Antonino da Firenze
Nel campo di osservazione di Antonino da Firenze c’è un palcoscenico privilegiato, unico al mondo: la situazione culturale, economica, sociale e civile della Toscana, e in particolare di Firenze. La Firenze del Quattrocento, infatti, vive una svolta memorabile, passando da un’economia monetaria a una creditizia, alla quale l’Europa arrivò, in modo generale e definitivo, soltanto alla metà del 19° secolo. Antonino si trovò immerso in questo complesso crocevia epocale; una fase storica nella quale si formarono e si educarono i ‘ceti industriali’, e si sperimentarono le prime forme di una nuova organizzazione produttiva e creditizia.
Antonio Pierozzi (il diminutivo ‘Antonino’ gli fu dato per la gracile costituzione), figlio di ser Niccolò, notaio del Comune, e della seconda moglie di lui, Tommasa di Cenni di Nuccio, nacque a Firenze nel 1389, tra il 25 marzo e il 1° aprile secondo lo studio critico di Raoul Morçay (1914, p. 13 nota 1). Rimasto orfano di madre a sei anni, fu affidato all’educazione severa del padre e alla formazione culturale e spirituale del frate domenicano Giovanni Dominici (che sarà beatificato nel 19° sec.), discepolo di santa Caterina da Siena e promotore di una profonda riforma della Chiesa e dell’ordine domenicano. Non ancora sedicenne, entrò nell’ordine dei domenicani, vestì l’abito in S. Maria Novella a Firenze e, dopo la preparazione filosofica e teologica (a Cortona nel 1405, a Fiesole dal 1406 al 1409 e a Foligno dal 1409 al 1414), fu ordinato sacerdote nel 1413.
Dopo vari incarichi minori, il 28 maggio 1437 il generale dell’ordine domenicano, Bartolomeo Texier, lo nominò vicario dell’Osservanza per tutta l’Italia, carica che egli esercitò fino alla consacrazione ad arcivescovo di Firenze, avvenuta il 12 marzo 1446. In questi anni, grazie alla munificenza di Cosimo de’ Medici, Antonino assunse a Firenze il governo del nuovo convento di S. Marco.
Antonino fu anche tra i maggiori sostenitori dell’imponente ristrutturazione della chiesa di S. Marco, che all’epoca si trovava al centro della vita di Firenze, accanto al Palazzo Medici Riccardi, residenza della famiglia Medici. Nel giugno 1442 ottenne da papa Eugenio IV la bolla che erigeva in parrocchia questa chiesa e impegnava i frati alla predicazione.
Nel 1439, eletto priore del convento di S. Marco, lo rese centro di incontro e di discussione sulle questioni legate al Concilio, che in quello stesso anno era stato spostato da Ferrara a Firenze. Sempre in quel periodo iniziò la composizione delle sue due principali opere, a cui lavorò sino alla morte: la Summa theologica o, come venne anche significativamente chiamata, Summa moralis, e il Chronicon, o Summa historialis, intesa come illustrazione storica dalla Creazione alla metà del 15° sec. e come seconda parte della Summa moralis. Le sue biografie più antiche fanno riferimento unanime alla dottrina espressa da queste due opere maggiori.
Antonino morì presso Montughi il 2 maggio 1459, e fu sepolto a Firenze nella chiesa di S. Marco (i cui frati, il 20 agosto 1602, deliberarono che fossero dipinte nel primo chiostro alcune storie della sua vita). Adriano VI lo canonizzò il 31 maggio 1523. Venne proclamato dottore della Chiesa nel 1960 da papa Giovanni XXIII.
Unanimemente riconosciuto come lucido interprete e divulgatore delle questioni sottili legate alla teologia morale e al diritto, egli alternò le fasi della speculazione e degli studi a quelle della conoscenza diretta della società urbana ruotante attorno alla famiglia, al ruolo della donna, alla presenza conflittuale di élites e di ceti artigiani e mercantili variamente partecipi della cosa pubblica.
La formazione culturale e teologica dell’arcivescovo fiorentino, l’analisi della sua dipendenza più o meno forte da Tommaso d’Aquino e da Bernardino da Siena, alcuni nodi salienti del suo opus magnum (una sorta di enciclopedia della morale del diritto, della ragione, della fede, della casistica, dell’etica e dell’economia), il suo ruolo ‘politico’ nella Firenze che vide i Medici gradualmente ascendere al potere, i numerosi e complessi rapporti con la Chiesa e con la città: questi, in sintesi, gli argomenti che vanno a definire una figura poliedrica, vissuta al centro dell’Umanesimo civile fiorentino.
La Toscana nel Quattrocento, con Firenze e Siena al centro, è il motore di un vigoroso approfondimento del pensiero teologico-parenetico anche in materia economica. Il che spiega la particolare posizione di Antonino nello sviluppo della genesi delle idee, che non può essere disgiunta dal momento storico e dall’ambiente culturale in cui sono maturati i suoi scritti: la Firenze di Cosimo de’ Medici, di Filippo Brunelleschi, di Donatello, del Beato Angelico e dei grandi umanisti.
Dal convento di S. Marco, che Antonino concorre a ristrutturare, parte l’impegno per l’analisi critica dei fatti economici (mercatura, lavoro, prezzi e salari) come elementi costitutivi della vita del cittadino e della repubblica. Ormai la società era tutta presa dall’ansia del successo negli affari quanto dall’incomprimibile attrattiva della cultura nuova, che dalle classi aristocratiche si diffondeva fino ai più modesti artigiani e commercianti.
La teoria del giusto prezzo, la centralità del lavoro e del salario, la condanna di ogni pratica usuraia fino all’obbligo cristiano e civile della restituzione: sono temi vivi che, superando la visione statica tomista, preludono agli sviluppi moderni. È viva in lui la preoccupazione di mantenere l’economia come un libero e sereno gioco di operatori onesti, giusti e leali, che nello sforzo quotidiano siano in grado di ricavare i mezzi per vivere per sé, per la propria famiglia e per il bene della comunità. Per questi motivi Antonino esplora la possibilità di scrivere una Summa che riesca a cogliere la realtà che egli va osservando nel suo concreto manifestarsi, senza però fermarsi alla semplice osservazione o alla ricostruzione di modelli di comportamento socioeconomico. In essa tenta di presentare la vita della gente con la molteplicità delle sue reali attività, inserite in un contesto di ‘civiltà cristiana’ e di ‘economia civile’. Questa soluzione – trasferita in campo teorico – per il teologo domenicano significa l’adesione alla filosofia della scolastica, o meglio, a quella parte di essa che costituisce l’etica sociale, cioè la scienza dei fini ultimi dell’uomo e della società. In questo modo – a suo parere – il teologo, il predicatore, il confessore e il direttore spirituale delle anime hanno la chiave per trovare, con metodo induttivo, i criteri spirituali per leggere criticamente l’evoluzione sociale e la multiforme realtà economica che andava delineando il nuovo rapporto individuo-società.
Quando la borghesia ‘grassa’, ‘mercantile’ e ‘industriale’ di Firenze ingaggiò la lotta contro la feudalità del contado – i signori della campagna –, e poi quando incontrastata detenne il potere, le Arti, almeno fino al tumulto dei Ciompi del 1378 (ossia, la rivolta dei poveri operai sotto la direzione del cardatore Michele di Lando), per i loro freni morali e per le loro stesse disposizioni giuridiche non tradirono il principio di ‘solidarietà’, conciliando i propri interessi particolari con quelli della sottostante ‘classe’ dei lavoratori. Ma quando, a causa di situazioni economiche e politiche complesse e difficili, il capitale monetario cominciò a sfuggire di mano alla borghesia, allora iniziò davvero una ‘lotta di classe’ fra capitale e lavoro, fra datori di lavoro e lavoratori, che aprì le porte all’avvento della nuova borghesia finanziaria (‘quattrinaria’), e Firenze cadde in mano ai banchieri. I piccoli campsores o cambiatores delle valute vennero sostituiti dai mercanti-banchieri, e Firenze divenne il primo centro bancario d’Europa, oltre che un importante centro per la lavorazione della seta e della lana. Le case bancarie ammontavano a 108, e le più importanti potevano contare anche su un gran numero di succursali. Suonano familiari i nomi dei banchieri Tornabuoni, o di mercanti, uomini d’affari e uomini politici come Dino Compagni, Pier Capponi, Giovanni Villani e così via.
Esempio emblematico del passaggio dalla prima, ‘sana’ borghesia a una di nuovo tipo, caratterizzata dal decadimento dei valori morali, è la figura di Francesco di Marco Datini (1335 ca.-1410), fondatore a Prato di un grande sistema di aziende, che ben s’inserisce nel quadro della società dominata dal principe e dalla Chiesa alleati fra loro.
Composta tra il 1440 e il 1459, la Summa theologica, o Summa moralis, è divisa in quattro parti; ciascuna di esse è suddivisa in titoli, e questi in paragrafi.
Nella prima parte si tratta soprattutto dell’anima (natura e facoltà), del peccato, della legge. Il filo conduttore è sempre l’anima, come spiega chiaramente lo stesso Antonino.
La seconda parte tratta dei vizi capitali, della menzogna, del voto, dell’infedeltà. Affrontando il vizio dell’avarizia, egli ha modo di toccare alcuni temi relativi al mondo economico, temi molto attuali e scottanti al suo tempo e nell’attivissima Firenze.
La terza parte, la più nota e studiata, riguarda le problematiche che si ritrovano nella società del tempo. Il messaggio più innovativo di questa parte consiste, infatti, nell’aver messo in relazione la visione cristiana della vocazione religiosa con la vocazione umanistica e laica verso il mondo delle lettere, delle professioni liberali e soprattutto dei mestieri, ma in un contesto di situazioni assai più ampio rispetto a quello di Tommaso d’Aquino.
La quarta parte, infine, tratta delle virtù e dei doni dello Spirito Santo. Merita attenzione anche questa parte, nella quale Antonino svolge diffusamente in forma teorica la definizione stessa di consilium come parte della virtù cardinale della prudenza. Dopo aver elencato le otto parti della prudenza (ragione, intelletto, circospezione, previdenza, docilità, cautela, memoria, sagacia), egli ribadisce che essa, applicandosi alla sfera delle virtù morali, si suddivide in altre tre parti, di cui la prima e più importante è la prudenza direttiva, ovverosia quella che, senza impeto e passione, guida le inclinazioni al proprio fine con i mezzi idonei a quel fine.
Per comprendere lo scopo della Summa occorre leggere quanto Antonino stesso scrive nel Prologo, dove precisa in maniera sintetica anche l’utilizzo delle diverse auctoritates:
Ho preso da molti dottori in teologia ed esperti del diritto ciò che ho ritenuto adatto per la materia della predicazione, per l’ascolto delle confessioni, la direzione delle anime, non avendo l’intenzione – io, indotto e ignaro di ogni scienza – di scrivere dei poemi, ma di comporre un riassunto per amore dei fratelli, a vantaggio mio e dei miei simili, ai quali non è dato un impegno per le cose più alte, e neppure una grande quantità di libri, e ai quali le occupazioni tolgono la facoltà di leggere.
Attingendo diverse fonti, egli non è molto sistematico nell’esposizione dell’etica economica e non affronta il tema in un unico blocco. La trattazione, infatti, manca di unità.
La giustificazione del commercio si trova nella parte seconda, alla voce generale De avaritia, mentre gli esempi concreti delle negligenze compaiono per lo più nella parte terza, dove discute dello «stato dei mercanti e degli artigiani».
La Summa antoniniana nella terza parte presenta un esame delle forze produttive e lavorative, illustrando i processi produttivi e organizzativi dell’industria tessile. Nella penetrante rassegna, le figure degli operatori sono esaminate nel vivo della loro funzione imprenditoriale e artigiana, aprendo qua e là sprazzi di luce sulle strutture tecnico-economiche, sul sistema sociale e sulle forme di avanzata civiltà raggiunte dalla Toscana quattrocentesca.
Significativa, in questa rassegna analitica (che potremmo definire di umanistico empirismo) in cui viene descritta l’attività minuta e giornaliera del settore tessile, è la sua testimonianza di quasi impotenza nell’introdurre criteri di valutazione morale quando, a proposito della liceità delle vendite a termine, afferma: «Tuttavia questa è una materia molto complicata e non molto chiara, ragion per cui non si deve approfondirla» (Summa theologica, parte III, tit. VIII, cap. IV, § 2, col. 250).
Nell’analisi sulla giustificazione del profitto, Antonino si rifà in larga misura a Tommaso d’Aquino; però aggiunge un’importante osservazione, secondo la quale il problema degli scambi è una questione che attiene alla politica economica, perché lo scopo ultimo dell’attività commerciale è di fornire alle famiglie o alla comunità beni o servizi (parte II, tit. I, cap. XVI, § 2, col. 150b). La ricerca del profitto fine a se stesso è riprovevole, perché il desiderio di guadagno non conosce limiti ma si spinge all’infinito; perché possa essere giustificato dev’essere moderato e diretto a un fine sociale: sostegno della famiglia, opere di carità, bene della comunità.
Nell’analisi economica Antonino dà il meglio di sé quando tratta di situazioni concrete. La sua descrizione delle frodi commesse nei vari commerci è ricca di dettagli sugli strumenti usati dai mercanti per i propri guadagni, e passa in rassegna una copiosa casistica. Le frodi non riguardano soltanto i vari comparti del settore industriale e dell’edilizia, ma anche l’attività dei farmacisti (parte III, tit. VIII, cap. IV, § 6, col. 317b), degli intermediari finanziari (§ 1, col. 309b), degli autisti (§ 11, col. 321e), degli amanuensi (§ 11, col. 321b).
Quando si tratta di analizzare la funzione del prestito di denaro, sia per i consumi sia per investimenti vantaggiosi, o di determinare il valore economico e il giusto prezzo, l’arcivescovo di Firenze offre poca originalità (parte II, tit. I, cap. XVI, § 3, coll. 255-56), attingendo alla terminologia del Tractatus de contractibus et usuris e del Quadragesimale de Evangelio aeterno, Sermones XXVII-LIII (in Opera omnia, studio et cura patrum Collegi s. Bonaventurae, 4° vol., 1956, pp. 190 e segg.), del francescano predicatore Bernardino da Siena che, a sua volta, riproponeva il pensiero del confratello Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298), di cui possedeva gli scritti nella sua ricca biblioteca nel convento di Siena dell’Osservanza. Insiste molto sul carattere volontario della vendita: il compratore non è obbligato a comprare, né il venditore a vendere, ma se sceglie di farlo non può imporsi sul compratore ed esigere il prezzo che desidera; farlo sarebbe ingiusto e iniquo (Summa theologica, parte II, tit. I, cap. XVI, § 4, col. 258c). Per questo è sempre lecito vendere al prezzo corrente, ovvero di mercato (parte III, tit. VIII, cap. III, § 4, col. 306b).
In questa prospettiva, Antonino sviluppa il concetto di salario come un quasi pretium laboris, asserendo il carattere contrattuale della mercede e insieme la sua specifica dignità nei confronti di ogni altra valutazione economica. Sui salari e sulle relazioni ‘industriali’ egli ha molto da dire. La sua conoscenza diretta delle condizioni esistenti nel settore tessile fiorentino, e in particolare in quello della lana, dove le relazioni tra datori di lavoro e lavoratori erano sempre tese, gli torna utile e gli permette di fare osservazioni pertinenti e interessanti.
Anzitutto constata che la misura del salario ha naturalmente un vasto campo di variabilità, determinato dal tipo di lavoro, dalla funzione ricoperta, dai bisogni dello Stato e dalle condizioni socioeconomiche dei lavoratori. Difatti, egli esprime duri giudizi contro i governanti o i pubblici ufficiali che approfittano della loro carica per imporre prestazioni gratuite a proprio favore a carico di artigiani o contadini bisognosi di appoggio:
E di certo è in primo luogo un dovere non far lavorare gratis per sé artigiani o contadini: così come si comportano oggi molti che non sono quindi né signori né pubblici ufficiali, ma tiranni e predoni (parte III, tit. III, cap. I, § 7, col. 27).
Gli abusi rilevati dovevano essere notevoli se Antonino interviene per denunciare dei casi di lavoratori che sono costretti ad accettare per necessità qualunque condizione (parte III, tit. VIII, cap. IV, § 5, col. 51).
Con tale condanna dello sfruttamento, che purtroppo riaffiorerà sempre nella prassi salariale nei secoli successivi, egli entra nel cuore dello sviluppo del mondo produttivo, con grandi idee di libertà morale e giustizia sociale. Egli, infatti, afferma che il salario di un lavoratore è un prezzo che, come ogni altro, è determinato dalla stima comune, senza interferenze con la libertà del mercato del lavoro. Naturalmente sa benissimo che non è facile raggiungere un giusto salario, perché ciò presupporrebbe che datori di lavoro e lavoratori avessero pari potere contrattuale, e ciò normalmente non accade, perché il lavoratore spesso è costretto ad accettare una cifra inferiore a quella fissata dalla stima comune «perché è povero e deve accontentarsi di molto meno di quanto sarebbe necessario a dare sostentamento a lui e alla sua famiglia» (parte II, tit. I, cap. XVII, § 8, col. 269e). Antonino non arriva però a suggerire forme associative di lavoratori (collegia) da opporre al potere delle corporazioni, come poi farà nel 1891 papa Leone XIII con l’enciclica Rerum novarum. In ogni caso, pagare un salario meno del giusto è scorretto e colpevole, come non pagare il giusto prezzo al mercante (parte II, tit. II, cap. XVII, § 8, col. 269d).
Sempre nello stesso passo, Antonino denuncia altre due pratiche scorrette: il pagamento dei salari in natura al posto del denaro necessario per comprare viveri e vestiario, e la riduzione dei salari reali attraverso una svalutazione pilotata della moneta.
Sul problema dell’usura, infine, egli non esprime nulla di nuovo. Tuttavia un merito gli va riconosciuto, ed è quello di aver saputo, sapientemente e magistralmente, distillare dalle migliaia di pagine scritte dai teologi e canonisti medievali l’essenza della dottrina. Naturalmente va precisato subito che guarda, compiaciuto, la sanzione di scomunica comminata dalla decretale Ex gravi del Concilio di Vienne (1311-12) contro coloro che osano anche soltanto dire che l’usura non è peccato grave. Dovunque e dappertutto – con lo stesso sguardo acuto di Bernardino da Siena – vede usurai, specialmente a Firenze, dove più dinamiche sono l’attività mercantile e quella imprenditoriale, favorite appunto dal credito.
Egli, comunque, introduce nella Summa una distinzione chiara tra l’usura e il turpe lucrum o guadagno disonesto (parte II, tit. I, cap. XXIII, col. 313b). Il turpe lucrum è qualsiasi utile che derivi da un contratto illecito o da attività illegali proibite dalla legge divina o umana o da entrambe, come la prostituzione, il monopolio, il gioco d’azzardo, i tornei, la simonia e simili. I profitti ottenuti in malafede devono essere restituiti, o sotto forma di donazioni alle opere di carità o, quando possa essere identificata, alla persona danneggiata. L’usura è dunque, in particolare, un turpe lucrum legato a un prestito o mutuum. Poiché il diritto canonico assimila l’usura al furto, i profitti dell’usura vanno restituiti (parte II, tit. I, cap. XXIII, § 10, col. 324c).
Antonino mostra di essere ben informato sulle pratiche bancarie: ritiene, infatti, che le transazioni di cambio non siano usuraie, a meno che non se ne abusi per celare un prestito.
Nella Summa analizza quattro diverse transazioni di cambio, alcune lecite e altre illecite.
La prima è il cambium minutum, o cambio di denaro semplice (parte II, tit. I, cap. VII, § 47, col. 122e, e parte III, tit. VIII, cap. III, col. 299a); la seconda è il cambium per litteram, o cambio per lettera, quando il banchiere si limita a vendere cambiali o lettere di credito esigibili a Roma o altrove, oppure ad acquistare lettere di cambio (parte III, tit. VIII, cap. IV, col. 300b); la terza è il cambium ad libros grossorum, o cambio secco, un sistema congegnato per nascondere prestiti concessi al fine di ottenere un profitto; la quarta, infine, è la transazione usuraia vera e propria (parte II, tit. I, cap. VII, § 50, col. 123, e parte III, tit. VIII, cap. III, § 3, coll. 301e-302).
La riflessione teologica di Antonino nella Summa è un documento molto importante per capire meglio la storia della teologia morale nel periodo di trasformazione fra il tardo Medioevo e l’inizio della modernità. Il suo contributo di carattere pratico si rivela decisivo nella progressiva indipendenza della teologia morale da quella speculativa.
A riprova dell’enorme fama e fortuna della Summa theologica vi sono le numerosissime edizioni – molte delle quali in incunabolo – tra cui: sette a Venezia tra il 1477 e il 1582, una a Norimberga e a Spira nel 1477, due a Basilea nel 1502 e 1511, e una (la migliore e più completa) a Verona nel 1740 (a cura di Pietro e Girolamo Ballerini), ristampata con procedimento fotolitografico nel 1959 a Graz dall’Akademische Druck und Verlagsanstalt (a cura di Innocenzo Colosio), in occasione del quinto centenario della morte del santo, celebrato solennemente a Firenze. Le citazioni presenti nel saggio (la cui traduzione dal latino è stata eseguita dall’autore) sono tratte da questo testo, così come le indicazioni delle colonne.
Anche il Chronicon o Summa historialis, inteso come illustrazione storica della Summa moralis, ebbe grande fortuna, come dimostrano le numerose edizioni, da quella di Norimberga (in tre volumi) del 1484 a quella di Lione del 1587.
Dal punto di vista della teologia morale pratica, Antonino scrisse in volgare I confessionali, ripetutamente stampati fra Quattro e Cinquecento.
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