BELMOSTO, Antonio
Nacque intorno al 1540, presumibilmente in Corsica, forse a Bastia, sebbene le fonti lo dicano genovese: era infatti figlio primogenito di Luigi, appartenente a una antica famiglia di Genova, ma nato in Corsica e vissuto nell'isola, dove sposò una gentildonna della famiglia Gandolfi di Bastia ed esercitò varie importanti cariche pubbliche, tra cui quelle di commissario fiscale e, nel 1563, di oratore alla Repubblica, per chiedere la conferma di alcuni privilegi delle università corse. Assai giovane, il B. si trasferì nel Regno di Napoli per esercitarvi la mercatura, sulla scia di quei fortunati gruppi di banchieri e commercianti genovesi che, dopo la conquista spagnola del Regno, vi avevano progressivamente soppiantato i Fiorentini e gli stessi Napoletani nell'esercizio delle principali attività economiche. La prima notizia relativa all'attività del B. nel Regno risale al 1569, allorché era impegnato nei mercato delle vettovaglie per la città di Napoli. Dovette dare in ciò buona prova di iniziativa e di solidità finanziaria, poiché nel 1573 le autorità spagnole gli affidarono l'importante carica di tesoriere nella provincia di Calabria Citra. Contemporaneamente al B. anche un suo fratello minore, Agostino, svolgeva attività commerciali nel Regno: nel 1569, infatti, in qualità di fattore di Germano Ravaschieri, estraeva grano da Manfredonia e da Foggia per Napoli. Agostino passò poi, nel 1575, al servizio di Scipione Pontecorvo, arrendatore generale dei ferri, il quale gli delegò la riscossione dei diritti della gabella in Calabria, ufficio questo assai lucroso e che contribuì notevolmente alle fortune finanziarie della famiglia. Proprio contando sulle relazioni e sul prestigio dei due fratelli maggiori, un terzo figlio di Luigi Belmosto, Ottavio, nato nel 1559 a Venzolasca, presso Bastia, si trasferì nel 1576 nel Regno, dove effettivamente l'aiuto di Antonio e di Agostino gli valse la concessione di due abbazie del valore di 2.000 ducati annui. Non si sa, ma la cosa appare probabile, se le rendite ecclesiastiche di Ottavio confluissero anch'esse nelle fortunate speculazioni di Antonio e di Agostino. In ogni caso la situazione finanziaria dei due fratelli corsi divenne ben presto tale da consentire loro d'impegnarsi nella iniziativa che, dopo i vistosi successi ottenuti a Napoli nel corso del secolo dai Ravaschieri, dagli Spinola, dai Lomellino e da numerose altre famiglie di banchieri liguri, costituiva la somma aspirazione di ogni mercante genovese nel Regno: l'esercizio di un banco di credito.
Fu nel 1581 che Agostino, in virtù di un bando del 12 giugno, aprì il banco in Cosenza; l'anno successivo il B. cedette la carica di tesoriere per 21.000 ducati e per questa somma si associò all'iniziativa del fratello. Ma l'attività del banco non durò a lungo: il 9 maggío 1587 esso falliva, a quanto pare a causa di manovre dolose degli stessi proprietari. Certo è che essi si allontanarono clandestinamente da Cosenza, portando con sé 75.000 ducati depositati nel banco, e si rifugiarono a Terracina, nello Stato pontificio. Gli annosi tentativi dei creditori per essere risarciti ebbero assai scarsi risultati; soltanto alcuni mercanti genovesi riuscirono a stabilire un concordato, mentre la maggior parte dei depositanti dovette rinunziare ad ogni pretesa: tra questi la famiglia Sanseverino di Bisignano e il filosofo Bernardino Telesio. Il governo spagnolo non prese alcuna iniziativa contro i Belmosto, anzi, di lì a qualche anno sollecitò nuovamente i loro servigi finanziari, ignorando completamente le perduranti proteste che i creditori elevavano alla stessa corte madrilena.
Infatti, dopo essersi portato con Agostino da Terracina a Genova, come risulta da un atto notarile del marzo 1588, e poi in Corsica, il B. ricompare a Napoli nel novembre del 1595 col titolo di fattore generale di Filippo II per l'Italia. Non si sa quando questa alta carica gli fosse attribuita e nemmeno se egli l'esercitasse negli altri domini spagnoli: ogni ulteriore notizia su di lui è infatti relativa ad una sola operazione finanziaria, della quale egli fu protagonista a Napoli, d'intesa con le autorità viceregie e con lo stesso sovrano.
Negli ultimi anni la lotta contro il brigantaggio, la necessità di rafforzare la flotta e soprattutto il contributo alle spese della guerra contro i Turchi e contro i Francesi avevano indotto le autorità del Regno a far sempre più frequente ricorso ai prestiti, aggravando paurosamente il disavanzo del bilancio dello Stato, una metà circa del quale era costituito dagli interessi passivi. Nel tentativo di sanare per quanto possibile la difficile situazione fiscale del Regno resa più penosa da alcune cattive annate agricole, Filippo II decise nel 1594 una drastica diminuzione dei saggi d'interesse. Questa misura richiedeva naturalmente che si rimborsassero i creditori che non intendevano accettarla: di qui la necessità di disporre a Napoli di una somma sufficiente all'operazione, calcolata in 1 milione di scudi. Con un accordo stipulato il 27 ott. 1594 tra Filippo II e il B. questi si impegnò a "procurare in termine di due anni a far basciare tutte le entrate del R. Patrimonio di S. M. che si trovavano alienate a prezzi alti et redurle a 6 et 7% con lo medesimo patto de retrovendendo come se restrovano alienate". A tal fine il B. si impegnava a trasferire a Napoli la somma necessaria "in tanti argenti in pasta o dinari contanti et quelli ridurre in moneta corrente" (De Rosa, pp. 269 s.). In cambio egli si sarebbe riservato le quote del risparmio ottenuto dal fisco nei primi due anni successivi all'operazione e un terzo di quello del decennio successivo; inoltre era consentito al B. di estrarre o di introdurre nel Regno, per un periodo di diciotto mesi, 500.000 scudi in oro e in argento, "franchi di diritti", cioè gli era consentito di speculare liberamente sulle differenze dei cambi nelle varie piazze italiane.
In effetti, il B. introdusse nel Regno la somma concordata in verghe e in monete, e provvide a trasformarla in moneta napoletana, rendendo possibile il piano di riforma delle autorità spagnole. I vantaggi che il Real Patrimonio acquisì nell'operazione furono notevoli: la riduzione degli interessi passivi superò la somma di 27.000 ducati annuì, mentre l'aumento della massa monetaria circolante nel Regno determinava una tale riduzione del tasso di interesse dei prestiti pubblici che il B. poté calcolare di aver "importato a Sua Maestà più di un milione di beneficio" (ibid., p. 270).
Inferiori al previsto furono invece i vantaggi ottenuti dal B.: se infatti egli poté ricavare dalla sola coniazione dell'argento importato nel Regno un utile di 200.000 ducati, la clausola dell'accordo che gli consentiva la temporanea facoltà di importazione ed esportazione in franchigia di mezzo milione di scudi non fu attuata per varie difficoltà burocratiche; inoltre gli fu pagata dal fisco la somma corrispondente ai risparmi sugli interessi passivi dei primi due anni successivi alla conversione della rendita, ma non la quota prevista per il decennio seguente. Quest'ultima inadempienza contrattuale fu dovuta però probabilmente alla morte del B., avvenuta nel 1599 o nel 1600.
Eredi del B. furono i suoi fratelli Agostino e Ottavio, ai quali la Camera della Sommaria accreditò nel 1602, in forma di rendita sull'arrendamento dell'olio e sulle entrate della dogana delle pecore di Foggia, la somma di 90.928 ducati, che costituiva la quota del risparmio fiscale ancora dovuta al Belmosto. Ma gli eredi non si ritennero soddisfatti: essi pensavano di avere diritto ad un compenso per il guadagno che il B. non aveva potuto realizzare con il traffico valutario previsto dall'accordo, a causa di intralci di cui Agostino e Ottavio Belmosto giudicavano responsabili le amministrazioni di Napoli e di Madrid. Essi calcolarono che "stante la qualità del detto fattore e sua dìligentia et intelligentia de' negotij de cambi et de altri magazzini, con l'appoggio tenea di persone ricchissime" (ibid., p. 276), il B. avrebbe potuto ricavare, comprando e vendendo valuta nelle varie piazze italiane, un utile di 100.000 scudi e tale somma quindi richiedevano alle autorità spagnole. Queste accettarono sostanzialmente il curioso metodo di calcolo ipotetico proposto dai due fratelli Belmosto e incaricarono la Camera della Sommaria di "referire che danno o utile possea pervenire a detto quondam fattore Antonio per causa dell'entrate delli scudi 500 mila de oro che da S. M. li fu promesso, si con effetto detta estrattione fusse stata per le piazze di Roma, Genova, Messina e Palermo con dedurre tutte le spese e ogni altra cosa solita e necessaria fare in simili estrattioni..." (ibid., p. 273). Ma le conclusioni della Camera furono assai diverse da quelle dei due eredi; essa infatti dichiarò di non poter "fondamentalmente dire se in detta negotiatione il B. havesse potuto perdere o guadagnare, atteso delle cose future e contingenti solo Iddio ne può trattare" (ibid., p. 275). Agostino Belmosto non si appagò di queste conclusioni interessatamente scettiche e, anche a nome di Ottavio, moltiplicò le sollecitazioni alla corte di Madrid per ottenere il sospirato risarcimento. Ancora nel 1610 proponeva che almeno si rinnovasse a proprio vantaggio la concessione promessa al fratello, ma inutilmente, ché a tale richiesta la Camera della Sommaria replicò proponendo di concludere la questione con il pagamento ai due eredi del B. di una somma tra i 20.000 e i 26.000 scudi. Non si sa se tale proposta avesse seguito, e per molti anni si perdono le tracce di Agostino Belmosto.
Maggiori notizie si hanno invece intomo al fratello Ottavio. Si addottorò in diritto canonico e civile a Roma o a Napoli e servì per qualche tempo nella Curia pontificia. Nel marzo del 1591 prese gli ordini sacri e già il 31 luglio seguente fu creato da Gregorio XIV vescovo della diocesi corsa di Aleria. Qui rimase sino al 1608, impegnato soprattutto a moderare le interminabili contese faziose tra le famiglie e le comunità della regione affidata alle sue cure pastorali. Nel dicembre del 1608 cedette l'episcopato a Domenico Rivarola, in cambio di una pensione annua di 2.000 scudi. Si trasferì a Roma e quindi a Ravenna, in qualità di vicelegato di Romagna, dapprima alle dipendenze di Bonifacio Caetani e successivamente, dal marzo del 1612, a quelle dello stesso Rivarola. Paolo V gli affidò la carica di ponente della Consulta e il 17 ott. 1616 lo elevò alla porpora cardinalizia, col titolo di S. Carlo ai Catinari.
Morì a Roma il 16 nov. 1618, lasciando erede il fratello Agostino, sul quale non si hanno ulteriori notizie.
Fonti e Bibl.: N. Toppi, De origine omnium tribunalium, I, Neapoli, 1655; G. Petroni, Dei banchi di Napoli, Napoli 1871, p. 11; G. van Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1923, p. 102; P. Gauchat, IV, ibid. 1935, pp. 13, 41; L. von Pastor, Storia dei papi, XII, Roma 1930, p. 245; O. F. Tencajoli, Cardinali corsi. Ottavio Belmosto vescovo di Aleria, vice-legato di Ravenna, in Corsica antica e moderna, 11 (1933), pp. 105-110; I. Rinieri, I vescovi della Corsica, Livorno 1934, p. 100; R. Filangieri, Banchi di Napoli, Napoli 1950, pp. 18-25; A. Silvestri, Sui banchieri pubblici nella città di Napoli dalla costituzione del monopolio alla fine dei banchi dei mercanti, in Bollett. d. Arch. stor. dei Banco di Napoli, I, 4 (1952), pp. 16 s.; L. De Rosa, Un'operazione di alta finanza alla fine del '500, in Arch. stor. per le prov. napoletane, LXXVI (1958), pp. 267-283.