BERNARDI, Antonio
Nato nel marzo 1502 alla Mirandola, da una famiglia originaria di Milano, ma già ammessa nella cittadinanza locale da Galeotto I Pico (1478), il B. studiò all'università di Bologna dove ebbe maestri Ludovico Boccadiferro e Pietro Pomponazzi. Secondo un uso allora corrente, si recò a Ferrara per farvi celebrare con minor spesa, il 19 sett. 1533, la cerimonia della laurea nella quale ebbe promotori i celebri medici umanisti Giovanni Mainardi e Antonio Musa Brasavola. Era ancora semplice chierico quando una bolla di Paolo III (1533) lo nominò puntatore dei dottori e lettori dello Studio bolognese, ove divenne lettore di logica dall'anno accademico 1533-34 al 1537-38, quando passò ad philosophiam extraordinariam, commentando in quell'anno la Fisica e nel 1538-39 il De coelo et mundo di Aristotele.
Di questo periodo il B. stesso darà notizia nella prefazione all'Apologia pubblicata nel 1545: quando quindicenne si era volto allo studio della filosofia, fra i professori bolognesi "Paolo Veneto, Ockham, Egidio Romano, Tommaso, Scoto, Alberto Magno, Averroè, Temistio, il Filopono, Simplicio, Alessandro d'Afrodisia e vari altri autori erano tenuti in tanta autorità che le loro opinioni erano tramandate e accolte come oracoli ". Dopo aver seguito per qualche tempo questo metodo acritico, il B. aveva preferito rivolgersi ai testi stessi di Aristotele; così, quando a venticinque anni s'era accorto che tutti gli interpreti dissentivano egli era già in grado di dedicarsi all'esame diretto del testo aristotelico, prescindendo dalla tradizione esegetica.
Dopo quattro anni di questo rinnovato e accesissimo studio, si presentò al dottorato; già prima era stato invitato da amici a illustrare pubblicamente Aristotele, ma non aveva osato assumere tale compito. Dopo il dottorato, il B. cominciò i suoi corsi di logica allo Studio bolognese. Prese le mosse da alcune tesi - che furono poi il nucleo della sua prima opera a stampa - che non potevano passare senza rumore e vivaci contrasti: "che le Categorie di Aristotele non fanno parte della logica; che la logica è totalmente distinta dalla dialettica; che le cosidette seconde intenzioni sono una trovata e un imbroglio degli interpreti ". Incontrò l'opposizione di averroisti e tomisti, di scotisti e di seguaci dei commentatori greci, fu costretto a sostenere in pubblico e in privato continue dispute, di giorno e di notte; ciò dovette stancarlo. Infatti, dopo sei anni in cui aveva insegnato "con grande passione e soddisfazione ", addusse un motivo gravissimo che l'avrebbe obbligato a lasciare la città, per la quale conservò molta nostalgia, e partì per Roma al seguito del vescovo di Maiorca, Giambattista Campeggi. Prima che fosse trascorso un anno dalla loro partenza da Bologna, avvenuta nel 1539, il Campeggi decise di recarsi a Padova "per dedicarsi più comodamente agli studi ". Il B. preferì non accompagnarlo in quella sede scolastica tradizionale e si trattenne a Roma nella casa del fratello del suo protettore, Alessandro Campeggi, vescovo di Bologna, qui, a richiesta dell'ospite e di molti altri dotti, cominciò una lettura della Retorica: questa, Intertium librum, in Proemium universalem, nec non in capite I et II libri I Rhetoricorum Aristotelis expositio, fu poipubblicata postuma a Bologna nel 1590, su invito del vescovo di Reggio, B. Manzolli, riveduta per la stampa dal francescano Lucio Anguissola e dedicata dal pronipote del B., Annibale, al granduca Ferdinando I di Toscana; venne poi ristampata nel 1595. Dopo alcune lezioni, che erano state molto seguite, uno degli ascoltatori, il vescovo di Bari, Gerolamo Saulli, lo volle presso di sé a condizioni molto vantaggiose. Il B. restò presso il Saulli per qualche mese; ma poi, rientrato da una missione presso Carlo V e Francesco I, Alessandro Farnese, che aveva conosciuto il B. a Bologna, ottenne con molti sforzi che il vescovo gli cedesse il precettore.
A questa scelta di Alessandro non fu estraneo Paolo III, che ben presto (in un privilegio concesso l'8 genn. 1545per la stampa del primo libro del B.) darà al filosofo il titolo di "suo familiare ". L'ammissione nella corte mecenatesca dei Farnese, dove egli restò fino alla vecchiaia, fu di grande vantaggio per il B. e lo stimolò alla stesura delle sue opere. Accanto al Bembo, al Sadoleto, al Molza, al Flaminio, all'Amaseo, a B. Cappello, al Della Casa e a Paolo Giovio, riuniti intorno al Farnese, Dionigi Atanagi indicherà infatti, come vanto di quella corte, anche "il moderno Aristotele Mirandolano ", il quale s'era conquistato gran fama, oltre che per i corsi bolognesi, ove aveva avuto ascoltatori Achille Bocchi e G. Garimberto, per la larga risonanza di una disputa promossa appunto da Alessandro Farnese. Questi infatti amava che i dotti della sua corte disputassero in sua presenza, e il B. in una di queste occasioni dovette scambiare col Della Casa quei polemici sbnetti in volgare che il Mazzuchelli poteva ancora leggere manoscritti; in analoghe occasioni il B. avrà steso i versi pubblicati postumi fra i Flores poetarum (Venezia 1574).
Assai più significative sono le opere filosofiche scritte su invito del Farnese: un'Institutio e un commentario per esporre le ragioni che gli facevano considerare estranee all'Organon le Categorie che presuppongono nozioni svolte nella Fisica e nella Metafisica, tali da non poter essere anticipate nella Logica,disciplina propedeutica e preliminare. Steso in pochi giorni il commento che trattava del De interpretatione e dei Primi e Secondi Analitici (più sommariamente dei Topici, con insistenza particolare solo sui sillogismi dialettici e sofistici), il B. lo consegnò al Farnese perché lo sottoponesse alla discussione dei più illustri filosofi di Roma e di tutta l'Italia.
Fra questi il B. ottenne - e raccolse a stampa - le risposte di Ludovico Boccadiferro (al quale dedicò il IV libro dell'Apologia scritta a sostegno della sua tesi interpretativa), dei professori padovani Marc'Antonio Genova (ll. I-II) e Vincenzo Maggi (ll. III-IV), di Giacomo Giacomelli, vescovo di Belcastro (ll. V-VII), di Ubaldino Bandinelli e dell'anonimo autore dell'opuscolo intitolato Praedicamenta in veterem auxiliatricis disciplinae locum servata (l. VIII): non tenne conto invece (p. 422)di alcune obiezioni che gli erano state indirizzate da altri minori filosofi italiani, spagnoli, francesi e tedeschi.
I due trattati del B. col complesso delle obiezioni e risposte furono presto pubblicati con doppio privilegio del papa e dell'imperatore dall'Hervagius di Basilea nel 1545(Institutio in universam Logicam… In eandem Commentarius… Item Apologiae libri VIII); saranno poi ristampati a Basilea nel 1549e a Roma da Paolo Manuzio nel 1562, mentre la più violenta delle obiezioni, quella rivoltagli da un altro protetto dei Famese, il Giacomelli (col quale il B. fu in diuturno e diretto contrasto, come attestano le lettere di Paolo Giovio), fu pubblicata a parte in una rara edizione descritta dal Marini (In novam quandam A. Mirandulani de praedicamentis opinionem responsio, uscita a Roma per i tipi del Blado).
Nel Giacomelli e in altri "devoti alle menzogne di Burleo" il B. trovava il suo maggiore obiettivo polemico, che va identificato con le tesi della tarda scolastica: pur riconoscendo fondata l'esigenza di esporre le dottrine aristoteliche in manuali istituzionali che evitino agli studenti di confondersi e perdersi fra le varie digressioni che l'Organon dedica "a refutare, le opinioni precedenti o a prevenire errori nell'interpretazione delle sue dottrine o a spiegare altre questioni occasionali ", egli riteneva però che Pietro Ispano e Paolo Veneto - i maggiori autori di manuali di questo tipo - avessero reso più difficile lo studio della logica, insegnando cose superflue, troppo discusse ed oscure, ed inserendovi specialmente "pleraque quae a Peripatetica ratione doctrinaque penitus abhorrent" (la "logica modernorum" delle supposizioni). D'altronde, col sostenere attraverso passi testuali di Aristotele la sua tesi che le Categorie andassero espunte dall'Organon, il B. si proponeva di respingere le recenti critiche antiaristoteliche di Pietro Ramo, che appunto si fondavano su questo testo "ut in Aristotelem ipsum inveherent totamque reprehenderent illius docendi rationem" (p. 107).
Uno dei temi più importanti e attuali, affrontato fin dalle prime righe del Commentarius del B., è appunto "quid sit Logica et quo differatur a Dialectica "; sullo stesso problema e anche sulla definizione della retorica e della grammatica, egli tornerà nell. XIV dell'altra sua opera maggiore, che prende nome dal problema del duello, ma che tratta di molti altri argomenti: Eversionis singularis certaminis libri XL, in quibus cum omnes iniuriae species deciarantur, tum vero offensionum et contentionum, quae ex illis nascuntur, honeste atque ex virtute tollendarum ratio traditur… (pubblicata in un'edizione henricipetrina di Basilea nel 1562, che talvolta presenta un diverso titolo e frontespizio, come Disputationes sulla Monomachia, quam singulare certamen Latini, recentiores Duellum vocant).
Questa voluminosa e composita opera esaminava nella sua prima parte la legittimità del duello alla luce della ragione e della filosofia morale aristotelica, dichiarandone parimenti l'illicceità dal punto di vista religioso. Il B. considerava necessaria questa precisazione perché nel trattato di Antonio Massa del Gallese Contro l'uso del duello (pubblicato nel 1553 e discusso nei ll. I-VII della Monomachia) era malintesa e criticata questa distinzione fra ciò che è legittimo in uno stato che si regge su leggi puramente civili e ciò che viceversa è da respingersi sul fondamento della religione cattolica. Questa tesi del B. era già nota perché il manoscritto di una sua opera in cinque libri intorno all'onore, che egli aveva affidato per la copia e la preparazione alla stampa all'alunno G. B. Possevino (introdotto dal B. alle corti dei Famese prima, del cardinale Ippolito II d'Este poi), era stato da quest'ultimo sottratto e fatto circolare sotto il proprio nome. Il Possevino non aveva potuto consumare perfettamente quest'appropriazione, poiché il Famese e l'Este, con numerose persone delle loro corti, conoscevano già l'opera del B. alla quale il Possevino aveva contribuito solo per la forma letteraria, e che quindi era stata restituita all'autore nella copia pronta per la stampa; ma un altro esemplare - che secondo una lettera del B. al Famese dei 27 sett. 1549, risulta tradotto e ampliato rispetto all'originale latino - dopo la morte di Giambattista fu pubblicato sotto il suo, nome per opera del fratello Antonio (Venezia 1553). Questi poi stenderà un trattato sullo stesso argomento e pubblicandolo nel 1558 non difenderà in alcun modo il fratello dalle accuse di plagio che nel frattempo si erano largamente diffuse nell'abbondante pubblicistica che si dedicava in quegli anni al tema.
La tesi di G. B. Susio sull'Ingiustizia del duello, il cui l. II era tutto dedicato all'esame dell'opera contesa, si contrapponeva vivacemente al quadro aristotelico proposto dal B., il quale poneva una inaccettabile analogia fra il duello e la guerra, dichiarando il primo lecito in alcuni casi e d'interesse sociale, inquanto il "singolar certame" risolverebbe contese che altrimenti potrebbero degenerare, vista la carenza dei magistrati e l'insofferenza dei nobili a sottomettersi ai loro giudizi. L'importanza della più tarda trattazione datane nuovamente dal B. - preoccupato nella Monomachia di correggere le imprecisioni del Possevino - consiste nell'aver definito "ex Aristotelis sententia omnia iniuriarum et offensionum genera ". Egli si differenzia dal Pomponazzi (del quale si dice alunno, p. 168, ma con minor gratitudine e ammirazione di quella che dichiara al Boccadiferro, p. 228), e ne discute altri due temi che hanno in vero poca affinità con la Monomachia: sitratta, da un lato, della prescienza degli astrologi, che il B. confuta secondo le Disputationes celeberrime del Pico (p. 390); d'altra parte, egli accusa di eclettismo il De immortalitate animae (pp. 618-645), in cui il Pomponazzi avrebbe il torto di rifugiarsi "modo ad Piatonicos, modo ad poetas ". Analoghe critiche al Pomponazzi e specialmente all'astrologia divinatrice sono contenute in un'opera rimasta inedita del periodo romano del B., le Lectionnes A. B. M. in primum librum Aethicorum [Aristotelis] in Palatio Apostolico, Paulo III Pont. Maximo (conservate nel ms. Vat. Urb. lat. 1414).
Il maturare della filosofia del B. si accompagna con una brillante carriera ecclesiastica e diplomatica presso i Farnese: già nel 1541 egli è presente al colloquio di Lucca fra Carlo V, Paolo III e numerosi cardinali per l'indizione del concilio e il bando della crociata in Algeria; nel 1544 il Giovio lo dice convinto sostenitore della pace, ed egli accompagna in Germania il cardinal Alessandro, legato a latere,che in una lettera da Worms del 28 gennaio lo nominerà notaio, accolito e cappellano dei papa, conte del Sacro Palazzo e della Camera lateranense; nel 1548 il B. avrà parte preminente nella trattativa per la riconciliazione di Ottavio Famese con don Ferrante Gonzaga. Nel 1542 e nel 1544 aveva ricevuto la cittadinanza e il diritto di magistratura di Bologna, e l'ascrizione alla nobiltà cittadina; ottenne anche la cittadinanza ela magistratura in Roma. In quegli anni cominciò a raccogliere anche benefici ecclesiastici: il conte Galeotto Pico, d'accordo con Paolo III e col cardinale Farnese, lo nominò nel 1544 alla prepositura della Mirandola. Già dal 1543 il Giovio parla di sue ambizioni prelatizie e si augura (1544) di "vedere il Mirandola suo col cappello verde in capo lanciare entimemi al Belcastro ". Nel 1546 il Vasari., raffigurando nel salone del primo piano del palazzo della Cancelleria i Fatti della vita di Paolo III, contornato dai suoi più illustri cortigiani - secondo le indicazioni del Giovio - accanto a Bembo, Sadoleto, Polo, Michelangelo, Sangallo, Amaseo, dipinge "Il Mirandola con la Paradoxa in seno ". Di lì a poco (12 febbr. 1552) il B. fu designato e poi (18 ott. 1553) solennemente consacrato vescovo di Caserta: aveva cumulato nel frattempo numerosi benefici (le rettorie di Gavello e di Mortizzuolo, il priorato di S. Antonio nel Mirandolese, pensioni sull'arcipretura cesaraugustana e sulla parrocchia di Collado di Campostella); ebbe infine l'abbazia di Dovadola, dove riparò nella sua vecchiaia (1559) dopo aver seguito per vent'anni il cardinal Famese "senza poter mai fermarsi in una sede stabile ". Nel 1550-51 aveva accompagnato il Famese a Firenze dove Giulio III l'aveva relegato su richiesta di Carlo V e dove avvenne una celebre disputa letteraria alla quale il B. partecipò col Castelvetro, con B. Varchi e col Vettori. Ancora nel 1557-59 il B. era insieme col cardinale ritiratosi a Parma nel monastero di S. Giovanni dei Cassinesi; aveva ben presto rinunciato alla cura spirituale dei suo, vescovado (ceduto nel dicembre 1554 ad A. Bellomo, mantenendone però il titolo) ed anche alla prepositura e al priorato mirandolani passati nel 1556 al nipote Giuseppe. Non valsero a staccarlo dalla vita di corte né gli inviti di M. A. Flaminio agli ozi poetici di Dovadola, né le sollecitazioni che Vittoria Colonna gli rivolgeva già nell'agosto 1544 perché si dedicasse effettivamente alla cura pastorale in modo da "studiare un poco l'Epistola e l'Evangelio: e così Dio vi darà lume e gratia d'intender con altra renovatione la santa parola, aderendo ad essa con la fede, non con la ragione umana; et vedremo il divino filosofo con l'omo celeste… Lui non si rivela alli grandi ingegni come Voi, se nelle parole sue nol cercate".
Il B.morì a Bologna il 3 giugno 1565. L'Accademia degli Storditi gli allestì un solenne funerale in S. Petronio e il suo corpo fu poi traslato alla Mirandola in un ricco sepolcro marmoreo, con una lunga epigrafe, conservato fino al 1789.
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