ČECHOV, Anton Pavlovič
Scrittore russo, nato il 17 gennaio 1860 a Taganrog nell'Ucraina. Il nonno paterno era stato servo della gleba, ma il padre riuscì ad elevarsi di condizione, tanto da poter anche avviare agli studî i figlioli. Finite le scuole medie nel 1879, Č. s'iscrisse alla facoltà di medicina e conseguì la laurea, ma poi interruppe, agl'inizî, la sua carriera, sebbene, per tutta la vita, continuasse ad amare la medicina come scienza e, di tanto in tanto, ne riprendesse l'esercizio per un puro sentimento umanitario, come nel 1892, durante un'epidemia di colera. Quando s'iscrisse all'università, dissesti economici famigliari lo costrinsero a cercar lavoro, e appunto allora cominciò a scrivere per giornali e riviste dei racconti, di cui una prima raccolta (Racconti variopinti) fu pubblicata, con grande successo, nel 1884.
Figlio della terra, e alla terra profondamente attaccato, nel 1892 acquistò un podere a Melichovo nel governatorato di Mosca, e, mentre si occupava con tanto amore della campagna, cercava di migliorare, dal punto di vista morale e materiale, le misere condizioni dei contadini, prestando la sua opera di medico, scavando pozzi, promovendo la t. ostruzione di scuole, strade, ecc. Nel 1895 e. conobbe Leone Tolstoj e, nonostante la differenza d'idee, il mistico Tolstoj e il positivista e. contrassero un'amicizia che fu sempre alimentata da un reciproco senso di affetio e di stima.
Minato ormai dalla tisi, dopo un soggiorno a Biarritz e a Nizza, tornò in Russia nel 1898 e dovette, per consiglio dei medici, stabilirsi in Crimea. Poco dopo (1901) nonostante i progressi del suo male, sposò Olga Leonardovna Knipper, attrice di quel "Teatro artistico" che era così legato all'aáe di lui, dopo ìa trionfale ripresa del Zabbiano, caduto su altre scene. Pochi mesi prima della sua morte fu rappresentato il Giardino dei ciliegi nel cui accorato lirismo e. sembrava volesse dare un nostalgico addio alla vita, che doveva lasciare a Badenweiler, in terra straniera, il 2 luglio 1904.
Ecco ora in sintesi lo sviluppo dell'arte cechoviana, che, nel suo primo periodo, ha una tendenza prevalentemente comica. La trasfigurazione comica o caricaturale delle figure di Č. si compie per lo più senza sfoggio di situazioni straordinarie, senza un inutile sciupio di frizzi o motti arguti e senza che la finale esplosione svuoti, nell'imprevisto tutto esteriore della trovata, l'atmosfera comica creata nel corso della narrazione. E ciò perché la comicità matura con delicatezza, mediante una lenta opera di escavazione che libera infine, formate nel tono, piuttosto che nella loro sostanza plastica, situazioni e figure: e senza eccessivi abbandoni di riso. Sembra anzi che l'artista abbia pudore del suo riso e lo trattenga a fior di labbra, come per un improvviso pentimento. Certo è assai raro che appaia quell'erma bifronte che è l'humour, ma si nota che Č. prende sul serio la rivelazione comica del mondo: egli sente che lo spettacolo umano non è tanto allegro anche se faccia ridere. Ecco perché il suo riso è pacato e non si sfoga rumoroso alle spalle dei personaggi che lo suscitano. Ben presto, anzi, tra le creazioni comiche del primo periodo, comincia ad affiorare quel senso della vita, che Č. manifesterà nel suo ulteriore sviluppo e che, nel crollo di ogni certezza, di ogni fede, si può definire come il dramma di tutte le impossibilità, eccettuata una forza cieca, ineluttabile, che costringe a vivere ancora la vita e a subirla nel suo tragico quotidiano, impedendo, come appare negli schietti eroi cechoviani, la soluzione più semplice: distruggere un'esistenza senza senso e senza scopo, di fronte a cui non si può far altro che ripetere un perché senza risposta. La concezione positivistica, che conduce Č. al più profondo pessimismo, è una ineluttabile evidenza a cui la ragione non sa e non può sfuggire, ma a cui il sentimento si ribella con inesprimibile angoscia: antitetica situazione, dalla quale nasce la tormentata e profonda vita spirituale dei veri eroi cechoviani e, di conseguenza, il bisogno di quei "miraggi" che vanno dall'illusione d'un oblio cercato nella febbre della vita, nel lavoro ("lavorare, lavorare bisogna") a quella d'un oblio cercato nella vodka o del tutto fuori della vita, nel regno della pazzia (v. Il Monaco nero). Tra questi miraggi (che, a differenza dei miraggi creduti e consolatori di Don Chisciotte, sono amati come tali, perché "meglio che niente", nella piena coscienza cioè del loro illusorio valore), c'è anche l'impossibile sogno della felicità futura in terra, creata per gli altri dal nostro oscuro sacrificio d'oggi; ed ecco la tornante invocazione: "Tra due, trecento anni..." che risuona però, come una dolce eco d'altri tempi, così cara al memore cuore, ma così estranea all'implacabile ragione. Questa fede illusoria che non lenisce la disperazione degli eroi di Č., ma che può solo cullare per un istante il loro tormento, si potrebbe definire come una speranza disperata ed è una delle cose più delicatamente e schiettamente cechoviane. Però, nonostante il crollo d'una vera fede e il loro fallimento nella vita, i veri eroi cechoviani non si rassegnano a un bruto materialismo in cui si adagiano invece certi uomini meccanici che Č. rappresenta, sentendo e facendo sentire il dramma della loro meschinità (es. L'uomo in un astuccio); al contrario i veri eroi di Č. sono degl'infelici ma ardenti cercatori che soffrono di non poter credere, e questa sofferenza è una feconda forza interiore, che insieme con l'amore, che da essa si sprigiona più potente, illumina un mondo così grigio e freddo in apparenza, ma tutto animato da una profonda e raccolta passionalità. Questo mondo tormentato e ricco di vita interiore si concreta con la più grande semplicità di parole e di situazioni senza sfoggio di descrizioni colorite e di bravure stilistiche, poiché Č. non pecca mai d'estetismo. Il mondo e l'arte di Č. sono così semplici da sembrar persino poveri a chi non senta la risonanza nuova e potente che acquistano nell'anima le cose e le parole di tutti i giorni, trasfigurate liricamente, arricchite di significati e di illuminazioni da quel "sublime pudore della sofferenza" che il poeta Tjutčev scopriva nell'anima russa e che in Č. trova una delle sue più belle espressioni. Tutto in Č. si raccoglie in umiltà di sentimento e di parole, cosicché egli, che pure ha una visione così desolante della vita, è lo scrittore più pacato, meno clamoroso, e se L. Tolstoj parlando di L. Andreev diceva che "spaventava senza metter paura" giustamente col Lvov-Rogačeskij possiamo dire che Č. "senza spaventarci fa paura".
Quanto si è detto vale in generale e per le novelle (che costituiscono la parte più ampia e più significativa della produzione di Č.) e per il teatro, che comprende otto lavori in un atto composti tra il 1884 e il 1892 e sei in quattro atti: Ivanov (1888); Lešij (1889); Il Gabbiano (1896); Zio Vanja (1900); Le tre sorelle (1901); Il giardino dei ciliegi (1903). Dobbiamo però notare che, in parecchi dei citati lavori teatrali, Č. nel tentativo di potenziare certi contrasti comici o drammatici e di rendere più sensibile (mediante costruzioni più complesse e l'urto diretto dei personaggi nell'azione drammatica) la creazione di quell'atmosfera che è uno dei suoi caratteri essenziali, riesce meno efficace che nelle sue lineari novelle. In ogni modo tra queste opere drammatiche possiamo additare Le tre sorelle e Zio Vanja in cui è potentemente concentrata la visione della vita che è propria dello scrittore; e che, specie nello Zio Vanja, s'innesta in una vicenda la quale nella sua semplicità, progredisce per toni interiori salda e serrata, quasi del tutto scevra di quegli abbandoni descrittivi, che non di rado appesantiscono l'azione nel teatro di Č. In gran parte del quale si nota, nel suo aspetto meno felice, quella tendenza impressionistica che è uno dei caratteri di Č.; se non che nel teatro, a differenza delle novelle, le impressioni restano assai spesso prive di sintesi: disperse, frammentarie. Non è questa la sola tendenza che in Č. acquisti talvolta un valore negativo. Per esempio quell'acuta sensibilità, da cui nasce tanta delicatezza di toni e di sfumature, induce talora l'artista a indugiarsi un po' troppo intorno a certi stati d'animo, che tornano con eccessiva insistenza e che, analizzati ed esasperati, ammorbidiscono dal punto di vista sentimentale figure nate dalla nuda forza del dolore. È in relazione con quanto si è ora detto quello che potrebbe definirsi il tipico cechoviano e che si nota specialmente in certe figure di falliti dell'esistenza, i quali appaiono spesso con caratteri generali comuni persino nel modo di esprimersi. Questo tipico cechoviano ha la sua radice in un carattere fondamentale dello scrittore, il quale, pur avendo una visione della vita salda e unitaria (che, con la sua ampia risonanza umana libera l'opera di Č. da un ristretto valore folkloristico), la concreta volta a volta in figure e situazioni che variano per il tono, per infinite delicate sfumature, più che per la loro fisionomia, come variazioni di un unico leit-motiv; onde una certa angustia d'orizzonte.
Ediz.: Ed. Marks in 6 voll., Pietroburgo 1900-04. Ed. recente a cura del Commissariato per l'istruzione pubblica, Pietrogrado 1918, in 33 voll. Ed. di Berlino "Slovo" in 14 voll. e Ladyšnikov in 8 voll.; Pisma A. P. Čechova (Lettere di A. P. C.), a cura di M. P. Čechov, 6 voll., Mosca 1914; Zapisnye Knižki A. P. Čechova (Libretti di appunti di A. P. C.), a cura di E. N. Konšin, Mosca 1927; A. P. Čechov, Nesobrannye razskazy (Racconti sparsi), Leningrado 1929. - Trad. francese: A. Tchekhov, Œuvres complętes, trad. di Denis Roche, 16 voll., 1905. Trad. inglese: The Tales of Tchechov, 13 voll., Londra 1916-1922. Per le traduzioni italiane vedi l'appendice di E. Damiani alla trad. di Veselovskij, Storia della letteratura russa, Firenze 1926. Da aggiungere la trad. completa del Teatro, a cura di C. Grabher, Firenze 1923-24, 1928-29. In corso di pubblicazione la traduzione completa dei Racconti presso "Slavia", Torino.
Bibl.: In russo: A. G. Fomin, Č. v. russkoj kritike (Č. nella critica russa), Pietroburgo 1907; Ju. J. Ajchenvald, Siluety russkich pisatelej (Profili di scrittori russi), nel vol. III della 5ª ed., Berlino 1923; D. S. Merežkovskij, Grjaduščij Cham (Il futuro Cham), Pietroburgo 1906; J. Aleksandrovič, Čechov i ego vremja (Č. e il suo tempo), Mosca 1911; I. P. Lyskov, A. P. Čechov v ponimanii kritiki (Čechov nell'interpretazione della critica), Mosca 1905; V. Korolenko, Otošedšie (Figure scomparse), 1910. (Il capitolo su Č. tradotto in italiano come prefazione alla trad. dello Zio Vanja, a cura di E. Lo Gatto e Zoe Voronkova, Napoli 1919); K. I. Čukovskij, ot Čechova do našich dnej (Da C. ai nostri giorni), 3ª ed., Pietroburgo 1908; Šestov, Tvorčestvo iz ničego (Creazione dal nulla), nella rivista Voprosy žizni, 1905, marzo, n. 3; F. D. Batjuškov, A. P. C., in Istorija russkoj literatury, XIX, Mosca 1911, V; Val. Fejder, A. P. Čechov, Liternaturnyj byt i tvorčestvo po memuarnym materialam (La vita letteraria e l'opera creativa attraverso le memorie dei contemporanei), Leningrado 1928; V. Lvov-Rogačevskij, Čechov i ego tvorčestvo. Bor′ba za žizn′ (Č. e la sua opera. Lotta per la vita), Pietroburgo 1907; N. Efros, Moskovskij chudožestvennyj teatr (Il teatro artistico di Mosca) (1898-1923), Mosca-Pietroburgo 1924 (si riferisce alla messa in scena del teatro di Č.).
In tedesco: A. Wolynskij, A. Tschechow, tarduzione di I. Melniss, Berlino 1905. - In francese: IVan Strannik, La pensée russe contemporaine, parigi 1903 (cap. I: "L'impuissance de vivre"); S. Persky, Les maîtres du roman russe contemporain, Parigi 1912; Ossip-Lourié, La psychologie des romanciers russes du XIX siècle, Parigi 1905. - In italiano: C. Grabher, A. Čechov, Torino-Roma 1929; E. Lo Gatto, A. C. e il crepuscolo di una grande letteratura, in Studi di letterature slave, I, Roma 1925; A. Zanco, A. P. Čechov dal suo epistolario, Firenze 1925. - In inglese: W. Gerhardi, A. Tchechov: A critical study, Londra 1923; A. Werth, A. Č., in The Slavonic Review, Londra 1925.