BUONVISI, Antonio
Nacque a Lucca da Benedetto di Martino e da Chiara di Stefano Burlamacchi nel 1560 (fu battezzato in S. Frediano il 10 marzo.
Fu presto attivo nelle aziende mercantili Buonvisi: diciannovenne, ad esempio, notificava alla Corte dei mercanti di Lucca la costituzione della compagnia di Venezia del 1578-82. Pochi anni dopo, nel 1584, il suo nome comparve nella ragione sociale della compagnia di Lione "Benedetto, Bernardino, Stefano, Antonio Buonvisi e C.", in cui operò accanto al fratello maggiore Stefano. Nella ditta di Lione del 1587-95 il B., per le sue prestazioni, si vide assegnata una provvigione sugli utili del 4,3%. Negli stessi anni fu socio, alle identiche condizioni del fratello Stefano, anche delle compagnie di Anversa ("Bernardino, Stefano, Antonio Buonvisi e C.") del 1588-92 e di Piacenza (medesima ragione sociale) del 1587-91.
A partire dagli anni '90 il peso di Stefano e Antonio nella direzione delle aziende Buonvisi si accrebbe ulteriormente, ma se Stefano scelse Lione come centro delle sue attività, il B. rimase prevalentemente a Lucca. Qui fu socio nominato delle "Eredi di Ludovico, Bernardino, Stefano, Antonio Buonvisi e C. del banco" del 1591-96 e del 1596-99 e poi della "Paolo, Stefano, Antonio Buonvisi e C. del banco" del 1599-1605. Fu il B. a denunciare alla Corte dei mercanti, il 27 giugno 1592, e poi il 12 ottobre, la costituzione della compagnia di Piacenza del 1592-98; nella stessa data notificò anche la costituzione della compagnia di Genova del 1592-98. Il 10 genn. 1594 fu la volta della "Ferrante Burlamacchi e C. di Anversa" del 1593-98; nel 1596 della compagnia di Lione (dove aveva nuovamente soggiornato l'anno precedente) del 1595-99; il 12 sett. 1598 della compagnia di Venezia "Buzzaccarini, Cancellereschi e C." del 1598-1601; il 7 ott. 1599, contemporaneamente, delle compagnie Buonvisi di Lucca, Genova, Piacenza e Lione del 1599-1605; il 15 marzo 1601 della compagnia Buonvisi di Venezia del 1601-1605; il 1º genn. 1603 della compagnia "Mansi, Chiariti e C." di Milano; il 15 giugno 1603 della "Mariani e C." di Bologna. Altre notifiche, relative a proroghe delle compagnie, vennero fatte personalmente dal B. nel 1596, 1597, 1602, ecc. A tutte le ditte che abbiamo elencato il B. partecipò sempre alle medesime condizioni del fratello Stefano, con la sola eccezione di due compagnie alle quali partecipò anche a titolo personale: la "Benedetto Mariani e C. di Bologna" del 1603-1608 con una "missa" in accomandita di 5.000 libbre (8,33%) e la "Camillo Orsucci, Carlo Benassai e C. di Monteleone di Calabria", del 1598-1600 con una "missa" in accomandita di 500 ducati del Regno (4,5%).
Il parallelismo delle partecipazioni del B. e di Stefano nelle aziende della famiglia e in quelle ad esse collegate continuò anche dopo l'anno 1605: il B. fu socio, allo stesso titolo del fratello, della "Stefano, Antonio Buonvisi, Ottaviano Diodati e C. di Genova" del 1605-1609, della "Paolo, Stefano, Antonio Buonvisi e C. di Piacenza" degli stessi anni, dell'omonima ditta del banco di Lucca del 1605-1608, della "Stefano, Antonio Buonvisi e C. del banco di Lucca" del 1609-1611 e della omonima di Venezia del 1605-1608, della "Orazio Mansi, Alessandro Chiariti e C. di Milano" del 1608-1611 e della "Niccolò, Arrigo Diodati e C. di Venezia" del 1608-1612. Le differenze tra i fratelli stanno nel diverso contributo alla compagnia di Lione del 1605-1608 (Antonio versò 4.000 scudi contro i 12.000 di Stefano) e nell'accomandita (di 6.000 scudi su 21.000) che il B. conferì da solo alla "Giovambattista Cenami, Girolamo Diodati e C. dell'arte della seta di Lucca" del 1606-1610. Il B. continuava a risiedere a Lucca e la lieve differenza fra il suo patrimonio (200.000 scudi) e quello del fratello (230.000), fissata nella rilevazione fiscale del 1606, sembra appunto dovuta ai maggiori guadagni assicurati a Stefano per la sua anzianità e per la sua attività all'estero anziché in patria, visto che le quote dieredità pervenute ai due fratelli erano identiche e sostanzialmente uguali risultano anche esser stati i capitali da loro investiti nella mercatura.
Il ritiro dagli affari di Stefano - fra il 1608 e il 1610 -, la morte di Paolo Buonvisi e l'uscita dal sistema di aziende della casata di Pompeo di Paolo consegnarono nelle mani del solo B. tutti i traffici della famiglia: era la prima volta, dopo almeno duecento anni, che alle compagnie Buonvisi era rimasto interessato un solo nucleo familiare, tanto che il B. poté includere, accanto al suo, solo il nome del figlio diciottenne Benedetto nella ragione sociale delle ditte di Lucca e di Lione, (le uniche che ormai sopravvivevano) rinnovate nel 1612.
La "Antonio, Benedetto Buonvisi e C. del banco e di negotii mercantili di Lucca" aveva un capitale sociale di 15.000 scudi, 15.000 dei quali versati dal B., 2.000 da Giovanni Carli e 1.000 da Paolo Minutoli. L'omonima ditta di "negotii e traffichi mercantili" di Lione poteva contare su una somma di 24.000 scudi, metà dei quali conferiti dal B., 5.000 dal genero Benedetto de' Nobili, 5.000 da Giovanni Cappelletti e 2.000 da Jacopo Gallicani. La presenza dei Buonvisi a Piacenza e a Venezia (si era definitivamente rinunciato a Genova, come ad Anversa e all'Italia meridionale) venne ancora assicurata dalla "Eredi di Niccolò Diodati e C." del 1612-1618, diretta da Francesco Diodati, cui il B. conferì un'accomandita di 12.000 scudi su 24.000. Assai più modesta - 2.000 scudi su 32.000 - fu la sua partecipazione alla "Jacopo, Filippo del Conte, Alessandro Chiariti e C. di Milano" del 1613-1617.Il B. (che alcune lettere ai Ruiz da Lione rivelano attentissimo ai traffici internazionali) non si muoveva ormai più da Lucca; ciò nonostante rimase estraneo al "cursus honorum" (fu estratto anziano soltanto una volta, nel 1600), cui si dedicava invece l'altro fratello Martino, e si limitò ad assolvere qualche missione diplomatica, a Torino e poi a Firenze nel 1598, a Milano nel 1613, presso il governatore, marchese di Hinojosa. Per conto di Enrico IV il B. si interessò inoltre del recupero, dall'Italia, di mobili e tappezzerie della corona di Francia. Già nel 1614, a soli due anni di distanza dalla decisione di ricostituire da solo le ditte Buonvisi di Lucca e di Lione, il B. morì lasciando eredi i figli: il ventenne Benedetto, il diciassettenne Giovanni, il dodicenne Lorenzo (poi avviato alla carriera ecclesiastica) e Francesco (futuro cavaliere di Malta), ancor fanciullo. Tutti erano nati dal matrimonio, avvenuto nel 1587, con la cugina Chiara di Alessandro Buonvisi, così come la figlia Zabetta poi sposata a Benedetto de' Nobili.
Per ottemperare al disposto testamentario del fratello, Stefano Buonvisi riassunse la direzione degli affari, e a lui si intitolarono le compagnie Buonvisi di Lucca del 1617-22 e del 1623-26, cui Benedetto e Giovanni di Antonio parteciparono con "misse" di 7.000 e 7.500 scudi su capitali sociali, rispettivamente, di 17.000 e 18.000 scudi. Stefano rimase invece estraneo alla ditta di Lione che nel 1617 assunse la ragione sociale "Benedetto, Giovanni Buonvisi e C."; il capitale era di soli 20.000 scudi e i due Buonvisi non conferirono complessivamente che 8.000 scudi; gli altri soci furono Benedetto de' Nobili (3.000 scudi), Giovanni Cappelletti (4.000), Decio Diodati (2.000) e Giuseppe Gallicani (3.000). Il governo della società, come nella precedente compagnia, fu affidato al Cappelletti, al cui fianco Benedetto e Giovanni Buonvisi fecero il loro apprendistato mercantile. Al Cappelletti successe nel 1623 Giuseppe Gallicani; la ditta, rinnovata per tre anni sotto la medesima ragione sociale, aveva sempre un capitale di 20.000 scudi, cui i Buonvisi erano tornati a contribuire per 12.000 contro i 4.000 ciascuno del Gallicani e del Cappelletti: dopo Alfonso Cittadella e Pompeo Buonvisi, anche il Nobili e il Diodati abbandonavano la ditta, che alla scadenza del 1626 non venne né rinnovata né prorogata. Tre anni dopo i Buonvisi dichiaravano fallimento con debiti che secondo alcune valutazioni toccavano i 700.000 scudi (Ehrenberg), ma che la tradizione erudita lucchese fa ascendere a 320.000 (Baroni, c. 25): ve n'era comunque abbastanza per destare un'enorme impressione a Lucca dove i Buonvisi non solo erano i più ricchi (e l'opinione corrente fu raccolta anche dal Montaigne nel suo Journal), ma quasi incarnavano la tradizione del patriziato operoso: il fallimento dei Buonvisi rendeva più che mai tangibile la crisi dell'economia lucchese.
L'entità del passivo induce a escludere che il fallimento sia avvenuto in tempi ristretti e per una singola, specifica causa. Una sommaria ricapitolazione delle attività della casata negli ultimi decenni prima del fallimento sembra confermare che ormai da un certo tempo i Buonvisi erano avviati all'ingloriosa fine del 1629.
Si può calcolare che i Buonvisi del ramo di Martino (gli unici rimasti personalmente sulla breccia) avessero vincolato ai capitali delle diverse compagnie della casata e di quelle collegate circa 100.000 scudi nel 1587-91; la cifra poté salire a 115.000 nel 1591-95, 1595-99 e 1599-1605 per scendere a 105.000 nel 1605-1609; nel 1609-11 essa precipitò bruscamente a 70.000, ma, considerando che Pompeo di Paolo fece poi parte per se stesso sottraendo dai 15 ai 20.000 scudi, il sistema delle aziende Buonvisi, ormai ridotto all'asse Lucca-Lione, finì per ricevere da membri della famiglia cifre comprese fra i 25.000 e i 40.000 scudi nei periodi 1612-18, 1618-231 1623-26, con un altro calo rispetto al 1609-11. Quanto al contributo che i Buonvisi ebbero per le loro compagnie da soci estranei alla famiglia, esso fu costante sui 40.000 scudi dal 1587-91 al 1605-1609 con una flessione a 30.000 nel 1595-99; ma nel 1609-1611 (quando debbono ormai trascurarsi i più di 20.000 scudi conferiti dai Massei nella ditta di arte della seta di Paolo e Pompeo Buonvisi) si precipitò a 7.000, per risalire a 15.000 nel 1612-18 e 1618-22 e ridiscendere a 11.000 nel 1623-26. Sempre approssimativamente, si calcola che l'afflusso di capitali raccolti a Lucca da "parenti et amici" sia stato di 65.000 scudi nel 1587-91, di 70.000 nel 1591-95; di 30.000 nel 1595-99; di 55.000 nel 1599-1605; di 12.000 nel 1605-1609 e in seguito assolutamente nullo.
Attraverso questi dati sembra che l'ultimo momento di vera floridezza dei Buonvisi debba essere collocato negli anni immediatamente successivi al 1590. Nel 1595-1599 si sarebbe avuto un primo calo (ne sono sintomi il ridursi delle "misse" dei soci e il dimezzarsi di quelle dei "sottoscrittori") al quale la famiglia avrebbe resistito bene confermando i suoi precedenti investimenti. Nel 1599-1605 si sarebbero avuti segni di ripresa, ma il crollo dei contributi di "parenti et amici" nel 1605-1609 e la riduzione, nel 1605, da 49.500 a 27.000 scudi del capitale sociale della ditta di Lione preludevano allo scompiglio del periodo successivo da cui i Buonvisi dovevano uscire ridimensionati: nel secondo decennio del Seicento più d'una ditta lucchese, a Lione e in patria, aveva ormai capitali sociali superiori a quelli delle loro due aziende.
Risulterebbe in conclusione che i Buonvisi si dibattevano in difficoltà già vent'anni prima del fallimento e che fino al 1629 essi non fecero che trascinarsi debiti che, dopo la crisi degli anni venti, furono definitivamente impossibilitati a rimborsare. L'esclusione di Stefano dalle compagnie di Lione a partire dal 1612, forse dovuta al timore che su istanza di creditori si potesse procedere contro persone e beni della ditta in Francia, può essere una spia per ricercare nelle iniziative della compagnia del 1605-08 la falla che a lungo andare determinò il crollo dei Buonvisi.
La crisi del 1629 coinvolse direttamente, oltre a Stefano, soltanto i nipoti Benedetto e Giovanni. Il primo, destinato a succedere allo zio nel 1646 nel fedecommesso istituito da Bernardino Buonvisi, aveva sposato nel 1619 la vedova del cugino Sebastiano di Stefano, Lucia Cenami; fu estratto anziano nel 1622, quando era a Lione, e ricoprì poi una sola volta la carica nel 1626; morì senza discendenza nel 1654 lasciando erede la moglie. Il secondo sposò una lorenese, probabilmente a Lione; attraverso suo figlio, Giovan Claudio, sposato con Anna di Bernardo di Pompeo Buonvisi, la discendenza di Martino di Benedetto Buonvisi giunse a estinguersi nel Settecento.
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