VENTIMIGLIA, Antonino
– Nacque a Palermo nel 1642 da Lorenzo, barone di Gratteri e di Santo Stefano di Bivona, successivamente investito del titolo di conte di Prades (1661), e da Maria Filangieri Bologni del ramo di Cutò, sposata in seconde nozze.
I suoi fratelli furono: Carlo, II conte di Prades; Geronimo, teatino e vescovo di Lipari (1694); Giuseppe, che fu giudice della Gran Corte; Cesare, che fu abate; Elisabetta, che sposò Giovanni Gioeni duca d’Angiò; Domenica, che sposò Giuseppe Gallego marchese di Sant’Agata e principe di Militello; e le due sorelle Iulia (suor Elena) e Caterina (suor Lorenza), entrambe monache presso il monastero di S. Chiara. Suo fratello di primo letto fu invece Francesco, che ereditò dal padre i titoli di barone di Gratteri e di Santo Stefano di Bivona, e che fu anche primo principe di Belmonte maritali nomine di Ninfa Ventimiglia.
Il fratello Carlo, conte di Prades, maestro di campo e governatore di Taormina, occupata dai francesi nel corso della guerra di Messina (1674-77), fu accusato di tradimento e la famiglia ne subì pesanti ripercussioni, ma ebbe infine il perdono del sovrano spagnolo e la restituzione dei beni confiscati. Ventimiglia rimase comunque estraneo ai fatti.
Antonino vestì l’abito teatino a soli undici anni nel 1653 e si fermò a Palermo certamente sino al 1659, anno in cui prese i voti. Trascorse un periodo a Napoli al seguito del missionario teatino padre Francesco Maria Maggio (Ferro, 1705, pp. 567, 587, 592). Destinato a Madrid, presso la corte per curare suo malgrado gli affari di famiglia, godette di molta considerazione e rispetto, fu maestro dei novizi nella casa teatina di Nuestra Señora del Favor (attuale chiesa di S. Gaetano) e negli anni 1682-83 fondò a Salamanca, con padre Jerónimo Abarrategui y Figueroa, il collegio di S. Gaetano.
Espresse subito il voto di recarsi come missionario nelle Indie Orientali e di restarvi tutta la vita, ma i suoi fratelli lo contrastarono in più occasioni, intervenendo per la revoca della patente, necessaria alla partenza, che la congregazione di Propaganda Fide gli aveva nel frattempo concesso. Ventimiglia si lamentò in più occasioni delle interferenze e degli ostacoli frapposti, ma perseverò con tenacia anche in relazione al voto espresso, sino ad appellarsi nell’agosto del 1682 a papa Innocenzo XI, ottenendo infine il permesso (22 novembre 1682).
Da Madrid (13 gennaio 1683) si recò a Lisbona in gran segreto, perché diffidava del nunzio apostolico di Madrid, cardinale Savio Mellini, e temeva che ancora una volta la sua partenza fosse ostacolata. Partì la notte del 26 marzo 1683 diretto a Goa, dove giunse il 19 settembre, accolto da padre Salvatore Gallo, prefetto delle missioni teatine nelle Indie Orientali, le cui relazioni a Propaganda Fide costituiscono le nostre fonti più rilevanti sulla missione e l’operato di Ventimiglia nel Borneo.
A Goa Ventimiglia svolse la sua attività di predicatore per circa quattro anni, «scarso di parole, ma loquace con Dio» (Ferro, 1705, p. 483), spesso ammalato tanto da ricevere più volte l’estrema unzione, ma sempre speranzoso di partire per qualche missione. Fu destinato all’isola del Borneo, dato che il sultano musulmano di Banjarmasin (Bangiar Massem) aveva manifestato già da tempo ai portoghesi di Macao, per il tramite del capitano Manoel de Araujo Gracez, con cui intratteneva rapporti commerciali, la disponibilità a impiantare nell’isola un presidio (fattoria) portoghese, ospitandovi un religioso: nessuno a Macao aveva accettato, «atterriti tutti dalla barbarie di quelle genti» (ibid., p. 498), con le quali gli olandesi nel 1669 avevano già avuto gravi problemi. Sicché in quell’isola non era mai entrata alcuna missione. La richiesta del sultano nasceva dalla necessità di trovare protezione da olandesi e inglesi, e di rendere più sicuri i traffici in quei mari. L’atteggiamento tiepido dei portoghesi di Macao apriva le porte a quelli di Goa grazie anche ai contatti e al favore del portoghese Luis Francisco Coutinho (Cottigno), parente del governatore di Goa don Rodrigo da Costa (1686-90), che si fece carico di tutte le spese della missione teatina, garantendone il successo.
In verità, i portoghesi di Macao non gradivano che quelli di Goa si insediassero nell’isola, temendone la concorrenza: la località era infatti ricca di pepe di ottima qualità, il cui commercio era da anni nelle loro mani, ma anche di oro e di diamanti considerati persino migliori di quelli ormai famosi di Golconda. Per i teatini d’altra parte questa era l’occasione per dar luogo a una missione tutta loro in un territorio inesplorato, senza interferenze da parte di altri ordini religiosi, con cui non sempre i rapporti erano facili.
Il 5 maggio 1687 Ventimiglia, accompagnato da Coutinho, si imbarcò da Goa alla volta di Macao, giungendovi il 13 luglio 1687, non prima di aver fatto tappa alcuni giorni a Malacca. Rimase a Macao sei mesi, ospitato in un piccolo eremo degli agostiniani fuori della città, nell’attesa che arrivasse il tempo propizio per la partenza. Nel frattempo era stato nominato prefetto delle missioni in sostituzione di padre Gallo, ma non accettò l’incarico.
Finalmente l’11 gennaio 1688 partì per il Borneo con il capitano de Araujo Gracez e il 2 febbraio giunse a Banjarmasin, nel Sud del Borneo. Fu il primo missionario a penetrare nell’isola. Vi si fermò sino al 27 maggio, celebrando le solennità della Pasqua, allorché fu costretto a rientrare a Macao perché sembrò che non ci fossero condizioni di sicurezza tali da consentirgli la permanenza. A Macao rimase sino alla successiva partenza l’8 gennaio 1689: giunse la seconda volta nel porto di Banjarmasin il 30 dello stesso mese, portando con sé due giovani convertiti, Felice, di nazione cinese, e Lorenzo, nativo del Borneo, che gli faceva da interprete.
Vi trovò una situazione difficile per i contrasti tra i Malai (Malays), popolazione musulmana, soggetta al sultano di Banjarmasin, e i Beagius (Ngajus) pagani suoi tributari. Riuscì comunque a stabilirsi in una barca (lantim), trasformata in oratorio, e a sostare in una zona prossima al territorio dei Ngaju, con cui aveva intanto instaurato ottimi rapporti, tanto che questi volevano acclamarlo proprio sovrano, ma egli rifiutò. Entrò in stretta relazione di amicizia con il loro governatore (Angha), un uomo di età veneranda, e con due loro principi, Tomungon e Daman, che vivevano in zone più interne dell’isola, suscitando però dei sospetti nei Malays, che temevano un’alleanza contro di loro tra i portoghesi e i Ngajus «per molta copia d’oro». Intanto aumentavano le pressioni da parte dei Ngajus affinché Ventimiglia si spostasse nel territorio posto sotto la loro giurisdizione. Malgrado le resistenze del capitano de Araujo Gracez, che temeva la reazione del sultano, effettivamente il 26 giugno 1689, grazie anche alla mediazione del potente principe Sindum, che viveva in pace e amicizia con il sultano di Banjarmasin, Ventimiglia attraverso il fiume penetrò nel territorio Ngaju, ponendolo sotto la protezione della Croce e del re del Portogallo. Vi eresse una chiesa, convertì con successo molte tribù e battezzò in meno di due mesi almeno duemilacinquecento anime, persino il principe Daman e la sua famiglia, ottenendo una grande notorietà, tanto che i teatini pensarono di aprirvi un collegio per l’educazione dei giovani e chiesero che vi fossero inviati altri loro missionari e sacerdoti secolari.
L’attività di Ventimiglia dovette comunque destare preoccupazioni nel sultano che, temendo di perdere la sua influenza su quelle zone e il controllo delle attività commerciali, inviò un suo emissario con l’ordine di ucciderlo. Fu però strenuamente difeso dalla popolazione locale, che ne impedì la cattura. Intanto a Macao si era però sparsa la voce di fonte olandese che egli fosse stato ucciso dai musulmani del Borneo, circostanza smentita sia dallo stesso Ventimiglia in una sua lettera a padre Gallo, in cui lo informava di essere «ben trattato» dai Ngajus, «ma senza haver facoltà d’uscir fuori» (relazione di padre Gallo al re del Portogallo, Goa 23 dicembre 1692), sia dal capitano Coutinho e da frate Emanuele di Nostra Signora del Capo (al secolo Francesco Ferrera di Aragona), che lo avevano incontrato nel 1690.
C’erano interessi molto forti da parte delle autorità di Macao – di cui fu espressione l’atteggiamento ambiguo del capitano de Araujo Gracez – a lasciar fallire la missione teatina del Borneo, probabilmente per il timore che i rapporti commerciali con il sultano ne fossero compromessi. Si cercò di impedire pertanto ad altri missionari di raggiungere l’isola, facendo leva sulla pericolosità della situazione, avvalorata dalla circostanza, rivelatasi però falsa, della morte di Ventimiglia, e da alcuni incidenti gravi contro i portoghesi. Riuscirono comunque ad arrivarvi prima padre Gregorio Rauco (1691), che stabilì contatti epistolari con Ventimiglia, ammalato, ma vivo, senza però poterlo raggiungere nelle zone più interne dove egli operava; e successivamente padre Guglielmo Della Valle (1692), che durante la sua permanenza nel porto di Banjarmasin non riuscì mai a incontrarlo, ma aveva saputo da un mercante cinese, che trafficava con i Ngajus, che era morto di malattia. Il 19 gennaio 1692 gli fu intanto conferita autorità di vicario apostolico, senza però consacrazione episcopale, come invece richiesto per lui a Propaganda Fide da padre Gallo.
Morì nel Borneo in circostanze misteriose, probabilmente per malattia, tra la fine del 1691 e il 1692, ma girava anche voce che fosse stato ucciso dai musulmani del Borneo o avvelenato dai Ngajus.
La sua morte fu attestata dal vescovo di Babilonia in Persia al generale dei chierici regolari padre Giuseppe Maria Arrigoni (Roma, 5 maggio 1696), sulla base della testimonianza giurata di un «moro di qualità», riferita da padre Gallo, secondo cui Antonino era venerato nel Borneo in una tomba all’interno di una chiesa da lui edificata, sorvegliata continuamente da sentinelle per timore che il suo corpo fosse trafugato, e i cristiani locali non lo avrebbero ceduto «per quanto oro gli si desse». Numerosi prodigi infatti gli furono attribuiti non solo da vivo, ma anche da morto, tra cui diversi casi di guarigione di infermi e di defunti tornati alla vita, dei quali però non vi erano testimonianze dirette, ma solo voci e notizie che circolavano nei porti tra il Borneo, Malacca e Macao.
Giunta a Palermo la conferma della sua morte il 9 luglio 1696 gli fu organizzato «con sontuosissima pompa» un solenne funerale nella chiesa di S. Giuseppe dei Teatini, al quale assistette anche l’arcivescovo di Palermo in forma privata, con un concorso «senza numero» della nobiltà e del popolo palermitano, e delle cui spese si fece carico il nipote Gaetano, figlio del fratello Francesco, principe di Belmonte.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Archivio storico di Propaganda Fide, Scritture originali riferite nelle Congregazioni generali, vol. 483, cc. 314rv (Madrid, 14 agosto 1681), 380r-381v (lettera del conte di Prades, 16 marzo 1682); vol. 485, cc. 427r-428v (Madrid, 12 agosto 1682); vol. 515, cc. 378r-379v (Goa, 10 dicembre 1691); Scritture riferite nei Congressi, Indie Orientali e Cina, vol. 3, cc. 174r-175v (Madrid, 6 maggio 1682), 252rv (Madrid, 30 dicembre 1682), 295r (Lisbona, 26 marzo 1683); Acta Sacrae Congregationis, vol. 52, doc. 21, cc. 256v-257r (Roma, 10 novembre 1682); Congregazioni Particolari, vol. 30, cc. 705r-707r (Goa, 12 dicembre 1690); Udienze di Nostro Signore, vol. 3, c. 30r (Roma, 18 gennaio 1692); Archivio di Stato di Palermo, Pandette PP. Teatini in S. Giuseppe, vol. 82, cc. 41r-42r (atto del 1658); vol. 4, c. 93r (Palermo, 9 luglio 1696); Palermo, Biblioteca comunale, Manoscritti, 2Qq.C.107 (contiene copia di tre relazioni di padre Gallo da Goa del 23 gennaio 1691, 23 dicembre 1692, 3 dicembre 1693); 2Qq.E.166-167: M. Pluchinotta, Genealogie delle nobiltà di Sicilia (circa 1950), I-II, s.v. Ventimiglia di Grammonte, Ventimiglia di Belmonte; Madrid, Biblioteca nacional de España, Mss/9673 (12975/27) (copia della relazione di padre Gallo del 23 gennaio 1691); Napoli, Biblioteca nazionale, Biblioteca San Martino, ms. S.Mart. 509 (Roma, 5 maggio 1696); Lisbona, Biblioteca nacional de Portugal, cod. 170, c. 131rv (Goa, 31 gennaio 1770).
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