Brucioli, Antonio
Nacque a Firenze nel 1487, e non negli ultimi anni del 15° sec., come a lungo si è creduto (Landi 1982), presso una famiglia di modesta, ma non infima condizione (alcuni suoi membri furono priori durante il sessantennio mediceo). Le prime informazioni relative al giovane B. (B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di G. Milanesi, 1° vol., 1857, p. 52) attestano i suoi legami con la cerchia di poeti, filosofi e statisti che, dopo la restaurazione medicea del 1512, si riuniva in dotti conversari nei giardini di palazzo Rucellai, gli Orti Oricellari. In particolare B. era vicino a Luigi Alamanni, in un legame che – nella netta differenza sociale tra i due – sembrerebbe assegnare a B. il ruolo di «cliente e seguace, piuttosto che di amico» (Dionisotti 1980, p. 195).
L’acquisizione di una solida base umanistica, greca oltre che latina, cui si aggiunse – ma solo in un secondo tempo – lo studio dell’ebraico, fu alla base dei suoi volgarizzamenti di Aristotele (Retorica, 1545; Politica, 1547; Fisica, 1551; Della generazione e corruzione dei corpi, 1552; Del cielo e del mondo, 1552, 1556; Dell’anima, 1557), di Cicerone (Retorica, 1538, 1542; Il sogno di Scipione, s.d., 1539, 1544) e di Plinio (Storia naturale, 1543, revisione della traduzione di Cristoforo Landino, e 1548, nuova traduzione di B.). Ma B. fu anche autore di importanti traduzioni delle Sacre Scritture, nonché di controversi commentari sul Vecchio e Nuovo Testamento. La cosiddetta Bibbia Brucioli (1532), che si fondava in gran parte sulla Bibbia latina (1527) di Sante Pagnini, divenne il testo che più influì sulla Riforma italiana (le traduzioni brucioliane delle Scritture furono messe nell’Indice di papa Paolo IV, nel 1559). Anche l’altra opera di maggior rilievo di B., i Dialogi della morale philosophia, di cui si ebbero tra il 1526 e il 1556 ben quattro edizioni italiane e due francesi, riflette tutto il peso che l’influenza delle discussioni oricellarie ebbe sulle sue teorie in materia di educazione, politica e morale. Tra i dialoghi, uno soprattutto – il Dialogo della repubblica – costituisce una importante testimonianza del ruolo di M. nella cerchia oricellaria: ciò che Cantimori (1937-1938) aveva intuito, e che ha trovato conferma negli studi successivi (Procacci 1965, poi 1995). Tale importanza va nondimeno vagliata con cautela e senza mai tralasciare la questione delicata delle riscritture anche radicali cui il testo dei Dialogi fu sottoposto (v. infra).
Scoperto il complotto antimediceo nel 1522, in cui rimasero coinvolti alcuni esponenti della cerchia ‘oricellaria’, B., Luigi Alamanni e Zanobi Buondelmonti fuggirono alla volta di Venezia, mentre venivano formalmente banditi da Firenze in quanto ‘ribelli’ contumaci.
L’itinerario dei primi anni d’esilio di B. permane alquanto vago. Sappiamo che nel gennaio 1523 aveva lasciato Venezia e si trovava a Lione, dove sembra essere rimasto due anni. Fu forse a Lione, importantissimo centro editoriale, che egli stabilì i primi contatti con i riformatori luterani e con gli umanisti cristiani della vicina corte di Margherita di Francia. Possiamo supporre che la preoccupazione dei riformatori lionesi di fornire ai loro ‘confratelli’ una Bibbia francese, abbia influenzato la decisione di B. di procurarne una versione italiana. Probabile anche che abbia incontrato Sante Pagnini, ad Avignone nel 1524 o a Lione nel 1525, ove questi stava approntando la pubblicazione della Veteris et Novi Testamenti nova translatio (1527), e che abbia intrapreso lo studio dell’ebraico in Francia sotto la guida dello stesso Pagnini.
Dopo un periodo in Germania, e una permanenza a Venezia, dove allestì la prima edizione dei Dialogi (1526, presso lo stampatore Gregorio de’ Gregori, che era legato agli ambienti erasmiani di Venezia), tornò a Firenze nel 1527, dove, cacciati i Medici, era stata proclamata la Repubblica. Qui B. entrò presto in rotta con i savonaroliani radicali che si erano imposti al governo della città. Così, lo scrittore fu accusato di aver fatto pubblica professione di luteranesimo. Pronunziata la sentenza di bando il 5 giugno, B. si trasferì definitivamente a Venezia. Qui cominciò un’intensa attività di poligrafo e di collaboratore editoriale; aprì anche una tipografia, assieme ai fratelli Francesco e Alessandro.
Durante gli anni veneziani, B. – forse anche spinto dalle necessità economiche – cercò di accreditarsi presso Cosimo I de’ Medici come informatore sugli esuli fiorentini: un tradimento a tutti gli effetti nei confronti degli amici e protettori di un tempo. La svolta maturò assai prima del 1549 (così riteneva Giorgio Spini), se già in una lettera del luglio 1537 Filippo Strozzi metteva in guardia contro di lui Luigi Alamanni, da tempo esule in Francia, per il tramite di Giovanni Lanfredini, allora a Lione: «avertite ms Luigi Alamanni che il suo Bruciolo è spia dello stato Cosmico et prima fu dello Alexandrino» (Dionisotti 1980, pp. 196-97).
Tra le opere del periodo veneziano vanno segnalate le edizioni di classici della tradizione volgare, come il Decamerone (Venezia 1538, 1542, 1543) e le Rime e Trionfi di Petrarca (Venezia 1548, 1557; Lione 1550, 1551). Alle precedenti traduzioni di Cicerone e di Plinio, B. aggiunse il Trattato della sphera (Venetia 1543) di Giovanni di Sacrobosco (John Holywood). Fra le traduzioni parziali delle Scritture figura un’edizione dei Salmi (Venezia 1531); una selezione di Epistole, lettioni et evangelii che si legono in tutto l’anno (Venezia 1532, 1539, s.l. né d., e Venezia 1543); e un Compendio di tutte l’orazioni de’ santi padri, profeti et apostoli, raccolte da sacri libri del Vecchio e Nuovo Testamento (Venezia 1534; Brescia 1538, col titolo Orazioni et preci de’ santi padri...).
Nel 1540 il tipografo veneziano Bartolomeo Zanetti stampò il suo Commento al Vecchio Testamento, seguito negli anni 1543-1544 dal Commento al Nuovo Testamento. Contro entrambe le opere nel 1555 fu aperto un procedimento inquisitoriale a Venezia (i commenti alle Scritture furono attentamente esaminati insieme con altri suoi scritti e trenta accuse di eresia furono formulate contro di lui), che si concluse il 22 giugno 1555 con l’abiura da parte di B., al quale fu vietata ogni ulteriore disputa o discussione sulle Sacre Scritture o su qualsiasi articolo di fede. Tutte le sue opere stampate o manoscritte che trattavano questioni di fede furono date alle fiamme. Gli fu proibito di scrivere o pubblicare checchessia concernente questi argomenti senza previa approvazione dell’Inquisizione.
B., che trascorse gli ultimi anni in miseria, morì il 5 dicembre 1566.
I Dialogi di B. costituiscono una testimonianza delle famose riunioni degli Orti Oricellari. Mentre nella prima edizione dell’opera (Venezia 1526) gli interlocutori hanno tutti nomi fittizi di stampo classico, già nella seconda (1537) troviamo tra gli interlocutori una fitta rete di personaggi variamente legati all’ambiente ‘oricellario’. In particolare, il nome di M. compare in tre dialoghi, anche se in nessuno dei tre ha un ruolo centrale.
Nel più importante di essi (il dialogo Della repubblica), M. viene addirittura espropriato delle sue idee, tanto che interi passi dei trattati (il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio erano stati stampati tra il 1531 e il 1532, dunque tra la prima e la seconda edizione dei Dialogi) vengono trasposti letteralmente nel testo di B., ma posti in bocca non già a M. (cui spetta il ruolo di ‘spalla’ e di, neppure tanto acuto, interrogante), bensì a Giangiorgio Trissino (il celebre letterato vicentino aveva effettivamente frequentato, per un breve periodo, i giardini Rucellai).
L’edizione del 1526 è certo quella più rilevante per chi voglia cogliere l’eco dei dibattiti costituzionali fiorentini negli anni Venti, quando lo stesso cardinale Giulio sollecitò proposte concrete (la morte di Lorenzo il Giovane sembrava avere aperto spazi significativi per un ripensamento dell’assetto istituzionale cittadino). Che su questo sfondo si inserisca la riflessione costituzionale di B. lo dice inequivocabilmente la pars construens del dialogo Della repubblica, dove la definizione delle caratteristiche specifiche di una repubblica che vuole essere ‘popolare’, diventa ricca di dettagli tecnici in cui si coglie l’eco dei dibattiti coevi (dal problema della rotazione stretta delle cariche, al dibattito su elezione o sorteggio delle magistrature). La riflessione proposta nel dialogo è strettamente legata alla tradizione municipale e repubblicana cittadina, ma su di essa è possibile individuare l’innesto di spunti di sapore machiavelliano: a cominciare da una peculariare esemplarità romana (anche istituzionale: si prospetta l’adozione di un ‘consolato’ affine a quello romano). Da M. è probabilmente desunta la riflessione sulla funzione ‘civile’ della religione («perché male senza la religione delle cose divine, et senza il timore di Dio si possono reggere le Città», c. XXIXr). Il dibattito sulla figura del dittatore, in vista dell’adozione di una magistratura analoga nella repubblica perfetta, di cui si tracciano nel dialogo le linee, sembra seguire note riflessioni machiavelliane (cfr. soprattutto Discorsi I xxxiv), a cominciare dalla preoccupazione per la brevità della carica (e il dittatore «subito che si fusse fuggito il pericolo», dovrebbe prontamente «deporre l’ufficio», c. XXVIIIv).
Ma proprio quest’ultimo punto ci segnala un più complessivo aspetto ‘machiavelliano’ – che doveva avere animato i dibattiti degli Orti – e cioè quella specifica relazione tra misure straordinarie di intervento e ordinamenti repubblicani, che costituisce uno dei passaggi più delicati e complessi della riflessione politica machiavelliana (Discorsi I xvi-xviii; III iii ecc.). A questo complesso di questioni rimanda la discussione sulle misure da adottare in difesa degli ordinamenti repubblicani (cc. XXIXv -XXXr): con l’individuazione dell’organo supremo cui è demandata la punizione dei reati più gravi. È in tale contesto che prende corpo una considerazione che richiama la debolezza della Repubblica (soderiniana), al tempo in cui essa troppo poco incisivamente corresse i suoi nemici (né sembra peregrino ravvisare, nell’innominato di cui si riporta l’affermazione, lo stesso M.):
alcuno anchora afferma che se severamente, e senza timore si fossino già puniti nella nostra republica gli uomini rei e scandolosi secutori del tiranno, avanti ch’egli per la nostra disfattione e publico danno vi tornassi, forse non avrebbe pur pensato di venirvi (c. XXIXv).
Un confronto sistematico delle diverse redazioni del testo (per cui si vedano gli utili apparati dell’edizione a cura di A. Landi del 1982) indica sia come temi e motivi machiavelliani assenti nel 1526 entrino significativamente nelle edizioni successive, sia come temi machiavelliani presenti nell’edizione del 1526 vengano ampliati nelle edizioni posteriori con inserti letterali desunti dagli scritti del Segretario. A scopo puramente esemplificativo, si segnala il tema della corruzione della Repubblica, che nell’edizione del 1537 (e 1544) viene posto addirittura in apertura del testo (Dialogi, a cura di A. Landi, 1982, p. 100). Un tema, soprattutto, che indica ora un’attenta meditazione dell’analisi della corruzione romana svolta da M. in Discorsi I xxxvii. Stabilendo un nesso tra disparità delle condizioni economiche e disgregazione sociale e politica della Repubblica, B. sembra avere ben in mente tale capitolo machiavelliano, citando l’esempio di Roma che fu solida solo fino a quando il desiderio delle ricchezze private cominciò a divenire dominante e pervasivo (Dialogi, cit., p. 115).
Particolarmente significativo (anche perché chiama in causa un contrasto tra modelli dalle forti implicazioni ideologiche nella Firenze del primo Cinquecento) è il grande problema dell’espansione territoriale delle repubbliche. Nell’edizione del 1526 B. individua nell’ampliare una legge ‘naturale’ legata allo sviluppo stesso della civiltà. «Ampliare» il contado equivale a creare una base economica necessaria perché la città sviluppi le variegate attività connesse alla civiltà urbana. «Acciò che s’abbia abondevolmente paese per usare alquanto di delicatezza» (c. XXr), scrive B., indicando un concetto di natura economico-sociale lontano dalla sensibilità quasi esclusivamente ‘politica’ di M. (e «delicatezza» implica un complesso sistema di valori in cui c’è spazio per le attività improduttive della cultura e della socialità raffinata). E infatti è di ascendenza aristotelica (Politica l I), e non machiavelliana, l’idea del superamento dei bisogni primari come base per lo sviluppo della civiltà, su cui B. fonda nel 1526 le ragioni dell’espansione territoriale. Nelle redazioni successive le ragioni dell’ampliare vengono invece affermate riprendendo, ad verbum, le osservazioni machiavelliane sul moto perenne delle cose e sull’espansione come necessità vitale per la sopravvivenza fisica dello Stato nella sua integrità territoriale e nella sua autonomia (Dialogi, cit., p. 121). B. riprende insomma, con perfetta aderenza, la tesi di Discorsi I vi, dove la logica dell’espansione è indicata come destino necessario per la sopravvivenza di ogni repubblica, nel contesto di relazioni tra gli Stati contrassegnate da una feroce e mortale concorrenza. E la tesi comporta, come necessario e drammatico corollario, l’adozione di armi proprie e l’esecrazione di quelle mercenarie: motivi a proposito dei quali B. propone un vero e proprio florilegio di loci machiavelliani (Dialogi, cit., pp. 122-26). Il confronto tra le redazioni rivela insomma una meditazione delle idee machiavelliane, a opera di B., che parte da lontano, e che la stampa dei trattati del Segretario, all’inizio degli anni Trenta, ha in qualche modo rilanciato.
Certo è curioso il fatto che gli interlocutori del dialogo Della repubblica siano coinvolti in un vero e proprio rovesciamento delle parti, cosicché è proprio M. a proporre l’ideale di una repubblica che, rinunciando all’ampliare, affida così a una pacifica convivenza con i vicini la sua durata (Dialogi, cit., p. 118), mentre Trissino sostiene la tesi opposta, facendo proprie le stesse argomentazioni che il Segretario aveva esposto nei primi capitoli dei Discorsi. È più che naturale che nel 1526, a Venezia, e in esilio dal 1522, B. non avesse a disposizione un manoscritto dei Discorsi, e che la pubblicazione del capolavoro machiavelliano gli consentisse invece di meditare con agio spunti e idee incontrati anni prima nei colloqui degli Orti. Ma forse è il peso assunto dal nome di M. dopo la stampa delle sue opere maggiori ad avere spinto B. (tutt’altro che disattento alle richieste del mercato librario) a intensificare nel suo testo la presenza di temi e idee desunti da uno scrittore in qualche modo di successo, come era allora Niccolò. Che poi le sue idee non vengano attribuite a M. stesso, ma a Giangiorgio Trissino (un nome di richiamo, ma non certo un concorrente sul piano delle idee politico-istituzionali) va forse connesso al disinvolto, se non addirittura agguerrito, marketing caratteristico dell’editoria veneziana cinquecentesca. Di fatto si ammanniscono al lettore idee già date alle stampe, ma riconfezionandole nella finzione di un nuovo scambio dialogico, con protagonisti in parte mutati, e nella cornice di un libero confronto tra gentiluomini e intellettuali; e in una cornice che, rinunciando alla generica ambientazione classica dell’edizione del 1526, diviene quella, geograficamente e storicamente determinata, di Pesaro (quasi ammiccando alla cornice urbinate del Cortegiano, che solo pochi anni prima era stato, con grande fortuna, dato alle stampe).
Bibliografia: Dialogi di Antonio Brucioli, Venezia 1526; Dialogi, a cura di A. Landi, Napoli-Chicago 1982.
Per gli studi critici si vedano: D. Cantimori, Rhetoric and pol itics in Italian humanism, «Journal of the Warburg Institute», 1937-1938, 1, pp. 83-102; G. Spini, Tra Rinascimento e Riforma: Antonio Brucioli, Firenze 1940; G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965 (nuova ed. Machiavelli nella cultura europea, Bari 1995); C. Ginzburg, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del ’500, Torino 1970, pp. 110-14; C. Dionisotti, La testimonianza del Brucioli, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 193-226; A. Landi, Nota critica, in A. Brucioli, Dialogi, a cura di A. Landi, Napoli-Chicago 1982, pp. 551-88; C. Pincin, Antonio Brucioli simulatore cartaginese, «Belfagor», 1984, pp. 531-44; D. Fachard, Entre utopie et réalité, in Antonio Brucioli, éd. E. Boillet, Paris 2008, pp. 77-97.