MUSIC, Anton Zoran
MUSIČ, Anton Zoran. – Nacque a Gorizia il 12 febbraio 1909, da Antonio e da Maria Blažič.
Il padre, maestro di scuola, insegnava a Bucovizza, dove Musič abitò nella prima infanzia, fino a quando, nel giugno 1915, per l’avvicinarsi del fronte fu sfollato con la madre e il fratello Ljuban in Stiria (il padre, nel frattempo, era stato chiamato alle armi). Terminata la guerra, fece gli studi in Carinzia e poi a Maribor: in questa città, durante il liceo, maturò in lui la vocazione artistica (risale a questo periodo, con ogni probabilità, un primo, importante viaggio a Vienna, dove poté vedere le opere degli artisti della Secessione): ottenuto il diploma, decise così di iscriversi alla Accademia di belle arti di Zagabria. In Accademia frequentò soprattutto i corsi del croato Ljubo Babić, che godeva allora di ottimi rapporti con l’ambiente veneziano e che lo sollecitò molto a viaggiare. Dopo aver esordito nel 1935 partecipando a una mostra collettiva a Lubiana, seguendo i consigli del maestro d’Accademia partì per la Spagna, fermandosi a Madrid ove rimase per alcuni mesi studiando anzi tutto la pittura del Greco e di Goya. Allo scoppio della guerra civile tornò nella sua terra natale e cominciò a esporre con una certa regolarità, partecipando all’attività del gruppo dei cosiddetti Indipendenti: tra le prime occasioni espositive merita d’essere segnalata la mostra collettiva allestita nella primavera del 1938 a Lubiana e la doppia personale tenuta a Belgrado l'anno successivo insieme a un altro allievo di Babić, Fran Simunovič, con cui Musič aveva già condiviso il soggiorno spagnolo. Le opere di questo periodo – perlopiù scene di vita cittadina – si caratterizzano per una sorprendente rapidità d’esecuzione: fresche impressioni brevemente tratteggiate, esse discendono in massima parte dalla tradizione francese moderna.
Nel 1943 soggiornò a Gorizia, ove strinse amicizia col pittore Guido Cadorin e con sua figlia, la pittrice Ida Barbarigo Cadorin. Si trasferì poi a Venezia e qui, tra giugno e luglio 1944, tenne una importante personale alla Piccola Galleria, presentato da Filippo de Pisis in un ricco volume che accompagnò la mostra. Fu questo l’ultimo episodio sereno della sua giovinezza: dopo l’estate venne infatti arrestato dalla Gestapo e deportato a Dachau. L’orrore del campo di concentramento fu registrato in una tragica serie di disegni, spietati e stranianti.
Ricordò in proposito: «Vivevo in un quotidiano paesaggio di morti, di moribondi in un’apatica attesa […]. Nella sala dove ci si lavava, lungo il muro, accatastati altri cadaveri per l’impossibilità di bruciarli subito. Durante l’inverno stecchiti e come congelati ti fanno compagnia. A strati una fila di teste in avanti, e sopra una fila con le gambe sporgenti. […] Comincio timidamente a disegnare. Forse così mi salvo. Nel pericolo avrò forse una ragione di resistere. Prima provo, di nascosto nel cassetto del mio tornio. Cose viste strada facendo verso la fabbrica: l’arrivo di un trasporto; carro bestiame aperto: cascano fuori i morti. […] Presto sono preso da una incredibile frenesia di disegnare. Nelle ultime settimane del campo il pericolo di essere scoperti è un po’ diminuito. […] Quanta tragica eleganza in questi fragili corpi. Queste mani, le dita sottili, i piedi, le bocche aperte nell’ultimo tentativo di aspirare ancora un po’ di aria. Le ossa coperte di una pelle bianca, quasi celestina» (la testimonianza, del 1949, è in M., 1985, pp. 160 s.).
Il 29 aprile 1945 il campo di Dachau fu liberato dall’esercito americano: Musič, ridotto in gravi condizioni, tornò a Gorizia e poi a Venezia, dove si riavvicinò alla pittura e dove, soprattutto, ritrovò Ida e Guido Cadorin. Questi lo aiutò molto, coinvolgendolo nella decorazione di una chiesa a Cadola. Ben prestò riprese a dipingere, scoprendo una nuova luce, come testimoniano le vedute di Venezia, gli autoritratti e i primi paesaggi con cavalli o asinelli realizzati in questo periodo. Tra il 1946 e il 1947 ottenne i primi riconoscimenti (una segnalazione al premio Colomba di Venezia) e allestì alcune mostre personali (una alla galleria del Cavallino diretta da Carlo Cardazzo), ma la nuova stagione della carriera di Musič si aprì nel 1948, quando fu ospitato a Roma nelle sale della giovane ma già famosa galleria dell’Obelisco e partecipò alla XXIV Biennale d’arte internazionale di Venezia, esponendo due dipinti (Paesaggio dalmata e Cavalli in Dalmazia) ancora al fianco di Cadorin. Musič iniziò a essere apprezzato dai collezionisti e le sue opere cominciarono a uscire dai confini nazionali. Tra i suoi primi estimatori furono i coniugi Salomè ed Eric Estorick, che avrebbero presto acquistato alcuni suoi importanti dipinti destinandoli alla collezione oggi musealizzata a Londra.
Alla fine degli anni Quaranta espose ripetutamente in Svizzera e in Svezia, tenne una mostra alla galleria del Naviglio di Milano (anche questa diretta dal mercante, editore e amico Cardazzo) e, finalmente, nel settembre 1949 sposò Ida Barbarigo Cadorin. Allo scadere del decennio si avvicinò all’incisione, realizzando le prime puntesecche e litografie, che iniziò ben presto a esporre. Tornò poi alla XXV Biennale del 1950, presentando tre dipinti recenti, un Motivo dalmata, un quadro di Cavalli e un Paesaggio umbro.
Proprio alle colline del territorio senese e umbro dedicò una parte importante del suo lavoro. Tra le opere più rappresentative dell’intero suo catalogo, i colli toscani e umbri di Musič si caratterizzano per la luce tenue e per l’adozione di una pittura tonale, attentamente modulata. Le morbide forme delle colline – studiate durante i frequenti viaggi a Roma fatti in treno – si fissano nella memoria dell’artista lasciando impressa la loro orma sul nudo letto della pittura. «I suoi grigi, i rosa, i più tenui e quasi sfatti celesti», ha scritto in proposito Fabrizio D’Amico, «continuano a inumidire appena i dorsali dei monti, le curve dolci delle colline, uniti da una luce lenta e silenziosa, passata al filtro della memoria: le “cose” che Musič narra contano allora quasi soltanto per quel loro essere sempre eguali, e per il loro farsi, in tal modo, occasione da nulla, occasione soltanto di pittura che scrive il tempo, il suo lastricarsi nella coscienza» (D’Amico, 2000).
Anche grazie a queste opere Musič ottenne nel 1951 il premio Parigi, organizzato a Cortina d’Ampezzo e assegnatogli da una prestigiosa giuria internazionale. Il riconoscimento gli valse un contratto con la galerie de France di Gildo Caputo, ove nel 1952 organizzò una mostra che ottenne uno straordinario successo. Apprezzato dalla critica e dal mercato, si trasferì a Parigi, stabilendosi in uno studio a Montparnasse.
L’impatto con l’ambiente artistico parigino, votato all’informel di Michel Tapié e ad altre grandi esperienze d’arte non figurativa, non fu dei più semplici. Ricordò in proposito lo stesso Musič: «Quanto è difficile nuotare in quest’oceano della pittura astratta. Mi sentivo piccolo, debole, senza forza. Circondato da questi nomi giganteschi della pittura e dei critici arbitri prepotenti che dirigono la corrente. Arrivato a Parigi con il modesto bagaglio dei cavallini dalmati mi sentivo inutile a me stesso e quasi mi vergognavo di fare vedere i miei Cavallini che passano contro corrente appesi al Salon de Mai» (M., 1985, p. 164). Questa incertezza lo indusse a mettere in discussione il proprio linguaggio: alla metà degli anni Cinquanta nei suoi quadri si registrò infatti un lieve, controllatissimo allontanamento dal dato naturale e una singolare consonanza con la pittura della abstraction lyrique.
Nonostante si fosse trasferito a Parigi, continuò con regolarità a soggiornare a Venezia e a esporre in Italia: nel 1955 fu alla VII Quadriennale d’arte nazionale di Roma, presentato da Giuseppe Marchiori, e nel 1956 partecipò alla Biennale con un nutrito nucleo di acqueforti e puntesecche che gli garantirono il Gran Premio per la grafica dell’ente veneziano.
«L’arte di Music», osserva in catalogo Umbro Apollonio (pp. 196 s.), «è andata via via decantandosi fino a maturare in un clima di raffinata evocazione […]. Lavorati con la medesima cura tecnica e la medesima levità di linguaggio, nei suoi fogli si ritrovano tutti i caratteri della sua pittura: quell’incanto gentile, talora sottilmente vicino all’ornamentalità orientale, che egli crea mediante la tenuità dei colori ed il ritmo delle forme».
Durante gli anni Sessanta continuò a lavorare intensamente, esponendo in gallerie e musei di tutta Europa, segnatamente della Germania, ove fu accolto con particolare favore. Tra il 1970 e il 1971 maturò invece una nuova, profonda svolta, che si basò su un riavvicinamento alla realtà e al racconto. Con il ciclo Non siamo gli ultimi, infatti, recuperò le dolorose immagini dei disegni di Dachau, traducendole in pittura. A dimostrazione di un sempre maggior successo in ambito internazionale, le opere di questo ciclo furono ripetutamente esposte in Francia, Germania e Belgio.
Nel corso degli anni Settanta aprì altri due nuovi cicli di opere: il primo – inaugurato attorno al 1972 – si intitola Motivi vegetali ed è incentrato su nervosi grovigli di segni che, partendo da un elemento vegetale posto al centro dell’immagine, si aprono a invadere letteralmente lo spazio; il secondo ciclo, dedicato ai Paesaggi rocciosi, consiste invece in un recupero sostanziale dell’antica formula delle vedute senesi e umbre che Musič aveva realizzato dopo la guerra. Negli anni Ottanta, celebrato ormai in tutto il mondo come maestro, si dedicò spesso al ritratto, portando parallelamente avanti altri cicli di opere, così in pittura come nell’incisione. La definitiva consacrazione giunse infine nel 1995, quando Jean Clair curò una sua grande mostra antologica a Parigi, nelle sale del Grand Palais.
Morì a Venezia il 25 maggio 2005.
Una importante mostra su Mušič è stata organizzata dalla Galleria d'arte moderna di Lubiana nell'autunno 2009.
Fonti e Bibl.: F. de Pisis, Z. M. (catal., Piccola Galleria), Venezia 1944; U. Apollonio, Antonio M., in XXVIII Biennale di Venezia (catal.), Venezia 1956, pp. 196 s.; M. Opere 1946-1985 (catal., Venezia), a cura di F. Scotton, Milano 1985; Z. M, (catal.), a cura di J. Clair, Paris 1995; F. D’Amico, Un intellettuale da sempre controcorrente, in La Repubblica, 10 luglio 2000; M. (catal., Gorizia, 2003-04), a cura di M. Goldin, Conegliano 2003; D. Del Giudice, Opere di Z. M. in una collezione triestina: riflessioni sul suo periodo astratto-informale, in Arte in Friuli, XXVI (2007), pp. 243-254; G. Dal Bon, Doppio ritratto: Z.M., Ida Barbarigo, Milano 2008; A. Fonda, L'opera giovanile di A.Z. M., tesi di dottorato, I-II, 2011, Università di Padova, Dipartimento di Storia delle arti visive e della musica (http://paduaresearch.cab.unipd.it/3601).