari di messer Giovanni Brevio (Roma 1545). Tra le sei novelle comprese in questa raccolta si legge appunto la novella di Belfagore arcidiavolo (questo il titolo attribuitole dal Brevio), che quattro anni dopo ricompare, rivendicata a M. – forse per iniziativa del figlio Guido –, nella raccolta giuntina intitolata L’asino d’oro di Nicolò Machiavelli, con alcuni altri capitoli et novelle del medesimo (Firenze 1549), con una esplicita puntualizzazione polemica dell’editore Bernardo Giunti nella prefazione: tale novella sarebbe stata «presuntuosamente usurpata da persona ch’ama farsi honor de gli altrui sudori»; D., pubblicando a sua volta l’anno seguente la novella come opera di M., utilizzò verosimilmente il testo giuntino praticandovi alcuni rifacimenti, in modo da potere spacciare di averlo trascritto dal manoscritto «originale». Appare plausibile, sulla questione del plagio, l’ipotesi di Pasquale Stoppelli, suffragata da un accurato studio comparativo (2007), secondo il quale in realtà M. e Brevio avevano attinto indipendentemente l’uno dall’altro e in momenti diversi a un testo anonimo precedente (di un racconto simile è traccia in Francia in epoca medievale). Peraltro, nella stessa scheda della Seconda libraria, D. attribuisce a M. una inesistente commedia intitolata Il secretario (La libraria, cit., p. 388), secondo l’impostazione – parzialmente – burlesca di questo anomalo catalogo di opere manoscritte, nel quale non pochi titoli sono fittizi, inventati (come questo) sulla base della biografia o delle peculiarità dell’autore.
Nei Marmi è descritta la singolare rappresentazione incrociata della Mandragola e dell’Assiuolo di Giovanni Maria Cecchi (→), che sarebbe avvenuta a Firenze, sullo stesso palcoscenico, con le rispettive scenografie – opera di Francesco Salviati e di Angiolo Tori, detto il Bronzino –, «in modo che una comedia era intermedio dell’altra» (I marmi, a cura di E. Chiorboli, 1° vol., 1928, p. 51), riconoscendo in entrambe un significativo legame con il Decameron: può darsi che tale singolare performance abbia realmente avuto luogo, ma è possibile anche che, postulando una simile sinossi drammaturgica, D. volesse alludere (nuovamente) a un debito contratto da qualcuno (in questo caso Cecchi) in modo tacito nei confronti di un’opera machiavelliana, a partire appunto dal comune spunto delle due commedie, la novella boccacciana di Ricciardo Minutolo (Decameron III vi). D. appare insomma come un ammiratore della figura di M. e quasi un tutore dell’originalità dei suoi testi, dei quali apprezza in modo particolare la proprietà linguistica nell’uso dei modi di dire fiorentini (I marmi, cit., p. 130). Ciò lo induce, nondimeno, a contrarre a sua volta ingenti debiti proprio con il M. commediografo: quando deve far discutere fra di loro un poeta non fiorentino, che di quei modi vuol servirsi nei propri scritti, ma non ne comprende il significato, e un autoctono, che invece li conosce alla perfezione, il taverniere Gozzo (pp. 160-64), attinge a piene mani alla Mandragola e alla Clizia come ha dimostrato Emanuela Scarpa (1979), rinnovando una polemica che peraltro era stata propria anche del Discorso intorno alla nostra lingua:
uno che non sia toscano non farà mai questa parte [l’uso dei motti e dei termini “proprii patrii”] bene, perché se vorrà dire i motti della patria sua farà una veste rattoppata, facendo una compositione mezza toscana et mezza forestiera; et qui si conoscerebbe che lingua egli havessi imparata, s’ella fussi comune o propria (§ 68).
Anche un altro dialogo che introduce tematiche linguistiche tra un forestiero (il Conte, che è il bresciano Fortunato Martinengo) e un fiorentino purosangue come Alfonso de’ Pazzi, detto non a caso l’Etrusco per il suo esasperato municipalismo anche linguistico, è arricchito di citazioni – esplicite e non – dalla Mandragola (Scarpa 1979, pp. 393-94; I marmi, cit., pp. 129-34). Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, però, la ripresa dei testi comici machiavelliani è totalmente assente nell’unica commedia doniana superstite, lo Stufaiuolo, come ha notato Maria Cristina Figorilli (2006, pp. 112-18).
L’appropriazione di segmenti testuali dalle commedie machiavelliane assume in un caso un rilievo, per così dire, ideologico: il concetto della ripetitività degli eventi, che in M. motiva la possibilità dell’applicazione degli «essempi» storici alla realtà contemporanea, introdotto nel proemio al primo libro dei Discorsi («infiniti, che leggano, pigliano piacere d’udire quella varietà degli accidenti che in esse [le storie] si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solamente difficile, ma impossibile: come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini, fussero variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch’egli erano anticamente»: Discorsi, proemio B 6), viene esasperato nell’opera doniana fino a concepire l’idea di una rigida ciclicità, tale da consentire la creazione di un gigantesco repertorio storico contenente una sorta di indice generale degli avvenimenti possibili, una Concordanza delle istorie che consenta di individuare tutti i paralleli ricorrenti nel presente. Il presupposto di ciò è quanto affermano alcuni dei dialoganti doniani, in due punti dei Marmi:
Barlacchi. Se si vivessi cinquanta o dugento mila anni, si vedrebbe di belle cronache. Cerrota. Toglietene bene: la cosa non andrebbe molte migliaia inanzi che si vedrebbe fare il medesimo, le medesime cose, i medesimi fatti; brevemente, voi vedresti una ruota che fa e disfà, va e torna (pp. 104-05);
Guasparri. Io credo che tutte le cose che si fanno o le arguzie che si dicono, sien dette altre volte e fatte. Mazzeo. Sì, ma diversamente. Credo bene che se noi vivessimo assai, noi ritroveremmo di molti medesimi casi accadere, accaduti altre volte (p. 217).
Ma questi concetti sono ricavati, nuovamente, dalla Clizia, dall’incipit del prologo, in cui si tratta solo di una battuta paradossale, giustificazione arguta dell’imitazione dell’antico intreccio plautino: «Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme a fare le medesime cose che ora».
L’attitudine apologetica nei confronti del Segretario, non scontata in questi anni di maggioritaria avversione (cfr. Figorilli 2011, pp. 331-37), è attestata anche da altri passi doniani: anzitutto quando, nel citare (con biasimo) un’opinione effettivamente vulgata su M., la attribuisce a quelli che definisce gli «amici del “ma”», cioè coloro che trovano sempre un difetto nelle opere altrui: «l’opere del Macchiavelli son belle, ma insegnano certe cose che non mi piacciono» (I marmi, cit., p. 247). Analogamente, laddove un «un dotto et letterato per lettera» (Umori e sentenze, a cura di V. Giri, G. Masi, 1988, p. 185) gli suggerisce di tradurre in latino le sue Istorie fiorentine, D. mette in bocca a M. la citazione di un detto arguto del re spartano Agasicle (tratto in realtà dagli Apophtegmata di Erasmo tradotti da Sebastiano Fausto da Longiano), prima nel manoscritto del suo Libro delle sentenze dette da fiorentini (1562) e poi nella stampa giolitina del suo Cancellieri della memoria (1562): invitato a prendere per maestro un filosofo, Agasicle rispose: «io voglio esser discepolo di cui son figliuolo» (corrispettivo dell’opzione machiavelliana per la lingua materna).
E nelle Pitture (1564) gli attribuisce – fantasiosamente, perché ricavata da un trattato d’impresistica di un autore francese – il possesso di un’impresa «sopra il cielo del suo letto» che alludeva a un attivismo non estraneo alla sensibilità machiavelliana (Pitture..., a cura di S. Maffei, 2004, p. 232: «in un breve che s’avvolge a un festone di fresche foglie e di maturi papaveri dice così: Eripimus vitae quicquid somno tradimus», ossia «ciò che affidiamo al sonno lo strappiamo alla vita»). Le testimonianze doniane su M., ivi incluso il «tanto celebrato sogno», appaiono insomma degli abili falsi postumi, che hanno sicuramente il valore di acute sintesi critiche su taluni aspetti peculiari inerenti la figura del Segretario fiorentino.
Bibliografia: I marmi, a cura di E. Chiorboli, 2 voll., Bari 1928; La libraria, a cura di V. Bramanti, Torino 1972; Umori e sentenze, a cura di V. Giri, G. Masi, Roma 1988; Le novelle, t. 1, La moral filosofia. Trattati, a cura di P. Pellizzari, Roma 2002; Pitture del Doni academico pellegrino, a cura di S. Maffei, Napoli 2004.
Per gli studi critici si vedano: E. Scarpa, La presenza di Machiavelli ‘comico’ in un cicalamento dei Marmi, «Filologia e critica», 1979, 4, pp. 389-401; G. Sasso, Il «celebrato sogno» di Machiavelli, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 211-300; S. Larosa, Riflessioni intorno al sogno machiavelliano, in Attraverso il sogno. Dal tema alla narrazione, a cura di E. Porciani, Soveria Mannelli 2003, pp. 81-110; M.C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, premessa di G. Ferroni, Napoli 2006; P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor. Saggio di filologia attributiva, Roma 2007 (con bibl. prec.); M.C. Figorilli, Orientarsi nelle «cose del mondo»: il Machiavelli ‘sentenzioso’ di Anton Francesco Doni e Francesco Sansovino, «Giornale storico della letteratura italiana», 2011, 188, 623, pp. 321-65.