Grazzini, Antonfrancesco
Nato a Firenze nel 1505 e ivi morto nel 1584, G., detto il Lasca, trascorre tutta la vita nella città natale dove fonda, nel 1540, l’Accademia degli umidi che diviene poi Accademia fiorentina. L’orgogliosa rivendicazione da parte di G. dell’eccellenza artistica e intellettuale di Firenze emerge in modo eloquente proprio da un confronto con M.: lo stesso simbolo, l’icona con cui la città rinascimentale si identifica, cioè la cupola di Filippo Brunelleschi, è per M. emblema della piccolezza di vedute del meschino Nicia (Mandragola I ii: «voi non siete uso a perdere la Cupola di veduta»), mentre per G. è il vanto ineguagliabile che vale a un ottuso lombardo, reo di misconoscerne la grandezza, la giusta beffa degli artisti locali (Le cene, a cura di R. Bruscagli, 1976, p. 108: «io ho inteso dire da persone degne di fede che la cupola di Norcia è più bella assai, e fatta con maggiore artifizio», I viii). La partecipazione alla cultura cittadina si fa difficile per G. con l’ingresso di nuovi membri nell’Accademia fiorentina, più vicini agli orientamenti politico-culturali del duca Cosimo; nel 1547 G. è estromesso da quello stesso cenacolo di letterati che aveva fondato. Pur avendo tributato omaggi ai Medici, infatti, egli non si allinea al nuovo corso impresso all’Accademia e nelle sue opere suggerisce, sia pure discretamente, la propria preferenza per l’ordinamento repubblicano. Lorenzo il Magnifico è figura importante in una delle novelle più note (III x) della raccolta di G.: le Cene. Il Magnifico vi compare come artefice della scenografica e ingegnosa beffa ai danni di mastro Manente. L’aneddotica intorno al Magnifico e l’aver egli scritto novelle hanno certo concorso alla scelta del personaggio, che sembra incarnare qui il prototipo del fiorentino sottile e faceto che popola le pagine del novelliere. Tuttavia è possibile scorgere dietro l’illustre antenato il contemporaneo signore di Firenze, Cosimo, impegnato nella costruzione di una determinata immagine di sé, funzionale al proprio disegno politico. Rilevata allora la malizia con cui il potente si accanisce contro la sua vittima, l’ambigua destrezza del Magnifico apparirà consonante con i modi del tiranno descritto da Girolamo Savonarola nel Trattato del reggimento della città di Firenze. La cura mecenatesca del signore fiorentino e la sua simpatia per gli spiriti faceti sono sottolineate con parole simili a quelle delle Istorie fiorentine (VIII xxxvi); il ricorso alle Istorie come fonte sembra confermato dall’ambientazione della novella in un periodo in cui Lorenzo deve assentarsi da Firenze per ragioni politiche (si tratta probabilmente del viaggio a Napoli, VIII xix).
Nonostante le opere di G. non nascondano l’amarezza esplicita per l’esclusione dall’Accademia e il più velato rammarico per il restringimento delle libertà (un personaggio della Strega, 1546, si presenta appena uscito dalle carceri ducali dove era stato rinchiuso senza conoscere l’accusa), l’interesse dell’autore non si appunta sui motivi di ordine storico-sociale. Il M. più vicino a G. è quello comico, della novella, dei testi burleschi e soprattutto della Mandragola.
Il giorno dell’epifania del 1541 nella casa della cortigiana Maria da Prato è rappresentata la prima opera teatrale di G., la farsa Il frate. Quando, nel 1582, G. pubblica le sue opere teatrali, Il frate è escluso. La farsa rimane inedita fino al 1769, anno in cui è stampata, a Venezia, ma con l’attribuzione a Machiavelli. Essa appare infatti, senza titolo, nelle Commedie, terzine e altre opere edite e inedite di N. Macchiavelli, per cura di Giambattista Pasquali. L’editore la legge in un manoscritto della Biblioteca Marciana (Mss. it., classe X, 27), adespoto e anepigrafo. Da allora l’opera viene a lungo considerata dai più uno scritto del Segretario fiorentino (fra le eccezioni merita menzione Filippo Luigi Polidori, nella premessa alle Opere minori per i tipi di Le Monnier nel 1852). Solo nel 1886 Costantino Arlia dimostra che il testo va assegnato a G. (cfr. Arlia 1886). A motivare l’attribuzione a M., filologicamente arbitraria, è il ricordo della figura di frate Timoteo, evidente nel frate Alberigo, personaggio della farsa. Il prologo del Frate fa esplicito riferimento alla Mandragola per giustificare la presenza di un religioso nella commedia:
E se voi non ci vedete così osservato lo stil comico (appunto come condurre in scena un frate), non ne pigliate troppa ammirazione, ancora che questo non sia così grave peccato come molti lo fanno; perciocché nella Mandragola recitatasi dalla Cazzuola venne in scena un fra Timoteo de’ Servi che confortò santamente a ingravidar la moglie di M. Nicia (Teatro, a cura di G. Grazzini, 1953, p. 526).
La citazione, che ha echi anche della Clizia (II iii: «Non sai tu che, per le sue [di fra Timoteo] orazioni, mona Lucrezia di messer Nicia Calfucci, che era sterile, ingravidò» e il verbo «ingravidare» torna nella battuta successiva), è interessante in rapporto sia all’opera di G., sia a quella di Machiavelli. A proposito del primo, palesa la consapevolezza che la farsa evochi agli spettatori il ricordo della commedia di M., che negli anni Venti era stata più volte rappresentata. Forse anche questo pensiero può aver indotto G. a ometterla nella silloge delle opere teatrali, congiuntamente alla non canonicità della struttura rispetto al modello della commedia regolare (tre atti invece di cinque). Per essere riammesso nell’Accademia (1566) ed essere reintegrato a pieno titolo nella vita culturale della città, non pareva opportuno ricordare una produzione troppo vicina a un autore all’Indice.
Le affinità tra il Frate e la Mandragola, al di là della comune figura del frate astuto, non sono, in verità, così marcate. Il frate di G. risente anche di suggestioni boccacciane e in generale novellistiche, così come l’ordito della farsa. Mentre Timoteo ottiene una ricompensa in denaro per la sua complicità, frate Alberigo gioca al tempo stesso il ruolo di Timoteo, con cui condivide l’abito e la retorica, di Ligurio, perché è lui l’artefice della beffa, e di Callimaco, giacché infine giace con la moglie della vittima. La vicenda poggia sulla consueta coppia malmaritata: Amerigo vuol tradire Caterina che, venuta a sapere la cosa, lo raggira e minaccia l’intervento dei suoi parenti (la minaccia che si compie nel caso del frate decameroniano dal nome consonante, Alberto, nella novella IV ii). Il frate riporta la pace nella coppia, naturalmente in combutta con la moglie, della quale diviene amante; Amerigo, per colmo di beffa, gli è devoto come al suo salvatore. La chiusa, insomma, coincide con quella della Mandragola, salvo che Alberigo gioca qui il ruolo dell’amante.
La riscoperta di G. nel 18° sec. si deve principalmente all’interesse suscitato dalle sue scelte linguistiche. Fra gli animatori, negli anni Ottanta, dell’Accademia della Crusca, l’autore è fermo su una posizione marcatamente fiorentinista. Se la vera miniera di espressioni gergali è la novellistica, anche la commedia attinge decisamente al vocabolario locale; la vivacità del dettato è un altro motivo di vicinanza con l’opera di M., che contribuisce a motivare l’attribuzione del Frate. La citazione del prologo del Frate sopra riportata fornisce anche un’informazione rilevante intorno a un aspetto della Mandragola: secondo G., «venne in scena un fra Timoteo de’ Servi». Il testo di M. non esplicita mai a quale ordine appartenga il frate: M. ne affida l’individuazione alla messa in scena. La notizia di G. è raccolta dai commentatori novecenteschi che fanno di Timoteo un servita. Ma Giorgio Inglese (cfr. Inglese 1992) indica alcuni elementi del testo che fanno propendere per un Timoteo domenicano: Lucrezia, dopo essersi votata ai Servi, ha smesso di frequentarne la chiesa per le molestie subite da parte di uno di quei frati, il che escluderebbe l’appartenenza del suo confessore Timoteo a quell’ordine; la scena pare situata nei pressi di S. Maria Novella, sede domenicana; Timoteo accenna alla processione serale, secondo la liturgia caratteristica dei domenicani.
Gli echi della Mandragola non si esauriscono nel Frate. Del resto, figure, situazioni e battute ravvisabili nella commedia di M. e in G. appartengono spesso al repertorio consolidato del genere comico (non solo teatrale: basti pensare alla novellistica) e ciò rende difficile discernere le effettive tangenze dal comune sostrato della tradizione. Ancora nel Frate, Amerigo lamenta gli effetti negativi delle cattive compagnie, con accenti che possono ricordare quelli di Timoteo (G.: «gli è vero il proverbio che si dice, che le male compagnie conducono altrui alle forche», I vi, in Teatro, cit., p. 542; M.: «E’ dicono el vero quelli che dicono che le cattive compagnie conducono gli uomini alle forche; e molte volte uno càpita male, così per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo», IV vi). Le novelle di G. sono pressoché tutte inscrivibili nel solco della tradizione municipalistica della giarda; è naturale pertanto incontrarvi con frequenza figure di beffati che ricordano inevitabilmente messer Nicia. Non si può per questo postulare un’ascendenza diretta, dal momento che si tratta di un carattere topico del genere, personalmente declinato da Grazzini. Vero è che, come attesta anche la menzione nel prologo del Frate, l’opera di M. era presente nella mente di Grazzini. In un caso, almeno, si può ipotizzare con qualche fondamento l’intenzionalità del recupero dalla Mandragola: nella novella di Bartolomeo degli Avveduti, un testo non incluso nelle Cene probabilmente perché risalente a un’epoca precedente all’ideazione del più ampio progetto narrativo. Alle spalle della novella ci sono anche, come ha dimostrato Michel Plaisance (2005, pp. 191-99), il modello delle novelle di Lorenzo il Magnifico e quello consueto del Decameron, oltre al Grasso legnaiuolo, che qui G. intende emulare. Alcune citazioni esplicite pongono comunque in evidenza gli echi da Machiavelli. In sede iniziale, per esempio: «sì come spesso interviene che a uno uomo qualificato e da bene tocca per consorte una bestia» (Le cene, cit., p. 438) richiama da vicino Mandragola I iii: «perché spesso si vede uno uomo ben qualificato sortire una bestia, e per avverso, una prudente donna avere un pazzo». Anche la scelta del nome Lucrezia per due figure femminili della novella potrebbe riecheggiare M., sebbene Lucrezia qui non ricopra il ruolo della moglie.
Una citazione di M. da parte di G. emerge, secondo Plaisance (2005, pp. 33-69), dall’esame delle varianti della Lezione di maestro Niccodemo della Pietra al Migliaio sopra il capitolo della salsiccia, pubblicata postuma nel 1589 per l’editore della Crusca, dopo essere stata annunciata come di prossima stampaper il 1583. È da credere, tuttavia, che la Lezione risalga al 1541, giusta la datazione riportata in un manoscritto di cui dà notizia nel 1825 l’accademico Luigi Fiacchi. Se è così, tra la stesura del 1541 e il testo annunciato per la pubblicazione nel 1583 (ma stampato solo sei anni dopo) deve avere agito necessariamente la censura. Lo stesso G. potrebbe aver rivisto l’opera in questa direzione, operando gli emendamenti necessari per ottenere il beneplacito dei revisori. Plaisance ha infatti rinvenuto un codice, che riporta la data del 1598, esemplato su un autografo, forse quello su cui lavorava G. nel 1583. Il Capitolo sopra la salsiccia ricalca quello sulla primiera di Francesco Berni, vero maestro per G., che, non a caso, ne cura l’edizione delle opere burlesche (Il primo libro dell’opere burlesche, di m. Francesco Berni, di m. Gio. Della Casa, del Varchi, del Mauro, di m. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola, 1548). La Lezione si pone come ironica glossa al testo, per lo più concretandosi in variazioni, amplificazioni e riferimenti letterari intorno ai motivi già presenti nei versi. Nel manoscritto copia dell’autografo si legge la seguente citazione: «che hanno a che fare i correggiati col verbum caro? come dice il Nidiace delle Cavalle», a margine glossato con il nome di Machiavelli.
Il Segretario fiorentino dunque sarebbe citato con il nome camuffato in forma vagamente anagrammatica. Ma nella stampa della Crusca la citazione a questo punto scompare. ‘Nidiace delle Cavalle’ rimane, ma indica ora Pietro Aretino, che nel manoscritto era chiamato per nome (altro autore all’Indice, ma fondamentale nella formazione di G.): «E poi i gran maestri e i signori, come dice il Nidiace delle Cavalle, hanno sempre dello svogliato», concetto sviluppato nella prima giornata del Dialogo dove la Nanna ammaestra la Pippa a ben trattare con i vecchi ricchi.
La sensibilità di G. per l’opera comica di M. è confermata dall’accusa che egli muove a Giovambattista Gelli di essersi appropriato del testo di M. nella stesura della sua Sporta (1543; cfr. A. Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, a cura di C. Verzone, 1882, pp. 24 e 96, rime XXIV e CXIX). Frammenti di una commedia del Segretario sul modello della plautina Aulularia sarebbero pervenuti nelle mani di Gelli che li avrebbe adattati per la pubblicazione dell’opera a suo nome. La notizia è confermata dal nipote di M., Giuliano de’ Ricci, nel Priorista. Infine, rapporti tra G. e M. si danno anche sul piano editoriale, giacché allo sfortunato accademico fiorentino si deve la pubblicazione dei canti carnascialeschi, sei dei quali opera di M. (→ Rime sparse). Nel 1561 G. riesce finalmente a stampare presso l’editore mediceo Lorenzo Torrentino Tutti i trionfi, carri, masche[r]ate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del magnifico Lorenzo il vecchio de’ Medici infino a questo anno presente 1559, dopo vicissitudini editoriali dovute all’opposizione di Paolo dell’Ottonaio, che lamentava errori nella versione dei canti del fratello Giovan Battista. La stampa presenta, sotto il nome di M., i seguenti testi: Canto di diavoli, Canto d’amanti disperati e di dame, Canto degli spirti beati, Canto di romiti del diluvio, Canto d’huomini che vendon pine.
Bibliografia: Le rime burlesche edite e inedite, a cura di C. Verzone, Firenze 1882; Teatro, a cura di G. Grazzini, Bari 1953; Opere, a cura di G. Davico Bonino, Torino 1974; Le cene, a cura di R. Bruscagli, Roma 1976.
Per gli studi critici si vedano: C. Arlia, Una farsa del Lasca attribuita al Machiavelli, «Il bibliofilo», 1886, 7, pp. 74-75; G. Gentile, Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, Pisa 1896; R.J. Rodini, Antonfrancesco Grazzini poet, dramatist and novelliere. 1503-1584, Madison-Milwaukee-London 1970; C. Spalanca, Anton Francesco Grazzini e la cultura del suo tempo, Palermo 1981; G. Inglese, Mandragola di Niccolò Machiavelli, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, 1° vol., Torino 1992, pp. 1009-31 (ora in Id., Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 157-74); R. Trovato, Anton Francesco Grazzini. Un commediografo fra tradizione e modernità, Genova 1996; F. Pignatti, Grazzini Antonfrancesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 59° vol., Roma 2002, ad vocem; M. Plaisance, Antonfrancesco Grazzini dit Lasca, Roma 2005; Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005 (in partic. M.C. Figorilli, La presenza del teatro di Machiavelli in alcune commedie degli anni Trenta e Cinquanta del Cinquecento, pp. 501-25; E. Cutinelli-Rendina, Sulla costituzione del corpus teatrale di Machiavelli, pp. 549-68); G. Barberi Squarotti, Struttura e tecnica delle novelle del Grazzini, in Id., La letteratura instabile, Treviso 2006, pp. 241-59.