LENIO, Antonino
Nacque nel Salento, forse a Parabita (cfr. Tafuri, p. 255), tra il 1470 e il 1475. Il cognome e il nome fanno pensare a una latinizzazione, ma non è possibile fare ipotesi concrete in proposito. Ricevette un'educazione umanistica, legata alla scuola napoletana di Giovanni Pontano. Nel poema Oronte gigante egli ricorda come maestri e amici, dopo il Pontano, numerosi umanisti partenopei: Giano Parrasio, Decio Apranio, Giano Anisio, Pomponio Gaurico, Iacopo Sannazaro, Marcantonio Epicuro, Girolamo Scannapieco, Bernardino Rota, Marco Antonio Barone, Battista Scale, Pompeo Bantio, Giovanni Balduino, Ferrante Gonzaga, Andrea Matteo, Antonio Donato Acquaviva, Dionisio Aquosa, Dragonetto Bonifacio.
Da questo ambiente provengono le uniche testimonianze letterarie sul conto del L. - due epigrammi scherzosi a lui diretti rispettivamente da Giano e da Cosimo Anisio - e a esso si deve ricondurre la sua giovanile produzione poetica in latino, cui egli allude in vari epigrammi pubblicati in calce al poema. A questa stagione giovanile è forse da ascrivere un poema sulla gigantomachia, di registro epico-tragico, a cui il L. allude nell'Oronte gigante (libro I, canto V, vv. 9-16).
Dal 1517 circa fu al servizio di Francesco Del Balzo, conte di Ugento e di Castro. Alla figlia di lui e di Brisa Carafa, Antonia Del Balzo, dedicò l'Oronte gigante, pubblicato a Venezia nel 1531 da A. Pincio "ad instantia de Christophoro dito libraro Stampon e compagni".
Il poema si compone di tre libri, rispettivamente di 16, 12 e 6 canti, per un totale di 1900 ottave. È preceduto da due epigrammi latini, dello Scannapieco al L. e del L. alla Del Balzo, nonché dal sonetto di dedica del L. alla Del Balzo, dove si dichiarano una poetica genericamente naturalistica e una disposizione francamente antitoscana in fatto di lingua. Seguono il poema 45 epigrammi in latino di vario argomento, nei quali il L. si rivolge per lo più alla sua donna, Gesia (allegoria della poesia), per cantare d'amore, e agli amici umanisti di Napoli e Venezia per discutere di letteratura.
La composizione del poema va collocata tra il 1527, data del sacco di Roma (ricordato con toni accorati in libro I, canto VI, vv. 117-120, e libro II, canto IV, vv. 273-289), e l'anno di pubblicazione, ma è caratterizzata da numerose svolte interne, legate alle vicende storiche e alla biografia dell'autore. Tra il primo e il secondo libro si assiste a un cambiamento di tono, dal romanzesco al politico, che è dovuto probabilmente alla sconfitta dei Francesi, per i quali parteggiava la famiglia Del Balzo, contro gli Spagnoli nel Regno di Napoli.
L'Oronte, come dichiara il frontespizio, racconta "le battaglie del re de Persia, et del re de Scythia fatte per amor de la figliola del re de Troia. Capitani de' Perse Rinaldo, e de' Scite Orlando; cose belle e nove. Con additione de le battaglie fatte per amor de la figlia del re Pancreto in Nabatea". L'addizione corrisponde al III libro dell'opera, composto in aggiunta ai precedenti dopo un certo intervallo di tempo, comunque non oltre il 1530, dato che il Sannazaro, morto il 24 aprile di quell'anno, vi risulta in vita.
Il poema, che viene proposto come traduzione di un romanzo francese in prosa, presenta una singolare fusione tra materia carolingia e ciclo troiano, tradizione romanzesca francese e forma epica classica. Il L. innesta inoltre di continuo l'attualità contemporanea sul tronco della narrazione cavalleresca: oltre all'allusione al sacco di Roma, propone la genealogia di Francesco I di Valois (libro II, canti I e III), depreca le guerre d'Italia (libro II, canto XII), celebra prima le dame (libro I, canto VI) poi i grandi letterati e i grandi condottieri del suo tempo (libro III, canti V e VI). Egli si rivela così consapevole dei grandi temi politici e culturali contemporanei: la congiunzione della celebrazione dei letterati e dei condottieri si configura infatti non solo come omaggio alla committenza e ai lettori, ma anche come risposta alla questione umanistica del primato tra lettere e armi.
Sul piano linguistico il poema presenta una straordinaria mescolanza tra latino e volgare, talvolta anche greco, rivelandosi una significativa testimonianza di ibridismo e sperimentalismo di stampo umanistico. Questa lingua mescidata, la struttura prevalentemente accumulativa del racconto, la presenza di inserti novellistici, l'immaginario per lo più fantastico, fondato sul recupero in chiave romanzesca di Erodoto, Luciano e Apuleio, legano l'Oronte gigante alla cultura narrativa quattrocentesca, in dialogo più con Poliziano, Pulci e Boiardo che con i contemporanei Ariosto e Bembo.
Nel 1528 il L. seguì in esilio, a Ragusa in Dalmazia, Francesco Del Balzo, che era stato coinvolto nel fallito tentativo di rivincita francese. A Ragusa il L. entrò in contatto con l'aristocrazia locale, dal momento che a tre nobili ragusani, Marino di Giovanni, Michele Bucignola e Marino Lepore, sono dedicati gli epigrammi XXXV, XXXVII e XLIII della raccolta posposta al poema. Tra la fine del 1529 e l'inizio del 1530 seguì probabilmente il Del Balzo anche a Roma, alla corte del cardinale Agostino Trivulzio, come sembrano provare gli epigrammi dedicati a Giulia Trivulzio (XXXVI) e al ritorno di Giovanni Paolo Anguillara, figlio di Lorenzo Anguillara, detto Renzo da Ceri (XXXIII).
Nel corso del 1530 si trasferì a Venezia. Qui compose, o terminò di comporre, il III libro del poema, che testimonia un adeguamento alla mutata situazione politico-militare della penisola. Le ottave in lode di Carlo V (libro II, canto I, vv. 97-120), inserite verosimilmente in questo momento, e il proposito di comporre un poema celebrativo dell'imperatore espresso nel libro III, canto V, vv. 473-488, bilanciano la posizione decisamente filofrancese fino ad allora diffusa nel poema. A Venezia il L. si legò al patrizio Gerolamo Emo, a cui si rivolge nell'epigramma XXXIX come "mihi Maecenas"; nel catalogo dei letterati veneziani contenuto nel canto V del III libro menziona i suoi nuovi amici e interlocutori: Gaspare Bembo, Nicolò Baldù, Lorenzo Sanuto, Vittore Soranzo, Tegio Amico, Bartolomeo Abioso.
Il L. morì probabilmente a Venezia in una data imprecisata, non molto dopo la pubblicazione del poema.
Dell'Oronte gigante ha fornito un'edizione critica quasi integrale M. Marti, Lecce 1985.
Fonti e Bibl.: G. Anisio, Varia poemata, Neapoli 1531, c. 73; C. Anisio, Poemata, Neapoli 1533, c. 11; G.B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, III, 1, Napoli 1750, pp. 255 s.; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 176; E. Percopo, Dragonetto Bonifacio, marchese d'Oria, rimatore del sec. XVI, in Giorn. stor. della letteratura italiana, X (1887), pp. 223 s.; Id., Marc'Antonio Epicuro. Appunti biografici, ibid., XII (1888), p. 35; P. Marti, Origine e fortuna della coltura salentina, Lecce 1893, ad ind.; A. Foscarini, Saggio di un catalogo bibliografico degli scrittori salentini, Lecce 1894, p. 169; E. Percopo, Pomponio Gaurico umanista napoletano, Napoli 1894, pp. 81 s., 194-209; F. Foffano, Il poema cavalleresco, Milano 1904, p. 126; C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani 1904, p. 497; B. Croce, L'"Oronte gigante". Poema cavalleresco di A. L. (1930), in Id., Aneddoti di varia letteratura, I, Napoli 1942, pp. 141-153; A. Altamura, L'umanesimo nel Mezzogiorno d'Italia, Firenze 1941, pp. 177 s.; La lirica napoletana del Quattrocento, a cura di A. Altamura, Napoli 1978, pp. 156-169; M. Marti, Un salentino a Venezia: A. L. e la datazione del suo "Oronte gigante", in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, III, 2, Firenze 1983, pp. 641-665; Id., Gli "Epigrammi" napoletani di A. L., in Rinascimento meridionale e altri studi pubblicati in onore di M. Santoro, Napoli 1987, pp. 241-252; A. Vallone, Storia della letteratura meridionale, Napoli 1996, pp. 261-264; A. Casadei, La fine degli incanti, Milano 1997, p. 42.