BUONVISI, Antonio
Nacque a Lucca da Benedetto di Lorenzo e da Filippa di Martino Cenami il 26 dic. 1487. Fu presto impiegato nelle aziende mercantili e bancarie del padre che fin dal 1502 gli intestò la compagnia Buonvisi di Roma, ancora sotto suo nome nel 1508, sebbene da tre anni egli si fosse trasferito a Londra, dove era stato preceduto dallo zio Ludovico e dai cugini Lorenzo e Niccolò di Paolo Buonvisi. Con Lorenzo il B. restò in Inghilterra a sostenere le fiorentissime attività dei Buonvisi attraverso una compagnia di cui non conosciamo, dopo la morte di Benedetto nel 1516, la esatta intitolazione.
Oltre che ai cardinali Pole e Wolsey, al vescovo di Worcester, al lucchese Silvestro Gigli (di cui era procuratore generale), e a Thomas Cromwell, fu legato a Enrico VIII e lo sovvenne con notevoli prestiti ottenendo già nel 1513 un'esenzione quinquennale dai dazi di esportazione. Le sue principali attività in Inghilterra furono il commercio della lana e dei gioielli ed ebbe anche funzioni di banchiere della corte inglese, che si servì spesso dei suoi corrieri per la corrispondenza con gli inviati all'estero. A Londra risiedette per lungo tempo in Crosby Hall, Bishopsgate Street, nel quartiere di Chelsea, dove ebbe ospiti molti dei più noti esponenti della vita politica e della cultura inglese (e non solo umanisti, ma anche medici e scienziati) fra i quali Thomas More e Thomas Starkey.
Sebbene l'assenza di ogni partecipazione alla vita politica lucchese e la rarità dei soggiorni in patria (ma di lui si ricordarono gli Anziani nel 1552 per chiedere aiuti in tempo di carestia) dimostrino che il B. si estraniò quasi completamente da Lucca, il legame con la città natale rimase vivo attraverso la partecipazione alle compagnie della famiglia e alla conservazione della quota parte del patrimonio immobiliare. Nella divisione del 1520 fra i quattro figli di Benedetto toccarono al B., oltre ai beni, del valore di circa 10.000 ducati, che dovevano restare indivisi, una "posissione" a Camaiore valutata 2.401 ducati, terre a Nocchi, Stiava, Bozzano e Torcigliano e tre case a Lucca; tutti questi possessi, del valore complessivo di 4.827 ducati, rendevano annualmente 711 staia di grano, 60 some di vino, 551 libbre d'olio e 38 ducati d'oro. Tutto il suo patrimonio immobiliare lucchese fu in seguito amministrato dal fratello Martino che gli corrispose 80 ducati d'oro l'anno. Dopo la morte di Martino, nel 1538, il B. rinunciò anche agli 80 ducati e "si contentò tutte le sue entrate servisseno ad utili e comodo di Lodovico, Vincenti e figli di Martino senza avere cosa alcuna" (Casali).
Il B. seguì da Londra, e poi da Lovanio, gli affari delle compagnie Buonvisi in cui fu cointeressato, in primo luogo quella di Lione. Fino al '22 era stata intitolata a "Ludovico Buonvisi, Bonaventura Micheli e C.", ma in quell'anno il Micheli costituì separata compagnia associandosi Urbano Parensi, il mercante lucchese che aveva diretto la società di Lione fin dai tempi di Benedetto Buonvisi, e i Buonvisi costituirono la "Antonio e Ludovico Buonvisi e C. di Lione" che fu ripetutamente rinnovata fino al 1550, quando venne a morte Ludovico e si passò alla ragione sociale "Antonio, eredi di Ludovico Buonvisi e C.", divenuta nel 1559, e fino al 1564, "Eredi di Antonio e Lodovico Buonvisi e C.". In sostanza il B., da vivo e da morto, fu il "principaliter nominatus" della più importante compagnia dei Buonvisi per ben 42 anni, sebbene non abbia mai risieduto per lunghi periodi nella città del Rodano, dove la ditta fu diretta, successivamente, da Niccolò de' Nobili, Vincenzo Buonvisi, Benedetto Calandrini, Bernardino di Martino Buonvisi e Girolamo di Ludovico Buonvisi.
Ininterrottamente presente alle fiere di Lione la compagnia, nelle sue varie rinnovazioni, effettuò prestiti e pagamenti per la corona di Francia da sola o associata con altre ditte: nel 1522 prestava 11.000 scudi insieme con la "Bonaventura Micheli, Urbano Parensi e C." e 57.881 libbre tornesi insieme con i Minutoli; nel 1529 trasmetteva 400 libbre tornesi al delfino prigioniero in Spagna; nel 1538 il B. prestava alla corona 1.752 scudi; nel 1527 20.000 scudi erano stati pagati a Londra, probabilmente per un rimborso, al B. e a Francesco Salvaggi. Quest'ultimo era collegato con Sebastiano Salvaggi che nel 1520 spediva guado da Bordeaux a Londra; un commercio nel quale troviamo interessata, cinque anni più tardi, la compagnia Buonvisi di Lione che, grazie ad un salvacondotto di Luisa di Savoia, esportava da Bordeaux anche lana e spezie. Nel 1523, sempre a Bordeaux, Francesco Sbarra, associato al B. e a Iacopo Bernardi, comprò una nave per 2.000 libbre tornesi. Nel 1530 alcuni Buonvisi avrebbero ottenuto a Bordeaux il droit de bourgeoisié. Altri centri di attività dei Buonvisi di Lione furono Rouen, Barcellona e Marsiglia, dove essi appaiono anche interessati al traffico e alla lavorazione del corallo. A Marsiglia fu probabilmente imbarcato il grano che i Buonvisi ottennero di poter esportare a Lucca dalla Francia nel 1528; da Marsiglia salparono nel 1533 due navi cariche di diverse mercanzie, quasi tutte dei Buonvisi, dirette in Marocco, che tuttavia fecero ritorno con buona parte delle merci, rimaste invendute.
La "Antonio e Ludovico Buonvisi e C." di Lione apertasi in fiera di Pasqua del 1547, e divenuta "Antonio, eredi di Ludovico Buonvisi e C." dal 1550, si chiuse in fiera di Pasqua del 1554; aveva un capitale sociale di circa 36.000 scudi e fra il 1554 e il 1559 (con una successiva divisione di modesta entità del 1566) divise utili che raggiunsero complessivamente il 168% della "missa" iniziale. La società che si aprì con la medesima intitolazione in fiera di Pasqua del 1554 aveva un capitale che si aggirava sui 35.000 scudi; essa doveva finire - come poi accadde - nella fiera di Pasqua del 1559; ma poteva anche esser chiusa prima "a beneplacito di epso Antonio"; la dirigevano i soci Vincenzo di Benedetto Buonvisi e Benedetto Calandrini, ma avevano la "firma", nel caso in cui si fossero trovati a Lione, anche i soci Giuliano Calandrini, Benedetto di Martino Buonvisi e Girolamo di Ludovico Buonvisi. Altri soci erano Lorenzo, Paolo e Bernardino di MartinoBuonvisi, Alessandro di Ludovico Buonvisi, Michele Diodati, gli eredi di Nicola Diodati e Francesco Gabrielli. La divisione degli utili, cominciata nel 1559, si prolungò fino al 1569: essi furono complessivamente del 100%, della "missa" iniziale. La lentezza dei rimborsi e il calo dei profitti vanno probabilmente messi in relazione con le vicende del Grand Parti di Lione istituito per unificare i debiti della corona di Francia e organizzarne l'ammortamento, non meno che per sollecitare i banchieri a nuovi prestiti con migliori garanzie. Inizialmente al di fuori del Grand Parti, ma poi in esso assorbito, fu anche un mutuo di 112.500 libbre che i Buonvisi fecero a Enrico II nel 1555. Il debito di Enrico II nei confronti dei Buonvisi di Lione, che nel 1553 era di 39.925 scudi, sarebbe salito nel 1557 a 121.023 scudi (Ehrenberg).
La compagnia Buonvisi di Lione del 1554-1559 aveva una partecipazione, di entità non nota, nella "Michele Diodati, Alessandro Buonvisi e C. dell'arte della seta di Lucca" degli anni 1554-1559; allo stessa compagnia il B. partecipava da solo con una quota di "missa" imprecisata. La compagnia lionese aveva un'altra partecipazione di 1.000 scudi, questa in accomandita, nella compagnia dell'arte della seta di Lucca che si intitolava al suo stesso socio Francesco Gabrielli; alla medesima compagnia il B. partecipava a titolo personale con 8.000 scudi in accomandita: tutto il capitale sociale della "Francesco Gabrielli e C." restava al di sotto del doppio delle accomandite, 17.500 scudi.
Nella fiera di Apparizione del 1559 si aprì la nuova compagnia lionese dei Buonvisi che si intitolava ormai agli eredi di Antonio e di Ludovico: essa ebbe un capitale di 50.000 scudi e si chiuse nel 1564: gli utili distribuiti fra questa data e il 1569 furono complessivamente di poco inferiori al 200% della "missa" iniziale. Della compagnia erano soci Vincenzo Buonvisi, Benedetto, Lorenzo, Paolo e Bernardino di Martino Buonvisi, Alessandro e Girolamo di Ludovico Buonvisi, Michele Diodati e gli eredi di Nicola Diodati: i Calandrini, passati alla Riforma, erano usciti o erano stati estromessi. La direzione della ditta rimase affidata a Bernardino, Girolamo e Vincenzo Buonvisi. L'aumento della "missa" era stato reso possibile anche dalla partecipazione segreta di numerosi minori operatori lucchesi; così dei 10.000 scudi forniti da Alessandro e Girolamo Buonvisi, 2.000 appartenevano a Ferrante Sbarra, 500 a Baldassarre Cittadella, 200 a Michele Franchetti e 300 a Francesco Cagnoli.
Il B., che aveva ereditato i traffici dei cugini Niccolò e Lorenzo di Paolo, e che non a caso lasciando l'Inghilterra andò a stabilirsi a Lovanio, dovette sempre mantenere larghi interessi nelle attività di Anversa. Cessata la "Niccolò Buonvisi e C. di Anversa" intorno al 1530, gli affari rimasero probabilmente in mano a Bernardino Cenami e poi a Simone Turchi: non conosciamo tuttavia l'intitolazione della ditta, né abbiamo informazioni sulle sue attività; si può supporre che i 15.000 scudi prestati dai Buonvisi a Carlo V nell'estate del 1532 siano stati pagati tramite la compagnia di Anversa.
Secondo la confusa ricostruzione del Mazzolani, Simone Turchi, protagonista di un "delitto famoso", fatto oggetto di una novella del Bandello, sarebbe stato raggiunto ad Anversa nel 1538da quel Girolamo Diodati destinato ad esserne vittima qualche anno più tardi. Non sembra tuttavia che il Diodati operasse ancora nell'ambito della compagnia Buonvisi e l'associazione fra Buonvisi e Diodati non dovrebbe aver avuto inizio che nel 1544 con la "Ludovico Buonvisi, Nicola Diodati e C. di Anversa". È comunque certo che nel marzo del 1549 fu costituita ad Anversa la "Ludovico Buonvisi, Michele e Girolamo Diodati e C.": in essa Ludovico e Vincenzo Buonvisi partecipavano con una "missa" di 3.000 scudi che vennero anticipati al 6,5% dal B., che non in questa sola occasione fornì, a tassi relativamente modesti, il liquido necessario ai suoi parenti. Dopo la morte di Ludovico Buonvisi e di Girolamo Diodati non è chiaro cosa sia stato della compagnia (che si sarebbe chiusa nel 1554con una perdita del 30%):secondo il Vazquez de Prada già a partire dal 1551 e fino alla morte del B. (1558) la compagnia di Anversa si sarebbe intitolata, come quella lionese, "Antonio ed eredi di Ludovico Buonvisi e C." per poi divenire "Alessandro Buonvisi e C.": l'asserzione è almeno in parte contraddetta dal Libro delle date della Corte dei mercanti di Lucca che registra una "Alessandro Buonvisi e C. di Anversa" del 1556-60 della quale il B., almeno ufficialmente, non era socio; salva l'ipotesi che le ditte Buonvisi ad Anversa siano state due in questo periodo e che una di esse non sia stata registrata a Lucca.
Le fonti lucchesi in particolare, e le fonti continentali in genere, tacciono quasi completamente delle attività del B. in Inghilterra, né d'altronde le fonti inglesi, edite o meno, sono state finora sistematicamente esplorate per ricostruirne le vicende. Si può ricordare che Thomas Gresham nel 1555 trattava ancora col B., ormai a Lovanio, questioni finanziarie per conto della corona; in precedenza fin dal 1544 erano state risolte tutte le pendenze per i prestiti concessi a Enrico VIII. In effetti, non meno delle convinzioni religiose, a spingere il B. a lasciare l'Inghilterra per Lovanio nel 1548 furono probabilmente la morte del sovrano che l'aveva protetto e la crescente diffidenza verso i mercanti stranieri. Salita al trono Maria la Cattolica, il B. (anche se nel testamento dell'ottobre del 1553 non escludeva la possibilità d'un rimpatrio) non ritornò in Inghilterra dove fra l'altro avrebbe potuto contare sull'appoggio del cardinale Pole.
L'esilio di Lovanio, che gli costò la confisca dei beni (venne escluso dall'amnistia di Edoardo VI e fu reintegrato soltanto durante il regno di Maria) e soprattutto una celebre lettera a lui indirizzata poco prima dell'esecuzione da Thomas More e presto diffusa dai polemisti inglese di parte cattolica hanno offerto lo spunto per una esaltazione forse eccessiva del "papismo" del Buonvisi. La stessa ipotesi del Rebora che alcuni particolari della vita del More siano giunti ai biografi attraverso i racconti del B. (ipotesi che appare suffragata dal lascito di un anello d'oro disposto dal B., "in segno di benivolentia" a favore di Nicholas Harpsfield, autore della Life of More), rischia di gettare qualche ombra su una tradizione che finirebbe per avere il suo punto di partenza nel B. medesimo, presumibilmente incline a sottolineare il suo ruolo di mecenate non meno di quello di difensore della fede.
Dell'autenticità della lettera del More non sembra vi sia motivo di dubitare, tanto più che il tono, per quanto acceso, e un rapido accenno finale ("Familiam tuam totam, herili in me affectui simillimam, Christus servet incolumem") lasciano indovinare che il cancelliere vedesse nel B. un patrono, coraggioso e affezionato, più che un vero e proprio compagno di fede. Più che testimoniare un preciso impegno religioso del B., questa lettera, e i legami che essa presuppone, valsero a corroborare, dopo l'esecuzione del More, l'adesione del B. e di tutta la sua famiglia allo schieramento cattolico. Tanto più che i Buonvisi erano lucchesi, appartenevano cioè alla città italiana che dette uno dei maggiori contributi all'emigrazione per motivi religiosi verso i paesi riformati; al governo lucchese, ripetutamente messo in difficoltà per la sua presunta tiepidezza nei confronti dell'eresia, non pareva vero di poter far leva su un simile campione del cattolicesimo, uscito dalla più importante, politicamente ed economicamente, delle famiglie del suo Stato. E in effetti non uno dei Buonvisi passò alla Riforma, diversamente da ciò che accadde per tutte le altre casate di maggior rilievo.
La casa del B. a Lovanio continuò ad accogliere ospiti più o meno illustri, tutti legati al cattolicesimo. In una lettera a Giovan Battista Minutoli, Giovan Michele Bruto osservava che a Lovanio il nome del B. era "celebre... atque illustre" per la generosa ospitalità; qualche luce sulle amicizie del B. gettano i lasciti disposti oltre che per lo Harpsfield, per altri personaggi inglesi e fiamminghi: Thomas Gresham ("Tomaso Grascano"), il vescovo di Worcester, il "maire" di Lovanio, il presidente del Collège du pape. Attraverso il testamento possiamo farci anche un'idea della "familia" del B., almeno 20 persone, alcune delle quali davvero fidatissime se vennero comprese fra gli esecutori testamentari.
Nelle sue ultime volontà, dettate a Lovanio nell'ottobre del 1553, "siando entrato in l'anno 66 della mia età che finiranno allo dì 26 di dicembre prossimo dell'anno 1553", il B. chiedeva d'esser sepolto a Lucca o a Londra o a Lovanio, le tre città in cui prevedeva di poter morire; disponeva numerosi lasciti pii, fra cui fa spicco quello per una messa perpetua nella cappella della famiglia in S. Frediano di Lucca; si mostrava estremamente generoso nei confronti di tutti i suoi dipendenti, lucchesi, fiorentini, fiamminghi e inglesi. Eredi sarebbero stati per un terzo ciascuno suo fratello Vincenzo, i figli del fratello Martino e quelli del fratello Ludovico: Vincenzo, Benedetto di Martino e Alessandro di Ludovico Buonvisi erano anche fra gli esecutori testamentari. Dall'eredità venivano esclusi - anche se potevano fruire di notevoli lasciti - gli illegittimi di Vincenzo; per contro, ad una sua eventuale figlia legittima sarebbe toccata una dote di ben 5.000 scudi. Altre limitazioni vennero previste per i nipoti fin tanto che non avessero raggiunto i 25 anni; in particolare Paolo di Martino non avrebbe potuto godere la sua parte fino a 30 anni e avrebbe dovuto accontentarsi di ricevere un assegno annuo di 150-200 scudi se scapolo, di 300 se sposato; a copertura dei suoi debiti avrebbe potuto esser sborsata immediatamente una somma non superiore ai 2.000 scudi; tutto ciò "per essere stato di mal governo e non haver fatto che buttare". Nella minuzia e nella severità delle disposizioni testamentarie del B. traspare ancora quella stessa rigidezza circa il buon uso del denaro e delle ricchezze accumulate con i traffici che aveva caratterizzato, più di quarant'anni prima, il testamento di suo padre.
L'ammontare dei beni lasciati dal B. è difficilmente calcolabile: ignoriamo in primo luogo quali e quante fosssero le proprietà immobiliari in Inghilterra e a Lovanio, e riesce difficile stabilire l'ammontare esatto delle cifre sborsate dagli esecutori per soddisfare ai suoi lasciti testamentari. Le proprietà lucchesi furono stimate 10.215 scudi, 3.375 dei quali rappresentati dalla quota parte del palazzo Buonvisi. Oltre 2.000 scudi valevano i "menaggi" della casa di Lovanio, buona parte dei quali fu trasferita a Lucca: oltre alle stoffe, alle telerie, alle argenterie ecc. troviamo diversi "pezzi di tappessarie", una "imagine di avorio", tappeti turchi e perfino "una carta de l'Indie". Quanto al liquido, soltanto gradualmente esso venne disimpegnato dalle attività mercantili e bancarie della famiglia: nel 1569 la spartizione degli utili provenienti dall'eredità aveva già raggiunto - con i profitti dell'ultimo decennio - i 270.000 scudi, una cifra gigantesca, che permette di ipotizzare, forse restando ancora al di sotto del zero, che il patrimonio complessivo toccasse i 350.000 scudi al momento della sua morte.
Morì a Lovanio il 5 dic. 1558 e venne sepolto nella chiesa del convento francescano dei recolletti. Il Sardi riportò due epigrafi, già ai suoi tempi scomparse, che sarebbero esistite a Lovanio in onore e ricordo del B.: entrambe sicuramente imprecise circa la data di morte dei Lucchese, ma almeno notevoli per l'assenza di qualsiasi accenno al suo "papismo".
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