BOTTA ADORNO, Antonio
Nacque a Pavia intorno al 1688 da antica famiglia genovese.
Il padre Alessandro fu, secondo l'Arneth, cancellato per un delitto dal libro d'oro della nobiltà genovese; fuggì dalla città patria e fu condannato a morte in contumacia; fu ritenuto dai contemporanei uno dei migliori poeti del tempo, tanto che Ludovico Antonio Muratori gli dedicò nel 1706 il suo trattato Della perfetta poesia italiana.
Il B. all'età di quindici anni entrò nell'Ordine dei cavalieri di Malta, e nel 1709 nell'esercito imperiale, si dice su raccomandazione del principe Eugenio di Savoia, sotto il cui comando combatté nelle Fiandre nell'ultima fase della guerra di successione spagnola. Nel maggio 1719, nel corso della guerra della Quadruplice alleanza contro la Spagna, già diventato tenente colonnello, fu inviato in Sicilia, dove, dopo la presa di Patti da parte degli Austriaci, ebbe l'incarico dal generale conte Florimond Mercy di recarsi alle isole Lipari per intimare la resa al presidio spagnolo. L'impresa fallì, dato che il B. era accompagnato soltanto da pochi granatieri; il giorno dopo il suo ritorno fu mandato il generale barone di Seckendorff con 2.700 uomini, che sottomise le isole dopo breve combattimento.
Al principio della guerra di successione polacca (1733-35) il B. fu mandato dal duca Ferdinando di Brunswick-Bevern, comandante delle truppe imperiali che avanzavano dalla Boemia verso il Reno, a Monaco di Baviera per accertarsi sulle intenzioni del principe elettore Carlo Alberto. Riferì acutamente che, nonostante le palesi simpatie di Carlo Alberto per le corti borboniche, costui non avrebbe osato prendere apertamente posizione contro l'imperatore, data l'avversione del paese a una tale politica e dopo le tristi esperienze di suo padre nella guerra di successione spagnola. Il B. ebbe poi altri incarichi dal duca di Bevern, come quello di protestare a Vienna contro l'invio di truppe dal Reno in Italia; fu mandato poi, quando il consiglio aulico militare (Hofkriegsrat)insisteva nell'ordine dato, nel Tirolo per preparare il passaggio delle truppe. Il B. stesso prese parte a vari combattimenti che non cambiarono l'esito della guerra, sfavorevole per l'Austria.
Nell'ultima infelice guerra di Carlo VI contro i Turchi (1737-1739) il B. partecipò alla prima vittoria austriaca presso Cornia il 4 luglio 1738.
In questa guerra, nella quale l'Austria era entrata soltanto per l'alleanza che la legava alla Russia, un grave inconveniente era costituito dall'insufficienza dei collegamenti fra Russi e Austriaci, data l'enorme distanza fra i due teatri di guerra. Nell'inverno 1738-39 il B. fu perciò mandato a Pietroburgo come ministro plenipotenziario per coordinare le operazioni militari. Ebbe inoltre il compito di promuovere il matrimonio, da tempo progettato, di Anna Leopoldovna, nipote della zarina Anna, col duca Antonio Ulrico di Brunswick-Bevern, nipote dell'imperatrice Elisabetta Cristina (moglie di Carlo VI e madre di Maria Teresa). Dal febbraio 1739 al luglio 1740 il B. rimase nella residenza russa, riuscendo nei due compiti, ma gli eventi successivi resero vano il suo successo diplomatico. Infatti nonostante la convenzione militare austro-russa, conclusa il 23 maggio 1739, secondo la quale un'armata russa avrebbe dovuto passare attraverso il territorio polacco nella Moldavia, per cooperare con gli Imperiali, la desiderata collaborazione fra gli alleati non si verificò. Piogge ed inondazioni primaverili ostacolarono l'inizio tempestivo della campagna e i generali austriaci, cresciuti e invecchiati alla scuola del principe Eugenio, non si dimostrarono all'altezza del compito e conclusero frettolosamente una pace separata con i Turchi; ma anche i Russi non avevano mantenuto le loro promesse. Inoltre proprio la parte dal B. avuta nel concludere il matrimonio di Anna Leopoldovna col cugino di Maria Teresa - dal quale al tempo della partenza del B. da Pietroburgo stava per nascere il futuro infelice Ivan VI - ebbe in seguito a procurargli notevoli disagi.
Salita al trono Maria Teresa, il B., che ormai più per la mediocrità degli altri che per proprio merito era giunto a una posizione di prestigio, fu mandato a Berlino come inviato speciale per indagare sulle intenzioni del giovane re Federico II di Prussia, perché voci allarmanti su preparativi bellici prussiani erano giunte a Vienna. Egli si accorse già durante il viaggio che questi preparativi erano diretti contro la Slesia, e ciò gli fu confermato nei colloqui col re, che spontaneamente si dichiarò pronto ad aiutare la regina d'Ungheria e suo marito, il granduca di Toscana, contro tutti gli eventuali rivali per la successione austriaca, a patto che gli fosse permesso di occupare la Slesia. Se dopo gli allarmanti rapporti del B. esistevano ancora illusioni a Vienna, queste svanirono ben presto quando, alcuni giorni dopo (16 dic. 1740), le truppe prussiane varcarono il confine della Slesia.
Fallita così la sua missione a Berlino, il B. fu di nuovo mandato a Pietroburgo, dove arrivò il 16 genn. 1741 e rimase fino al 2 dic. 1742. Durante questo suo secondo soggiorno sulle sponde della Neva ebbe luogo il colpo di stato della principessa Elisabetta, figlia di Pietro il Grande, che, con l'aiuto della guardia imperiale e d'intesa con i ministri plenipotenziari della Francia e della Svezia, destituì nel novembre del 1741 il "coronato lattante" Ivan VI, imprigionandolo con tutta la sua "famiglia di Brunswick". E sebbene il ministro francese, il marchese de la Chétardie, fosse poi dichiarato "persona non grata" - in quanto sollecitava troppo inopportunamente il prezzo del tacito appoggio - ed Elisabetta si guardasse bene dall'entrare nella grande alleanza contro Maria Teresa, il ministro austriaco che aveva promosso il matrimonio, dal quale era nato "l'erede legittimo" Ivan, certamente non poteva godere le simpatie della nuova sovrana.
Il B. aveva già lasciato da otto mesi la Russia ed era stato nominato ministro plenipotenziario a Berlino dopo la conclusione della prima pace separata fra Maria Teresa e Federico II, quando nell'agosto 1743 a Pietroburgo scoppiò "l'affare Botta", la strana vicenda che fu chiamata "congiura del Botta".
Si trattò in fondo di un episodio dell'accanita lotta fra i due partiti di corte, quello filofrancese, capeggiato dal medico di Elisabetta, L'Estocq, e quello filoaustriaco e filoinglese, guidato dal cancelliere Bestužev-Rjumin. Pettegolezzi di corte sugli amori di Elisabetta furono gonfiati fino a prendere l'aspetto di una congiura vera e propria per il ritorno al potere della "famiglia di Brunswick". Gli arrestati, fra i quali la cognata del cancelliere Bestužev, sotto la minaccia della tortura fecero il nome del B., che sapevano al sicuro, come iniziatore della supposta congiura. Elisabetta, furiosa, pretese da Maria Teresa la punizione del colpevole e quando questa esitò, il re prussiano colse l'occasione per dimostrare all'imperatrice di Russia la sua solidarietà, dichiarando persona non grata il B. e soffiando abilmente sul fuoco. Maria Teresa, richiamato il B., si convinse della sua innocenza e dell'infondatezza delle accuse, ma per le continue pressioni della zarina lo internò infine a Graz. Il nuovo ministro austriaco a Pietroburgo, conte Filippo Orsini-Rosenberg, riuscì, dopo lunghe e penose trattative, a calmare Elisabetta con la dichiarazione che Maria Teresa era pronta a condannare in una circolare alle corti europee "l'abominevole delitto del B.", andando al di là delle istruzioni ricevute. Maria Teresa, pur scontentissima, dichiarò, piegandosi alle esigenze della politica, nella detta circolare di condannare "l'abominevole delitto attribuito al Botta". Elisabetta, finalmente placata - il partito di Bestužev aveva definitivamente avuto il sopravvento -, magnanimamente affermò di non voler insistere su una punizione del B., che fu liberato, promosso Feldzeugmeister (generale d'artiglieria) e mandato all'armata in Italia. È probabile che questo episodio abbia contribuito non poco a destare in Maria Teresa un senso di colpa e il desiderio di riparare, portandola talvolta a sostenere il B. forse al di là del ragionevole, nonostante i continui insuccessi.
In Italia il B. servì sotto il capace maresciallo principe Giuseppe Venceslao di Liechtenstein, il rinnovatore dell'artiglieria austriaca. Nella battaglia di Piacenza (15 giugno 1746), decisiva per l'assetto politico dell'alta Italia per quasi mezzo secolo, egli comandò l'ala destra, che ebbe a sostenere aspri combattimenti con gli Spagnoli, mentre l'ala sinistra, che decise le sorti della battaglia soverchiando i Francesi, era al comando del generale Massimiliano, Ulisse di Browne, uno dei tanti emigrati irlandesi nelle armate austriache.
Dopo la vittoria di Piacenza il Liechtenstein chiese di essere esonerato dal comando per ragioni di salute e fu sostituito dal B. per anzianità. Fu un caso addirittura classico degli svantaggi di una troppo rigida osservanza della gerarchia. Il Browne era senz'altro uno dei più abili ed esperti generali austriaci, che aveva già dato prove convincenti di grande energia e versatile intelligenza tattica. Il B. invece, già da tempo impiegato quasi esclusivamente in missioni diplomatiche, mancava di esperienza nella condotta degli eserciti; era inoltre testardo, rigido, permaloso nei rapporti sia col più brillante Browne sia con l'alleato Carlo Emanuele di Savoia; e benché la vittoria di Rottofreddo sul Tidone (10 ag. 1746) vada sotto il suo nome - unica vittoria della sua carriera militare - non fu certo per merito suo che gli alleati austriaci e piemontesi riuscirono a respingere Francesi e Spagnoli in Liguria e a intimare la resa a Genova. Qui il B. si dimostrò nello stesso tempo duro, altezzoso e imprudente di fronte alla città, che ora sosteneva di non essere mai stata in guerra con l'imperatrice-regina, essendosi limitata a concedere il passaggio alle truppe franco-spagnole attraverso il proprio territorio. I generali austriaci opponevano che senza l'aiuto genovese Francesi e Spagnoli non avrebbero mai potuto occupare la Lombardia; e Genova facendo formalmente parte del Sacro Romano Impero, si era resa, secondo loro, colpevole di alto tradimento.
Il B., che aveva il suo quartier generale a Sampierdarena, non soltanto chiese alla città una enorme contribuzione di guerra, ma cercò anche di umiliarla in tutti i modi. Volle che il doge in persona, accompagnato da sei nobili senatori, si recasse a Vienna a invocare il perdono di Maria Teresa, condizione a cui l'imperatrice rinunciò subito per non umiliare ulteriormente e inutilmente la sfortunata città. Si guadagnò così la lode di Voltaire, che nella storia di Luigi XV esaltò la sua illuminata clemenza, confrontandola con la durezza del Re Sole, che a suo tempo aveva insistito sulla stessa umiliazione dei Genovesi. Forse il B. voleva veramente vendicare la memoria del padre, come molti suppongono, o forse cercava soltanto di compensare gli insuccessi e le umiliazioni degli anni precedenti; resta il fatto che alla durezza aggiunse la noncuranza. Gli ufficiali genovesi, francesi e spagnoli, che erano stati dichiarati prigionieri, furono lasciati liberi sulla parola nell'ambito della città. E mentre la nobiltà si chiuse nei suoi palazzi per evitare ogni contatto con gli occupanti, tra il popolo circolava la voce che l'odiato comandante austriaco avrebbe presto o tardi lasciato mano libera ai suoi soldati per il saccheggio della città, il cui commercio aveva tanto sofferto e continuava a soffrire a causa della guerra e del blocco del porto da parte della flotta inglese.
Intanto la situazione militare del B. peggiorava continuamente, perché il Browne, avanzato nella Provenza, gli chiedeva truppe e pezzi d'artiglieria. E fu appunto il trasporto di un mortaio, tolto dalle fortificazioni genovesi e destinato all'assedio di Antibes, a provocare il noto episodio di Balilla, che diede il segnale alla rivolta popolare genovese (5-10 dic. 1746). Il B., che in un primo momento aveva invano sperato in una cooperazione delle autorità genovesi per reprimere la sommossa, incapace di soffocarla da solo, non potendo decidersi a bombardare la città, in continue trattative con delegati genovesi civili, militari ed ecclesiastici fece una concessione dopo l'altra, finché fu costretto a ritirarsi con le truppe austriache e piemontesi anche da Sampierdarena.
Il suo rapporto sugli avvenimenti, scritto in tedesco nel suo nuovo quartier generale a Gavi il 14 dicembre (e pubblicato dall'Arneth nella Geschichte Maria Theresias, II, pp. 460-465), rivela una tale incapacità e incomprensione di fronte ad una situazione inconsueta e non corrispondente alle sacrosante regole della guerra cavalleresca del tempo da destare quasi un sentimento di compassione per questo personaggio sfortunato. "Era come se il destino avesse tenuto in riserva un tale colpo proprio al marchese Botta; non posso immaginarmi che questo fosse successo ad un altro" scrisse il Browne al conte Cobenzl a Vienna (Duffy, p. 201).
Fu la fine della carriera militare del Botta. Maria Teresa lo esonerò dal comando, anche per placare l'ira degli altri ufficiali, che consideravano la ritirata da Genova di fronte ad una "plebaglia male armata e male organizzata" una vergogna per le armi austriache. Ma nella sua approvazione della proposta del consiglio di guerra, l'imperatrice dimostrò di nuovo benevolenza per lo sfortunato generale; doveva cedere il comando "per la sua cagionevole salute, non per punizione; non conviene però dargli un comando altrove".
Due anni dopo, finita la guerra di successione austriaca con la pace di Aquisgrana, il B. ebbe un nuovo incarico: quello di ministro plenipotenziario nei Paesi Bassi austriaci.
Queste lontane e ricche province, che facevano parte dei domini austriaci dalla fine della guerra di successione spagnola, avevano molto sofferto specialmente negli ultimi anni di guerra (quando in Italia erano già cessati i combattimenti). Il governatore, principe Carlo di Lorena, fratello minore dell'imperatore Francesco, era uomo bonario e simpatico, mecenate e spendaccione, interessato alle arti e alle scienze naturali, ma poco attivo e non portato alle fatiche del governo. Maria Teresa, la quale chiamava il cognato scherzosamente, con allusione ad una commedia del tempo "le coq du village", sapeva che bisognava mettergli accanto un uomo pieno di zelo e di ambizione. Pare che il B. dovette il suo incarico al conte Haugwitz, riformatore del sistema amministrativo e finanziario dei paesi austriaci, che lo stimava come esperto di finanza. A Vienna si raccontava perfino che il B. già al tempo di Carlo VI aveva proposto le riforme ora attuate dallo Haugwitz; diceria senza fondamento e forse dovuta soltanto all'antipatia dell'aristocrazia austriaca per il riformatore Haugwitz.
Il 2 apr. 1749 il B. si era insediato al palazzo Egmont a Bruxelles e vi rimase fino al settembre 1753 come ministro plenipotenziario e, durante l'assenza del principe Carlo, come governatore ad interim. E qui il B., fallito come diplomatico e come condottiero militare, riuscì per la prima volta come abile amministratore. Si dedicò con energia alla ripresa economica delle province belghe, facendo costruire strade e canali, riformando la moneta, incoraggiando con successo imprese industriali e commerciali di ogni sorta. Riorganizzò la difesa e il sistema militare del paese e riuscì ad ottenere, nel 1751 e 1752, due grandi prestiti. La collaborazione con i corpi rappresentativi delle singole province fu così armonica che questi domandarono a Maria Teresa di lasciarlo al suo posto quando si diffuse la voce del suo richiamo.
Furono forse gli anni più felici nella lunga vita e carriera del Botta. Ma anche qui fu perseguitato dalla sorte. Nel corso della riorganizzazione del sistema governativo della monarchia austriaca, i due consigli per i paesi dell'eredità spagnola, il Consiglio delle Fiandre e quello d'Italia, ambedue a Vienna, furono sciolti e incorporati come dipartimenti nella Cancelleria di Stato, diretta dal principe Kaunitz, che scelse come suoi collaboratori a Milano al posto del Pallavicini il conte Beltrame Cristiani e a Bruxelles il conte Carlo Filippo Cobenzl al posto del B., che ritornò in Italia con la carica prevalentemente onoraria di vicario imperiale, cioè di rappresentante dell'imperatore per i feudi italiani del Sacro Romano Impero con sede a Pavia.
Nel 1757, pur conservandogli il titolo di commissario imperiale, l'imperatore-granduca Francesco I nominò il B. capo della Reggenza della Toscana per sostituire il conte Emanuele di Richecourt, lorenese, caduto ammalato e inoltre assai osteggiato dai suoi avversari e rivali toscani: in quel momento, durante la guerra dei Sette anni, la necessità più urgente per Vienna era quella di cavare soldi e soldati anche dalla Toscana.
Era fatale perciò che, per le sue origini, per il suo carattere e per la particolare posizione che occupava ora a Firenze, il B. divenisse immediatamente l'oggetto dell'odio più profondo da parte dei Toscani; per contro era naturale che a Vienna si fosse soddisfatti di lui. Più tardi, dopo la fine della guerra dei Sette anni, le preoccupazioni finanziarie della corte di Vienna divennero meno pressanti; e quando nel 1764 il B. propose di imporre in Toscana nuove tasse che fornissero i fondi per l'acquisto all'estero dei cereali con i quali si doveva far fronte alla carestia, lo stesso imperatore-granduca giudicò troppo fiscali queste proposte e ordinò che si attingesse alla sua cassa privata, per far fronte alle spese dell'acquisto dei cereali e che il pubblico venisse a conoscenza di questa sua decisione. Si comprende come anche questo episodio non contribuisse che ad alimentare l'avversione dei Toscani verso il Botta. Del resto egli era ormai per gli Italiani l'uomo dello smacco di Genova; e se i Fiorentini erano certamente meno violenti dei Genovesi, non risparmiavano mordaci barzellette e motti al "Signor Mi-so-tutto" come chiamavano l'altezzoso maresciallo per la sua frase preferita in dialetto settentrionale. Ultima causa della sua impopolarità fu infine il suo atteggiamento fermamente anticuriale e regalistico nelle varie contese con Roma e con i vescovi toscani, culminante nell'arresto e nell'espulsione dal territorio toscano del vescovo di Pienza, Francesco Piccolomini.
La mancata attuazione dello stesso programma di riforme, che aveva realizzato con tanto successo nei Paesi Bassi, fu dovuta forse, secondo quanto possiamo dedurre da una memoria di Pompeo Neri, al fatto che, fino alla fine della guerra dei Sette anni (1763), il compito affidatogli in Toscana dal lontano sovrano non glielo permise, mentre dopo, quando si aspettava la venuta di Pietro Leopoldo, il B., che aveva ormai passato i settant'anni, volle lasciare il compito, la gloria e il rischio della grande riforma al futuro sovrano. Secondo l'intenzione dell'imperatore-granduca, Pietro Leopoldo avrebbe dovuto limitarsi in principio a una posizione puramente rappresentativa. Le funzioni effettive di governo sarebbero rimaste ancora nelle mani del B., che doveva esercitarle in nome del granduca Francesco, che avrebbe continuato a risiedere a Vienna. Ma quando Pietro Leopoldo venne in Toscana nel settembre 1765 la situazione era radicalmente mutata per l'improvvisa morte di Francesco, avvenuta il 18 agosto a Innsbruck durante le feste per il matrimonio di Pietro Leopoldo. I Fiorentini, che avevano notato con piacere come il B. nei giorni immediatamente precedenti l'arrivo del nuovo sovrano avesse perduto la sua solita sicurezza e che aspettavano con impazienza la "nuova musica, dove la nota Mi sarà abolita", non nascosero la loro avversione contro il vecchio maresciallo in occasione dell'entrata della giovane coppia granducale a Firenze. Ma Pietro Leopoldo, al quale la madre Maria Teresa e il fratello Giuseppe continuavano a raccomandare l'accordo col B. per la sua conoscenza del paese e le sue qualità nel campo delle finanze, si mantenne per un primo tempo in una posizione di cauto riserbo, mentre fra il B. e il conte Francesco Thurn-Valsassina, precettore e allora gran ciambellano di Pietro Leopoldo, nacque una inevitabile rivalità. Dopo la morte del Thurn, quando Maria Teresa decise di "prestare" al figlio il conte Francesco di Rosenberg come primo ministro, la situazione del B. a Firenze divenne insostenibile, tanto più che a causa del noto conflitto fra Pietro Leopoldo e Giuseppe sui fondi della "cassa di riserva" del defunto granduca Francesco egli aveva perso anche l'appoggio di Maria Teresa, che criticò perfino la liquidazione, accordata da Pietro Leopoldo al B. come troppo generosa per un "vecchio e ricco scapolo". Il 3 ott. 1766 il B. diede le consegne al Rosenberg e ritornò a Pavia, rimanendo nella sua città natale come "vicario imperiale per l'Italia" per gli ultimi anni della sua vita.
Morì a Pavia il 30 dic. 1774.
Fonti eBibl.: Le carte del B., date dal conte Porro Lambertenghi alla Bibl. Ambrosiana di Milano, sono state studiate prima da A. Cauchie, Le maréchal Antoniotto de B.-A. et ses papiers d'Etat, in Compte rendu du troisième congrès scientifique international des catholiques, Bruxelles 1895, pp. 397-605, e poi da J. Laenen, Le Ministère de B.-A. dans les Pays-Bas autrichiens pendant le règne de Marie Thérèse, Anvers 1901. Cfr. inoltre: Componimenti degli Accademici in morte del marchese A. B. - A., Parma 1775; C. Botta, Storia d'Italia, XI, Capolago 1833, passim;A. Zobi, Storia civile della Toscana, Firenze 1860, I, pp. 364-67, 372-76, 387 s., 394 ss., 403 s., 410 ss. e App., docc. XXX s.; II, pp. 9 s., 23 s., 33 s.; E. Hermann, Geschichte d. russischen Staates, V, Hamburg 1853, pp. 65 ss.; J. Doran "Man" and Manners at the Court of Florence, I-II, London 1876, passim; A. v. Reumont, Geschichte Toskana's unter dem Hause Lothringen-Habsburg, Gotha 1876, I-II, ad Indicem;A. v. Arneth, Geschichte Maria: Theresias, I-X, Wien 1870-79, passim; Feldzüge d. Prinzen Eugen v. Savoyen, a cura di R. Gerba, Wien 1891, XVIII, p. 151; XIX, pp. 142, 149, 175, 272, Suppl. p. 192; XX, p. 192; E. Guglia, Maria Theresia, München-Berlin 1917, passim;P. Reinhold, Maria Theresia, Wiesbaden 1957, pp. 158 ss.; Očerki istorii S.S.S.R. Period feodalizma. Rossija vo vtoroi četverti XVIII v. (Panorama della storia dell'U.R.S.S. Periodo feudale. La Russia nel secondo quarto del sec. XVIII), Moskva 1957, pp. 402, 410, 414; F. Valsecchi, L'Italia nel Settecento, Milano 1959, ad Indicem;A. Wandruszka, Oesterreich und Italien im 18. Jh., Wien München 1963, ad Indicem;Id., Leopold II, I, Wien 1963, passim;H. Benedikt, Als Belgien österreichisch war, Wien 1965, pp. 115 s., 146, 152; C. Duffy, Feldmarschall Browne, Wien 1966, ad Indicem; F. Venturi, Settecento riformatore, Torino 1969, pp. 207-224, 238, 246, 426; Nouvelle Biographie générale, Paris 1853, VI, p. 839; Allg. deutsche Biogr., XLVII (Nachträge), pp. 139 ss.