CALDORA (Candola), Antonio
Nato intorno al 1400 da Giacomo e da Medea d'Eboli, ricevette la sua formazione militare alla scuola del padre. Seguendo le imprese paterne, il C. si affacciò assai presto sulla scena delle lotte fra Angioini e Aragonesi: nel 1424 partecipò alla difesa di Napoli e poi alla vittoriosa battaglia dell'Aquila contro Braccio da Montone, del 2 giugno; in essa il C. ricevette il comando di una delle sedici squadre in cui il padre aveva diviso l'esercito angioino. Tra il 1426 e il 1427 il C. servì Giovanna II durante le lotte fra le opposte fazioni guidate da Sergianni Caracciolo e dai Colonna, costringendo alla resa il ribelle Francesco Mormile di cui poi occupò, quale vicereggente, Diano ed altri castelli.
Il buon accordo tra i Caldora e la corte fu suggellato nel 1428 col matrimonio del C. con Isabella Caracciolo, figlia di Sergianni. In seguito le notizie che abbiamo sul C. fino alla morte del padre sono frammentarie: egli infatti visse all'ombra di Giacomo, seguendone la politica e godendone le fortune, senza mai emergere da protagonista nelle complesse vicende del Regno. Nel 1435 iproblemi sollevati dalla successione di Giovanna II, morta il 2 febbraio, rinfocolarono i contrasti interni del Regno, e ancora una volta il C. seguì il padre muovendo contro il principe di Taranto, che sfidò a battaglia a Rotigliano: la sfida però non fu raccolta e il C. si ritirò su Gravina. L'anno seguente la sua fedeltà alla causa angioina fu ricompensata dalla reggente Isabella col dono del palazzo napoletano confiscato al ribelle conte di Nola; nel 1437, nominato vicereggente da Isabella, conquistò in suo nome Airola, la valle di Sanseverino e Salerno, ma all'arrivo del patriarca Vitelleschi, in cambio di denaro, si ritirò nelle sue terre di Carpenone.
Nel 1439 la morte del padre rese il C. erede dei beni familiari, del titolo di duca di Bari insieme con quello di conte di Trivento trasmessogli dalla madre, e principalmente delle truppe paterne, di cui il C. assunse immediatamente il comando promettendo un trattamento migliore del precedente.
Re Renato d'Angiò si premurò di confermarlo immediatamente duca di Bari, chiedendogli nel contempo aiuto nella guerra contro gli Aragonesi; il C. acconsentì verbalmente alla richiesta, ma, assunse un atteggiamento ambiguo, tenendo fermo in Abruzzo Pesercito per tutto quell'inverno e facendo continue e pressanti richieste di denaro. Quando nel gennaio 1440 gli Aragonesi conquistarono Aversa, Renato chiamò con urgenza il C. perché liberasse la città: egli rispose di essere a corto di denaro e minacciò anzi di passare al campo nemico se il re non l'avesse sovvenzionato e non si fosse recato di persona a rafforzare la fedeltà di molti dei suoi ufficiali, che sospettava si intendessero con Alfonso d'Aragona. Il C. forse cercava una giustificazione a un tradimento già deciso, sperando che l'occupazione della Terra di Lavoro da parte degli Aragonesi avrebbe impedito a Renato di accogliere la richiesta: ma l'Angioino il 30gennaio partì da Napoli con pochi uomini e, dopo una pericolosa marcia attraverso le file nemiche, toccando Nola, Benevento e Lucera (dove gli venne incontro il C. con lo zio Raimondo Caldora), giunse in Abruzzo. La risonanza che ebbe la coraggiosa impresa procurò al re calorosa accoglienza e solenni promesse di fedeltà da parte dei caldoreschi e del popolo abruzzese; Renato non poté però soddisfare le esigenze del C., che per iniziare l'offensiva chiedeva denari e viveri. Il C. pretese allora per sé la città di Sulmona; la ottenne, ma i Sulmonesi si ribellarono passando agli Aragonesi e sottomettendosi poi a condizione di poter restare uniti direttamente alla corona.
Nell'estate del 1440 il C. si piegò ad abbandonare con Renato l'Abruzzo per soccorrere col suo esercito Napoli, accerchiata dagli Aragonesi. Il 30 giugno 1440, ad Apollosa presso Benevento, si presentò un'occasione favorevole per attaccare l'esercito aragonese, nettamente inferiore alle truppe riunite del C. e di Renato: ma il C. eseguì così pigramente le manovre necessarie da permettere ad Alfonso d'Aragona di attestarsi sulle alture circostanti e poi, affermando di voler risparmiare ai suoi uno scontro, che presumeva troppo pericoloso, rifiutò di eseguire l'ordine dell'attacco impartito dal re. Renato sospettò il tradimento e, tornato a Napoli, fece rinchiudere il C. nel castello di Capuana, proponendogli di mantenere le sue ricchezze e le sue terre, al patto di trasmettere al re il comando delle truppe caldoresche. Il provvedimento, che, nonostante l'apparente clemenza, mirava a togliere al C. tutto il suo potere, essenzialmente basato sul mantenimento di un fortissimo esercito personale, si rivelò azzardato. Mentre uno dei condottieri del C., Rizo da Montechiaro, abbandonava Napoli con una parte delle truppe e otteneva da Alfonso d'Aragona il salvacondotto per ritirarsi negli Abruzzi, il resto dell'esercito si ammutinò minacciando di passare agli Aragonesi. Si rese necessario un compromesso, trattato da Raimondo Caldora che si fece garante per il nipote: Renato placò i soldati impegnandosi a pagare loro il soldo dovuto entro una settimana e il C. fu liberato dietro la promessa di ritirarsi in Abruzzo col titolo di viceré, lasciando a Napoli l'esercito. Ma, uscito da Napoli, il C. riunì tutte le sue truppe al ponte della Maddalena, e vani furono i tentativi dello zio Raimondo che, inviato immediatamente da Renato per convincere il C. a mantener fede agli impegni, tornò a Napoli con un nulla di fatto, portando anzi la richiesta formale del C. che fossero revocate le condizioni impostegli. Le esitazioni di Renato, che non rispose alla richiesta, spinsero allora il C. ad accordi con Alfonso d'Aragona. Le brillanti offerte che ricevette in seguito ai primi approcci furono confemiate nel corso di un incontro diretto fra i due in un bosco fra Arenzo e Arpaia: il C. ottenne facilmente da Alfonso il salvacondotto per tornare in Abruzzo, una tregua di otto mesi e dieci o quattordicimila ducati per pagare le truppe in cambio della consegna, da parte del capitano Santo, fedele al C., dell'assediata fortezza di Aversa. Nonostante le promesse del C., che giunse a offrire in pegno ad Alfonso il figlio Restaino, l'accordo ebbe breve durata. Le truppe del C. presero a razziare la campagna di Venafro, tanto che Alfonso dovette impiegare reparti di cavalleria per reprimerne gli eccessi. Quando poi Alfonso tolse Benevento a Francesco Sforza il C., le cui terre di Bari, conquistate dagli Aragonesi, erano state assegnate a Giovanni Antonio Orsini principe di Taranto, intavolò trattative con lo sconfitto in vista di un'azione comune per riconquistare entrambi i principati; alle voci dell'accordo si aggiunse la notizia che il C. radunava armate insieme con Giovanni Sforza. Alfonso mosse contro i due capitani verso Sergna, fedele al C.; questi si accampò a Pescolanciano mentre Alfonso fermò le truppe davanti a Carpenone. Proprio in questa città il C. conservava tutte le sue ricchezze e, nel timore di perderle, spinse Giovanni Sforza a un rischioso attacco. Alfonso, che era stato informato sulle forze e sui piani nemici dal condottiero Paolo di Sangro, passato a lui dal campo del C. la vigilia dell'attacco, ebbe facilmente la vittoria nella battaglia, che si svolse a Sassano il 28 giugno 1442.
Mentre lo Sforza riusciva a fuggire, il C., battutosi valorosamente, fu fatto prigioniero con gran parte dei suoi familiari e dei suoi capitani; ma ben presto, assieme a tutti i suoi, ottenne da Alfonso la libertà e la conferma di gran parte dei feudi abruzzesi. Incerta è però la misura reale del teatrale gesto di perdono di Alfonso che, dopo essersi fatto mostrare in Carpenone tutte le ricchezze del C., divenute sue per diritto di conquista, gliele avrebbe liberalmente restituite con le sue terre. Alfonso probabilmente lasciò al C. la materna contea di Trivento e i feudi più antichi della sua famiglia in Abruzzo, pretendendo però la rinuncia definitiva allerecenti acquisizioni paterne e al principato di Bari. Il C. dovette dare in ostaggio, come pegno della sua buona fede, il figlio Restaino e il nipote Giovanni Antonio. Comunque nello stesso anno si svolsero trattative tra Francesco Sforza e Pietro Paolo de' Corvi d'Adria, procuratore del C.: lo Sforza s'impegnò a dare il suo contributo per la difesa degli Stati di Renato d'Angiò, a non intralciare la riconquista del contado di Albi presso Catanzaro, a procurare affinché l'esercito del Sanseverino si affiancasse ai caldoreschi.
Dopo il trionfo di Alfonso, che entrò a Napoli il 26 febbr. 1441 il C. si trasferì a quanto sembra nella capitale; ma già il 5 aprile dell'anno successivo, quando Alfonso si ammalò gravemente e si sparse la falsa notizia della sua morte, tornò in Abruzzo col figlio Restaino, facendo sorgere il sospetto che volesse ribellarsi. Comunque non sembra che la sua fedeltà alla causa aragonese fosse in seguito messa in, dubbio da altri episodi, dato che dal 1444 al 1458 non ci restano sul C. notizie di rilievo, se non quella che partecipò al fianco di Alfonso nella guerra contro Firenze del 1452. È probabile che, come altri grandi signori del Regno, il C. abbia ripreso la tortuosa politica tendente a mantenere l'autonomia baronale appoggiando via via il più debole dei pretendenti alla corona solo dopo la morte di Alfonso, nelle intricate vicende che accompagnaronò la successione di Ferdinando d'Aragona. Già nel luglio del 1458, quando quasi tutti i baroni vennero a prestare obbedienza a Ferdinando e a partecipare al Parlamento fissato per il 25, il C. fu, assieme al principe di Taranto e a Giosa d'Acquaviva, fra i pochi che non si presentarono; approfittò anzi della situazione per stringere accordi con l'Acquaviva e con gli Aquilani e per impadronirsi di alcune terre abruzzesi che gli erano state tolte da Alfonso. Dovette intervenire Orfeo da Ricano ambasciatore di Francesco Sforza, ormai duca di Milano e alleato di Ferdinando; il 23 luglio il milanese si incontrò a Pacentro col C. e con Restaino che gli chiesero di essere ristorati dei dannisubiti da Alfonso e si scusarono con vari pretesti delle occupazioni già effettuate. Mentre il C. rafforzava l'esercito e faceva scorrerie sin sotto Venafro, Ferdinando si preparava a intervenire contro il riottoso feudatario finché, nel settembre, mosse l'esercito verso l'Abruzzo. Contemporaneamente il duca di Milano mandò al C. come ambasciatore Lanzaloto da Figino per convincerlo a trattare col re, minacciando in caso contrario l'intervento delletruppe milanesi. Il C. fu obbligato a concludere con Ferdinando un accordo con cui restituiva tutte le terre prese dopo la morte di Alfonso e otteneva in cambio il castello di Acri: il trattato fu siglato a malincuore da ambedue i contraenti, poiché il C. era fermamente intenzionato a riconquistare tutti i feudi paterni e Ferdinando desiderava vendicarsi del barone ribelle distruggendone definitivamente la pericolosa potenza.
Da questo momento in poi il C. seguì una politica estremamente ambigua e difficile a seguirsi in tutti i suoi momenti; mentre riceveva denaro dal principe di Taranto, pronto a ribellarsi da un momento all'altro, inviava presso il re il figlio con una compagnia; ma nel luglio 1459, mentre Ferdinando soffocava la ribellione di Venosa, Restaino otteneva di ritornare in Abruzzo, per la notizia, diffusasi come certa, che il padre era in puntodi morte. Ma già un mese dopo Ferdinando otteneva dal duca di Milano l'invio di 800 cavalli per tenere a freno il C., che probabilmente aveva diffuso ad arte nino la fama della sua malattia per poter allontanare il figlio dall'esercito aragonese, inprevisione dell'ingresso nel Regno di Giovanni d'Angiò. Il 21 novembre di quell'anno, poco dopo l'arrivo del pretendente (25 ott. 1459), messi del C. firmavano un accordo d'alleanza con l'Angioino; al trattato faceva seguito poco dopo (7 genn. 1460) la ribellione del principe di Taranto. Nel dicembre il C. iniziò le operazioni conquistando due terre di Marino Scapucino, restato fedele alla causa aragonese, ma dovette in un primo momento ritirarsi nel feudo di Pacentro presso Sulmona a causa del deciso intervento del conte d'Ariano e di Matteo di Capua. Intanto si preparava a scendere in Terra di Lavoro per unirsi a Marino Marzano principe di Rossano e a Giovanni d'Angiò: invano Ferdinando tentò di opporsi al movimento, ordinando il 23 dicembre a Matteo di Capua di inseguire i caldoreschi e proponendosi di muovere egli stesso per prenderli in mezzo. I caldoreschi, forti di 700 cavalli e di molte fanterie, erano allora giunti già in Terra di Lavoro, e tra l'8 e il 13 genn. 1460, unitisi all'esercito angioino, occuparono e devastarono le terre della Badia Cassinese, ritirandosi solo per tentare la riconquista di Calvi, caduta il 20 gennaio in mano al re. Riuscito vano il tentativo, il C. accompagnò il pretendente nel suo viaggio verso la Puglia ma ben presto, prendendo a pretesto vecchi rancori verso il principe di Taranto che si era impadronito dei suoi feudi baresi, preferì ritirarsi nuovamente a Pacentro, donde continuò per suo conto la guerra. Nell'aprile di quell'anno entrò in Abruzzo il Piccinino per portare aiuto a Giovanni d'Angiò, ma il C. lo trattenne per molti mesi in Abruzzo, spingendolo tra l'altro a conquistare la contea di Montodorisio e a cederla per 5.000 ducati al proprio nipote Giovanni Antonio; intanto, a seconda che le vicende militari volgessero a favore dell'una o dell'altra parte non si peritava - come del resto gli altri baroni - di mantenere contatti e trattative con Ferdinando, per potersi trovare al momento opportuno dalla parte del vincitore. Nel giugno 1461 il C. fu sconfitto presso Santo Spirito in Valva da Alessandro Sforza, cui aveva tentato di contrastare il passo negli Abruzzi e, mentre alla fine del mese successivo il Piccinino scendeva in Puglia per soccorrere Giovanni d'Angiò, bloccato in Lucera restò a difendere le sue terre dallo Sforza che aveva conquistato e messo al sacco il forte castello caldoresco della Lama. Solo nell'ottobre, quando gran parte dell'Abruzzo era stata riconquistata dagli Aragonesi, il C. scese in Terra di Lavoro, unendosi agli eserciti del principe di Rossano e del duca di Sora. L'inverno del 1461 e la primavera dell'anno successivo trascorsero inoperosi da una parte e dall'altra, e il C. probabilmente si ritirò di nuovo in Abruzzo. Dopo la ripresa delle ostilità nel luglio, e la rovinosa sconfitta di Troia del 18 ag. 1462, Giovanni d'Angiò si rifugiò presso il C., dove era insieme col Piccinino nell'ottobre; intanto, morto di peste nell'agosto Giosa d'Acquaviva, Matteo di Capua aveva cominciato ad indirizzare tutti i suoi attacchi contro il C., che riaprì ancora una volta i suoi negoziati con la corte aragonese. Ormai il C., insieme al Rossano e al Piccinino, era tra i più potenti alleati del pretendente, e nell'anno successivo le forze reali cominciarono a concentrarsi contro l'Abruzzo. Il Piccinino, stretto da Alessandro Sforza e da Matteo di Capua, si unì nel luglio col C. ad Archi, dove i due raccolsero vettovaglie e si fortificarono; ma, appena assaliti dallo Sforza, scesero a patti e il 7 agosto firmarono un trattato col condottiero, che si impegnò ad ottenerne entro dieci giorni la ratifica regia.
Non conosciamo esattamente le clausole dell'accordo che riguardavano il C.; certo è che esso era estremamente vantaggioso per il Piccinino, cui tra l'altro si facevano larghissime concessioni di feudi in Abruzzo e che veniva stipendiato a 90.000 ducati l'anno come condottiero aragonese. Ferdinando dovette mandare messi al C. per cercare di ridurre le esorbitanti pretese del Piccinino, che comunque complessivamente dovette accettare per gli effetti psicologici che avrebbe avuto l'accordo sugli Angioini, che di nuovo sembravano prevalere; né il calcolo fu errato, dato che bastò la notizia per frenare la ribellione baronale, che andava ovunque rinfocolandosi. Nello stesso agosto anche il principe di Rossano si pacificò col re; il 3 settembre il Piccinino e lo Sforza ratificarono definitivamente il trattato, e nel novembre l'improvvisa morte del principe di Taranto, con la conseguente occupazione da parte di Ferdinando dei suoi immensi possedimenti, consacrò il definitivo trionfo degli Aragonesi. Si avvicinava il momento in cui Ferdinando avrebbe vendicato gli affronti subiti dai baroni, tanto più che gli archivi del principe di Taranto, caduti in sua mano, dimostrarono la malafede con cui essi avevano firmato i vari accordi con la corte.
L'8 giugno 1464, quando ormai la definitiva partenza di Giovanni d'Angiò, avvenuta nell'aprile, gli dava mano libera, Ferdinando arrestò a tradimento e spogliò dei feudi il duca di Rossano, che lo aveva raggiunto su suo invito e sotto la garanzia del duca di Milano e del pontefice. Il C. comprese bene cosa significasse la sorte del suo vecchio alleato e, sordo alle rassicurazioni del re e del duca di Milano, nello stesso giugno prese a fortificare le sue roccaforti di Civita Luparella, Guasto, Trivento ed Acri; alla fine del mese il Piccinino, impaurito, lo abbandonò uscendo dal Regno con i suoi. Il 1º luglio Ferdinando entrò con l'esercito in Abruzzo e iniziò la metodica conquista delle terre del C., che si chiuse con tutte le sue ricchezze nell'inespugnabile castello di Civita Luparella; il 15 luglio, quando al C. restavano soltanto le roccaforti di Civita Luparella e del Guasto, l'Aragonese gli chiese la consegna delle fortezze promettendogli che gli avrebbe lasciato, su 29 feudi, Pacentro e Civita Luparella con le fortezze, altre venti terre non fortificate e tutte le entrate. Ma ormai la sfiducia reciproca era totale: il C. non credette che il re volesse tener fede alle promesse, e Ferdinando pose l'assedio a Guasto, difeso da Restaino. Il figlio del C. aprì le trattative, e nel settembre si era d'accordo che Guasto e Civita Luparella sarebbero stati temporaneamente ceduti al re, mentre la moglie e un figlio di Restaino, un figlio di Giovanni Antonio e uno del C. sarebbero stati dati in ostaggio. Ma sorsero nuove difficoltà quando i Caldora pretesero di cedere le fortezze al duca di Milano invece che a Ferdinando, e le trattative furono sospese. Il C. proseguì nella sua disperata resistenza fino al maggio del 1465. In quel tempo Raniero, fratello della seconda moglie del C., Margherita di Lagni, posto a difesa di Guasto, era riuscito a costringere Ferdinando ad allontanarsi per ristorare l'esercito malconcio, ma l'Aragonese, chiudendo tutti i passi, tentava di prendere la città per fame. Il C. riuscì allora ad entrare in Guasto con l'intento di incitare gli abitanti a resistere, ma si dovette rendere conto che essi erano ormai allo stremo delle forze; rassegnatosi alla sconfitta, inviò il figlio Restaino presso Ferdinando per trattare la pace. Ma intanto Giacomo Carafa stava trattando per conto del re con i cittadini che, per disperazione, si sollevarono contro il C., lo catturarono e innalzarono la bandiera aragonese. Il C., condotto prigioniero ad Aversa, fu liberato per intercessione del duca di Milano e in considerazione del fatto che la sua cattura era avvenuta mentre il figlio trattava la pace: consegnata al re anche Civita Luparella, dovette accettare la condizione di ritirarsi a vita privata a Napoli con la famiglia. Pensando tuttavia di non essere al sicuro, iniziò presto un lungo peregrinare: andato a Baia col pretesto di curarsi, si rifugiò, con una vera e propria fuga, a Roma, poi a Viterbo, infine a Fermo nelle Marche. Durante questo vagabondaggio non rimase del tutto inattivo: ancora nel 1477, a fianco del capitano Girolamo Novella, affrontò l'assalto che i Turchi comandati da Iskender Berg diressero contro i possedimenti veneziani. La battaglia si concluse con la vittoria turca e il C. figura nel folto gruppo dei prigionieri. Si stabilì finalmente a Iesi, ospite di un veterano di suo padre; qui, povero e dimenticato, morì in data sconosciuta.
Si spense con lui la grandezza della sua famiglia, che tanto aveva influito sui destini del Regno di Napoli, contribuendo a volte in modo sostanziale allo svolgimento delle lotte fra Angioini e Aragonesi. Gli immensi possedimenti del C. e dei suoi familiari furono dispersi e suddivisi; gran parte delle terre nella valle del Sangro, culla della famiglia, furono assegnate a Matteo di Capua, uno dei più validi strumenti di Ferdinando nella guerra contro il Caldora.
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