CANOVA, Antonio
Figlio di Pietro e di Angela Zardo "Fantolin" di Crespano, nacque a Possagno (Treviso) il 1º nov. 1757. Il padre, "lavoratore in pietra e architetto" (Bassano, Museo civico, ms. D 7-6022: "Biogr. anonima"), morì a ventisei anni, quando il C. non ne aveva ancora quattro. Essendosi la madre risposata poco dopo con il crespanese Francesco Sartori, il piccolo Antonio rimase a Possagno, affidato al nonno paterno Pasino, anch'egli valente scalpellino.
Pasino Canova era nato a Possagno il 16 aprile 1711 e si segnalava soprattutto in lavori di scultura per chiese e ville. Si ricordano di lui due Angeli in pietra nella chiesa parrocchiale di Monfumo, gli altari maggiori della chiesa di Thiene e di quella di Galliera Veneta; egli fece tra l'altro per la villa Falier ai Pradazzi di Asolo un rilievo in marmo con Madonna. Lavorò tra il 1766 e il 1768con G. Bernardi detto il Torretti, oltre che per la stessa villa, sempre in Asolo, per gli altari maggiori della chiesa di S. Vito e di quella di S. Angelo (portato poi nella cattedrale); a Crespano, per l'altare della parrocchiale, e a Possagno per quello della vecchia chiesa (Bernardi, 1938, p. 67). Morì a Possagno il 26 giugno 1794.
Pasino era un cattivo amministratore delle sue risorse e un uomo stravagante, il che procurava non poche mortificazioni all'animo assai sensibile del piccolo Canova. Ebbe però, pronta ed acuta, l'intuizione delle eccellenti disposizioni del nipote in fatto di lavorar la pietra, portandoselo appresso nei lavori della villa Falier. Fu così che Pasino, con l'autorevole appoggio del Falier, fece accogliere il ragazzo dal Bernardi nel suo studio nella vicina Pagnano, dove lo scultore era temporaneamente rientrato da Venezia. Non c'è dubbio che la prima esperienza ambientale del C., caratterizzata, oltre che dall'alta tradizione veneta degli artigiani lavoranti in pietra, anche dalla particolare natura dei luoghi, tra le colline e le Prealpi venete, abbia lasciato in lui un'impronta indelebile ("fanciullo, / al cupo rezzo dei castagni, antichi / qui s'assidea Canova, alla natura / la man tendendo desioso...": G. Zanella, Possagno, in Poesie, Firenze 1931, p. 7).
Quando il Bernardi Torretti, nell'autunno 1768, ritornò al suo studio veneziano, a S. Marina, il C. lo seguì secondo un contratto che gli assicurava vitto e alloggio, e, dopo sei mesi, 50 soldi al giorno ("Biogr. anon."). Il C. cominciò subito a frequentare alla sera l'accademia del nudo al "Fontegheto de la Farina" in bacino S. Marco. Morto il Bernardi nel febbraio 1773 (non 1774: v. atto di morte in Bernardi, 1938, p. 51) e passato lo studio al nipote Giovanni Ferrari, detto anch'egli Torretti, il C. vi rimase per alcuni mesi. Nel frattempo il nonno Pasino aveva venduto un piccolo podere il cui ricavato permise al C. di lavorare solo per metà giornata e di dedicare l'altra metà allo studio nella galleria di calchi di statue antiche e moderne che i Farsetti avevano aperto agli artisti nel loro palazzo sulla riva del Carbon, a Rialto. Prime opere veneziane del C. furono, su incarico del Falier, ma per il Farsetti, due Canestri di frutta (conservati al Museo Correr di Venezia). Dopodiché, nell'ottobre 1773, il Falier gli fece fare, per 45 soldi al giorno, due statue in pietra di Costozza di Longare, una Euridice, che il C. andò a modellare a Possagno accompagnato dal coetaneo scultore veneziano A. D'Este, anch'egli della scuola del Bernardi, e un Orfeo. Alle due statue il C. si dedicò per tre anni e le terminò a Venezia in uno studio affittato nel chiostro della chiesa di S. Stefano. Quando le due statue (anch'esse ora al Correr), vennero esposte alla "Festa de la Sensa" nel maggio dell'anno 1776, il successo fu enorme, e di qui si può datare l'inizio della grande avventura artistica del Canova con una produttività enorme di soggetti e relative copie che sono state più volte elencati dal C. stesso, dal Cicognara e dal Missirini, per cui ci si soffermerà qui solo sulle più significative, che pur sono molte.
Egli aprì subito, nel 1777, un suo studio a S. Maurizio, dove si dedicò alla esecuzione di un altro gruppo, di grandezza naturale, commissionatogli dal procuratore P. V. Pisani per il suo palazzo a S. Polo: Dedalo ed Icaro. Il 30 marzo 1779 il C. presentava all'Accademia veneziana, per esservi accolto come membro, un Apollo in terracotta (ora alle Gallerie dell'Accademia). Vi fu eletto il 5 aprile; e nel maggio successivo, sempre alla "Festa de la Sensa" esponeva il marmo del Dedalo e Icaro (ora Museo Correr) che, oltre a fruttargli i cento zecchini del Pisani, rivelò a tutti le grandi possibilità dell'artista. Accettata da L. Venier la commissione d'una statua del fisico-matematico marchese G. Poleni da porsi nel Prato della Valle in Padova (Neumayr, 1807, p. 250; ora al Museo civico), il C. progettò, nell'autunno seguente, una visita a Roma. Partito da Venezia nell'ottobre, il C., dopo brevi soste per visitare Bologna e Firenze, arrivò a Roma il 4 novembre in compagnia dell'architetto G. A. Selva, dell'incisore P. M. Vitali e del pittore fiammingo P.-J. Fontaine ("Biogr. anon.", Quaderni, p. 27). Questo soggiorno, durato fino al giugno 1780, sarà per il C. fondamentale, ricco di esperienze artistiche, culturali, umane.
Ospitato dall'ambasciatore veneto G. Zulian a palazzo Venezia, il C. dedicherà le sue giornate intensamente, fin dall'arrivo, alla visita dei monumenti e delle opere d'arte antiche e moderne. G. B. Ponfreni, che è il direttore della Pontificia Officina dei mosaici, procura a lui e al Fontaine il permesso di lavorare ai Musei Vaticani, ed il C. inizia subito copiando l'Apollo del Belvedere; poi, a causa del freddo, si sposterà soprattutto al Campidoglio e all'Accademia di Francia. Per qualche tempo lavora anche nello studio di P. Batoni. Tutto viene annotato nel suo diario dalla ortografia approssimativa. Ma lo Zulian gli mette nel frattempo a disposizione il suo segretario abate G. Foschi perché gli faccia apprendere bene l'italiano, nonché l'inglese e il francese, gli legga i classici greci e latini, lo istruisca nella mitologia.
Tramite l'ambiente dell'ambasciatore Zulian e dei Rezzonico, nipoti del defunto Clemente XIII (il cardinale Carlo, il senatore di Roma Abbondio, il procuratore veneto Ludovico), il C. si trova a familiarizzare con gli artisti italiani (fra cui il forte nucleo dei veneti) e stranieri, galvanizzato dalla riscoperta dei valori dell'antichità classica cui il Winckelmann aveva dato avvio determinante, sia a villa Albani sia in Vaticano, e che aveva trovato le più puntuali interpretazioni nel Mengs. Si lavora in quegli anni ai Musei Vaticani per l'ampliamento del Pio Clementino, mentre l'archeologo pontificio G. B. Visconti, con l'aiuto del figlio Ennio Quirino, ne sta preparando la illustrazione. Il mondo degli artisti è in attività fervida, ma anche animato da rivalità: di esse fa le spese lo stesso C. perché il suo arrivo è stato preceduto dalla fama che egli disdegni lo studio delle opere dell'antichità preferendo l'ispirazione diretta della natura.
Il 28 dic. 1779 il senatore Abbondio Rezzonico inaugura con un fastoso banchetto la nuova sala di musica nel palazzo senatorio in Campidoglio affrescata da G. Cades. Oltre a questo, all'incisore G. Volpato, allo scultore G. Angelini, il C. vi incontra Gavin Hamilton. Inizia subito un'amicizia che sarà per lui decisiva. Hamilton è pittore mediocre, seguace del Mengs, ma appassionato ricercatore di pezzi antichi, di gusto fine e di sagace giudizio. Intanto l'ambasciatore Zulian insiste perché il C. segua i dettami della vigente scuola romana, pedissequa imitatrice dell'antico, ma il giovane ha le sue convinzioni. Forte dell'esperienza veneta, spinto da inclinazione istintiva, è convinto che non si deve copiare scolasticamente e quindi con freddezza, ma "consultare i capi d'opera per studio, confrontandoli con la natura, per quindi rilevarne i pregi e servirsene all'uso proprio, e formarne poi un tutto che servir possa al soggetto che si vuole esprimere, come hanno praticato i Greci, scegliendo dalla natura il più bello" (D'Este, 1864, pp. 20 s.).
Se è capace di passare le ore sotto la sferza del vento per copiare un bassorilievo dell'arco di Costantino, se riempe fogli e fogli (ventiquattro disegni al Museo civ. di Bassano) a studiare i Dioscuri di Monte Cavallo e la raccolta Ludovisi, il C. dedica anche intere settimane ai dipinti della Sistina. Con il Selva, dal 22 gennaio al 28 febbr. 1780, fa un viaggio a Napoli, dove è accolto dal residente veneziano e da Contarina Barbarigo (che qualche settimana dopo egli accompagnerà anche nelle visite romane). Ammira colà opere d'arte antiche e moderne e gli scavi in corso, iniziati da Carlo di Borbone, a Minturno, a Ercolano, a Pompei, a Paestum. Tornato a Roma, scrive il 4 marzo 1780 all'amico coetaneo B. Renier, tutto entusiasta, soprattutto dei bronzi ercolanensi raccolti al Museo di Portici (Lettere, 1833, p. 18).
L'attività romana del C. convince vieppiù l'ambasciatore Zulian che il giovane potrà dare il meglio di sé attraverso una più stabile dimora a Roma, e pertanto si fa promotore di una istanza presso il Senato veneto per la concessione di una pensione. Intanto, il 1º giugno 1780, arriva a Roma il gesso del Dedalo e Icaro. Il 4, Hamilton, Volpato, Cades, Angelini, G. L. Bianconi sono invitati dallo Zulian a vederlo; al C. interessa soprattutto il giudizio di Hamilton, "essendo uomo molto ingenuo, e intendissimo della buona strada" (Quaderni, p. 137).I consensi generali convincono lo Zulian, che lascia partire il 22 giugno il C. con l'intesa che per il momento vada a chiudere lo studio veneziano, dove tra l'altro deve ultimare la statua del Poleni.
Il C. ritorna a Roma nel dicembre successivo, ancora nel palmo dell'ambasciatore veneto che, su suggerimento di Hamilton, lo induce a scegliere un tema per un gruppo in marmo. Il giovane si accinge così al Teseo vincente sul Minotauro. Nel frattempo anche il senatore Rezzonico gli commissiona un Apollo che s'incorona (Parigi, Galerie Charpentier), in gara con l'Angelini che fa una Minerva. Il Teseo è terminato prima dell'aprile 1783; nel frattempo, il 2 dic. 1781, il Senato veneto aveva decretato al C. la pensione triennale di 300 ducati in argento annui.
Al modello del Teseo ilC.s'era preparato "con quel gusto e con quella assiduità che deve porvi un uomo, il quale vede che da questo lavoro dipende la sua fortuna", come egli scriveva a Giuseppe Falier il 2 giugno 1781 (Cicognara, 1823, p. 79).Con questo il C. aveva scambiato consultazioni anche sull'interpretazione da dare al racconto di Ovidio, non sentendosi del tutto sicuro della traduzione italiana cui era ricorso (il Teseo era armato di clava o di spada?). L'opera non piacque al direttore dell'Accademia francese L.-J.-Fr. Lagrenée, che le preferiva lo stile del Dedalo, mentre fu senza esitazioni favorevole il giudizio non solo di G. Hamilton ma di uno cui il C. si legherà d'una amicizia che durerà tutta la vita, di A. Quatremère de Quincy, studioso francese di belle arti che conobbe il C. proprio andando a vedere nel suo studio il Teseo: un giorno egli ne avrebbe scritto che era "le premier exemple donné à Rome de la véritable résurrection du style, du système et des principes de l'antiquité" (1834, p. 33).In anni napoleonici (1809)la Teotochi Albrizzi interpreterà questo Teseo come l'incarnazione dell'eroe che riscatta i connazionali (Opere di scultura di A. C., I, p. 62).Il gruppo, che fu riprodotto in incisione da R. Morghen, fu venduto dal C. qualche anno dopo (1786)per la bella cifra di 1.000 zecchini al conte J. von Fries per il suo palazzo di Vienna (ora al Victoria and Albert Museum di Londra). Quando nel 1787 Angelica Kauffmann farà il ritratto di von Fries, vi porrà sullo sfondo il Teseo canoviano.
Il successo del Teseo risultò infatti determinante per la fortuna dell'artista a Roma e oltr'alpe. Nel 1783 il C., che già due anni prima aveva sciolto il fidanzamento con una certa Laura di Possagno, ebbe una delusione amorosa da Domenica Volpato ("una che è una bellezza": Quaderni, 1959, p. 58), con cui si era fidanzato, ma che lasciò quando scoprì che amoreggiava col Morghen. Nello stesso anno il C., proprio tramite il Volpato, ebbe da monsignor C. Giorgi la commissione del Monumento a Clemente XIV per la basilica dei SS. Apostoli in Roma, eseguito nel suo nuovo studio privato in via S. Giacomo, dove s'era trasferito, cessata la pensione del Senato veneto. Il monumento fu inaugurato nell'aprile del 1787, il sabato in albis.
Anche dell'impegno per questa importante impresa sono documento le corrispondenze con gli amici veneti (Martinelli, Falier, Renier), accompagnate dai relativi disegni. Né mancava di dare costanti consigli al C. da Parigi, dove era rientrato stabilmente, il Quatremère. Il Batoni da parte sua aveva ammonito il C. a tener ben presenti i più celebri sepolcri papali (del Della Porta, del Bernini, dell'Algardi, del Rusconi): il problema era quello di contemperare la struttura architettonica dell'insieme, per la quale il C. aveva costruito nello studio un'impalcatura in legno, con le tre statue, del Pontefice sovrastante il sepolcro, della Mansuetudine e della Temperanza. Nonostante alcune critiche degli architetti, il successo non si manifestò solo nella grande affluenza di folla incuriosita: il severo Milizia scriveva il 17 apr. 1787 allo Zulian, ora ambasciatore a Costantinopoli, che "le tre statue paiono scolpite ne' più bei tempi della Grecia per il disegno, per l'espressione, pei panneggiamenti... Dunque opera esecranda per i Michelangiolisti, per li Berninisti, per i Borroministi, per i Marchionisti" (Missirini, 1825, pp. 44 ss.).Del monumento fece l'incisione il Vitali. Per onorare il C. di un tale successo la cittadina di Asolo, dove egli aveva fatto le sue prime prove, lo ascrisse nelle sue liste nel 1789.
Per ristorarsi della fatica di questa impresa il C. si recò a Napoli dove trascorse un mese e dove il col. Th. Campbell (futuro lord Cawdor) gli commissionò un gruppo con Amore e Psiche. Intanto il sen. Rezzonico gli aveva, per parte sua, commissionato il monumento allo zio Clemente XIII, in S. Pietro (vedi lettera del Quatremère del 30 maggio 1785: Bassano, Mus. civ., ms. II, 159-1680). A questa opera il C. diede inizio ai primi del settembre 1787, dopo aver eseguito vari bozzetti. Questa volta il C. doveva misurarsi direttamente con gli altri celebri sepolcri papali della basilica vaticana.
Il monumento a papa Rezzonico venne inaugurato il 6 apr. 1792, alla presenza di Pio VI. Era la settimana santa, e, come d'uso, il giovedì e venerdì santo, a sera, si accendeva la gran croce nella basilica, sicché l'effetto per il monumento fu spettacolare. Per sentire i commenti il C. stesso si era mescolato tra la folla vestito da abate pitocco. Il papa se ne complimentò, il pubblicista G. G. De Rossi, direttore dell'Accademia portoghese in Roma, ne tessé l'elogio in una Lettera astampa al canonico casalese I. De Giovanni (Bassano 1792);R. Morghen ne fece l'incisione. Un grande amico del C., P. Giordani, ravviserà più tardi, nel Panegirico canoviano, nella figura del mite pontefice che tiene la tiara non più in capo ma collocata a terra, mentre egli prega in raccoglimento, l'espressione più sincera d'una fede che anche nel capo della Chiesa testimonia il senso non del potere, ma della miseria umana e nel contempo della dedizione sublimante (Opere, IX [II], p. 64).
Nel frattempo, la fama del C. era cresciuta a tal punto che, a dire del Quatremère (nella citata lettera del 30 maggio 1785), anche a Parigi "negli fogli publici s'è reso conto del suo ultimo modello". Arrivavano perciò le molte commissioni: nel 1789 il C. porta a termine due statue di Amorini uno per la principessa Lubomirska (ora nel castello di Lańcut in Polonia) e uno per il colonnello Campbell (oggi Anglesey Abbey, National Trust: per questa e le successive versioni, vedi Honour, in Catal., 1972, pp. 200 s.); infine nel 1792 una Psiche fanciulla per il collezionista H. Blundell (cfr. ibid., pp. 202 s.). Il modello dell'Amore e Psiche giacente, per il Campbell, che era stato ispirato da un affresco di Ercolano con baccante abbracciata da un fauno, ed eseguito in un momento di reazione ad alcune critiche circa una certa freddezza del Teseo, era invece già terminato nel 1787: il C. finirà il gruppo marmoreo solo nel 1793, quando il Campbell non sarà più in grado di tenere fede all'impegno. Lo acquisterà poi Gioacchino Murat (ora al Louvre).
Questo famoso gruppo, per il quale il C. si attenne al racconto di Apuleio, ispirerà una delle più, belle odi di J. Keats (Ode toPsyche, 1819: "Surely I dreamt to-day, or did I see the winged Psyche with awaken'd eyes?"). Molti inglesi affluivano in quegli anni nello studio del C.; fra essi John Flaxman, al quale l'artista si legherà di salda amicizia, e nel 1793 R. Westmacott; mentre l'architetto H. Holland faceva prendere contatti col C. dai suoi allievi che egli inviava in Italia (nel 1794, Ch. H. Tatham). Questi inglesi, come tutti gli stranieri che visitavano Roma, erano anche alla caccia di pezzi antichi di cui era smaniosa la società londinese, ed il C. non mancava di aiutarli, attingendo anche alla collezione Piranesi (Th. Ashby, Th. Jenkins in Rome, in Papers of the British School at Rome, VI [1913], p. 505); c'era l'editto del camerlengo del 1750 che vietava l'asportazione di pezzi antichi, ma il commercio era sempre fiorente e alimentava soprattutto l'attività dei vari copisti e restauratori. Più tardi il C. stesso si sarebbe adoperato perché fosse più severo il controllo.
In quegli stessi anni il C. si esercita anche nel bassorilievo: si fa leggere e rileggere, mentre lavora con lo scalpello, Omero e altri classici greci e gli studi su di di essi (vedi lettera al Cesarotti dell'8 febbr. 1794 in Cicognara, 1823, p. 89 e lettera del Toaldo al C. del 21 ag. 1794, in Valmarana, 1854, pp. 8 s.) per comporre pannelli famosi: La morte di Priamo,Achille che restituisce Briseide,Telemaco che ritorna in famiglia, Socrate che beve la cicuta,Socrate che congeda la famiglia,Socrate morente sotto lo sguardo di Critone e altri. Questi bassorilievi, rimasti solo allo stadio di gessi (ora nella Gipsoteca di Possagno), contribuiranno un giorno all'entusiasmo dei romantici del Conciliatore milanese per il C. (vedi tra gli altri il Borsieri nel n. 28 del 6 dic. 1818, e il Montani nell'Antologia dell'ottobre 1825).
Nel contempo il C. riprende a cimentarsi anche nella pittura: già a Venezia infatti, aveva dipinto il Ritratto di A. Svajer (ora Museo Correr); del 1790 è il noto Autoritratto degli Uffizi; del 1792, il Ritratto di ignoto con pelliccia (a Possagno).
L'impresa per il Rezzonico aveva messo a dura prova le sue energie fisiche. Tra l'altro la compressione del trapano sulla zona bassa del costato, per l'esecuzione delle criniere dei leoni per il Monumento a Clemente XIII, gli procurò quella debolezza di stomaco che doveva tormentarlo per tutta la vita. Agli inizi del maggio 1792 il C. fa un viaggio col D'Este, nel Veneto. Si ferma a Venezia alcuni giorni, accolto dallo Zulian, poi a Bassano, ospite del Rezzonico, a Crespano, a salutare la madre, e di qui, scortato dai compaesani in festa, alla natia Possagno. Ma già prima che egli lasciasse Roma, l'amico Giuseppe Falier lo aveva informato (28 apr.) che, avendo il Senato veneto decretato di onorare la memoria dell'ammiraglio Angelo Emo, si pensava di affidare l'esecuzione del monumento al C. (D'Este, 1864, pp. 383 s.). Ritornato a Venezia in giugno, il C. ricevette l'incarico ufficiale del monumento: ne fece il primo schizzo già sulla via per Padova su un burchiello sul Brenta.
Nelle tappe successive, a Padova, a Vicenza (acclamato in teatro), a Verona (prelevato dall'albergo), a Mantova, a Parma (ospite del Bodoni), a Modena, a Bologna, ovunque fu manifesta la celebrità oramai raggiunta dallo scultore. Ma nel frattempo egli ha visto anche volatilizzarsi, per la disonestà di un notaio romano, i guadagni realizzati che in parte impiegava per il nonno Pasino, per la madre e per il mantenimento nel seminario di Padova del fratellastro G. B. Sartori. Essendo il notaio fuggito abbandonando la famiglia, il C. cercò nondimeno di aiutarla.
Nell'ultimo scorcio del 1794Caterina II di Russia cerca di far venire il C. a Pietroburgo. Nonostante le esortazioni del senatore Falier, il C. rifiuta perché troppo amante della libertà e pago dell'onorevole invito. In cambio, il C. scolpirà per l'emissario dell'imperatrice, conte Jusupov, una seconda versione dell'Amore e Psiche giacente (ora a Leningrado, Ermitage). Per lo Zulian, in segno di riconoscenza per l'antica protezione, fa la replica della Psiche fanciulla (fu acquistata invece da G. Mangilli e non se ne conosce l'attuale ubicazione: Honour, in Catal., 1972, p. 203).
Tra il 1794 e il 1795 il C. porta a termine l'Adone che si congeda da Venere per il marchese F. M. Berio di Salza (ora villa La Grange, Eaux-Vives, Ginevra); se ne sente soddisfatto, ma confessa al Foschi di dover percorrere ancora "immenso spazio... per giungere alla perfezione" (Bibl. canov., 1823, I, p. 86).
Ma intanto i riflessi dell'arte canoviana si manifestavano anche tra i letterati. A Saverio Bettinelli, il quale nel 1793aveva esaltato il C. nelle sue Lettere XX di una dama, affermando ch'egli aveva superato "i prodigi del Greco e del Romano scalpello", il comasco Carlo G. Della Torre di Rezzonico, un frugoniano residente a Napoli, scrisse invitandolo a venire ad ammirare l'Adone e Venere "per farne degne parole in prosa e, verso, cosicché vedesse l'Italia, che se risorgono nel suo beato seno gli emuli della Grecia nell'arti buone, non mancano eziandio pensatori e poeti che sanno tingere di grecanica venustà ed evidenza il nostro idioma" (Bibl. canov., 1821, 13 pp. 75s.). Il che è anche un saggio degli equivoci di certa letteratura di fine Settecento. Il motivo e l'accostamento saranno ripresi e chiariti, più tardi, in mutato clima civile e culturale, da P. Giordani.
Il C. lavorò all'Emo fino a tutto giugno 1795, dopo di che partì assieme al senatore Rezzonico per Venezia, dove lo raggiunse il monumento: esso fu posto non più in palazzo ducale ma all'Arsenale. Il Senato veneto, cui il C. si era rimesso quanto al compenso, gli decretò (19 sett. 1795) una pensione vitalizia di 100 ducati d'argento mensili e una medaglia di oro. A Padova il patrizio A. Capello lo volle onorare facendogli erigere un monumento (da G. Ferrari) in Prato della Valle (Neumayr, 1807, pp. 327-347). In occasione di questo viaggio il C. si recò anche a Bassano per occuparsi della stampa del Dizionario delle arti del disegno del Milizia (Bassano 1797; cfr. Bassano, Museo civico, fondo Remondini XV, II, 4000-01).
La medaglia fu consegnata solennemente al C. in Campidoglio dall'ambasciatore veneto P. Pesaro per il cui giovane figlio il C. farà il monumento funerario nella chiesa di S. Marco a Roma.
Nella illustrazione che il Tadini fece delle opere eseguite dal C. fino a tutto l'anno 1795 (Le sculture e le pitture di A. C., Venezia 1796, con la riproduzione del busto del C. fatto nel 1795 da A. D'Este ora in palazzo della Cancelleria Roma) è data come "si può dire ormai terminata" (p. 67) una Maddalena penitente acquistata poi dal conte G. B. Sommariva (Genova, Palazzo Bianco: vedi Honour, in Catal., 1972, p. 203).
Ammiratosi a Napoli il "genere grazioso" del C., fu il principe Onorato Gaetani d'Aragona a commissionargli il 22 apr. 1795 un gruppo del "genere forte": l'Ercole e Lica. "È una tragedia sublime, e la penna d'Euripide può invidiarla, a ragione, al vostro scalpello", gli scriveva il Cesarotti (Lettere di uomini illustri ad A. C., Bassano 1865). Per la loro composizione il C. studiò le Trachinie di Euripide, nonché l'Ercole di Seneca e le Metamorfosi di Ovidio. Ad un solo anno di distanza, il 2 apr. 1796, il C. ne ha già finito il modello in gesso "con incontro grande" (lettera alla Berlendis Renier, in Lettere, 1833, p. 30). Quando il Consiglio generale di Verona, per celebrare la cacciata dei Francesi nel 1799 chiese al C. un monumento, lo scultore pensò di offrire il gruppo (per altro non ancoraterminato) cui il Gaetani in seguito alle traversie politiche aveva dovuto rinunciare e che era stato richiesto anche dai Francesi che volevano vedervi un Ercole che "getta la Monarchia al vento". Rovesciando il significato, il C. proponeva: "non potrebb'essere Lica la licenziosa libertà?" (Ercole e Lica di A. C. che Verona acquistava..., a cura di G. Consolo, Padova 1839, p. 14). Ma l'imperatore Francesco ritenne che la città di Verona non dovesse sobbarcarsi a troppe spese dopo i danni subiti dalla guerra. Soltanto nel 1814 il gruppo sarà terminato e acquistato dal marchese Torlonia per 18.000 scudi (oggi a Roma, Galleria naz. d'arte moderna).
Il 16 apr. 1796 (Gualandi, 1868, p. 19) il C. aveva scritto al Selva: "se avessi parecchie mani tutte sarebbero impiegate"; il 5 nov. successivo gli comunicava di aver finito i modelli dei due Pugilatori Creugante e Damosceno (Lettere familiari, 1835, p. 17) per i quali si era attenuto al racconto di Pausania (terminati nel 1800, saranno acquistati dal nuovo papa Pio VII per i Musei Vaticani).
Siamo già dopo la prima campagna del Bonaparte in Italia. Il 19 febbr. 1797 fu firmato tra il Bonaparte e Pio VI il trattato di Tolentino, in virtù del quale gli Stati pontifici dovevano consegnare alla Francia preziosi manoscritti e opere d'arte. Il convoglio con le opere d'arte (tra cui il Laocoonte, l'Apollo del Belvedere, ecc.) lasciò Roma il 9 maggio 1797, nonostante che in Francia si fosse già levata la protesta dell'amico del C., Quatremère de Quincy (Lettres sur le projet d'enlever les monuments de l'Italie, Paris 1796), e che una petizione in tal senso fosse fatta da un gruppo di artisti francesi.
Nella primavera del 1797, a Venezia, la municipalità democratica sospese la pensione vitalizia all'artista: G. G. De Rossi scrisse una lettera di protesta al Bonaparte e questi non esitò a informare personalmente il C. (6 agosto) che egli aveva "un droit particulier à la protection de l'Arméed'Italie" e che avrebbe disposto in merito (in Malamani, 1911, p. 62). Nell'ottobre Venezia fu ceduta all'Austria, e il 28 dic. 1797 G. Falier scrisse al C. (D'Este, 1864, pp. 393 s.) che da tre mesi non riusciva ad avere sue notizie mentre a Venezia "crescono a dismisura le depredazioni" (il 13 dicembre tra l'altro erano stati rimossi e spediti in Francia i cavalli di S. Marco). Intanto il C. aveva finito il gruppo di Amore e Psiche, che gli era stato commissionato dal Murat (ora al Louvre).
Occupata Roma dal Berthier e instauratavi la Repubblica giacobina (febbraio 1798), la folla per poco non infranse, invadendo lo studio del C., il modello della statua di Ferdinando IV di Napoli, commissionatogli da quel re nel 1796. Due mesi dopo, creato a Roma l'Istituto nazionale, il C., che l'Accademia di S. Luca non aveva ancora deciso di accogliere tra i suoi membri, vi fu tosto nominato, ma, essendogli stato richiesto di giurare odio ai sovrani, se ne allontanò con la famosa frase: "mi no odio nissun". La vita a Roma gli appariva ora troppo inquieta. Così, mentre E. Q. Visconti diventava presidente dell'Istituto e uno dei consoli della Repubblica, il C. consegnava il suo studio alle cure del D'Este e riprendeva la via del Veneto (maggio 1798) assieme ai coniugi Giuli presso cui viveva. In quell'anno moriva l'amico, G. Hamilton.
A Possagno, accolto ancora una volta festosamente, il C. si dedicò a dipingere per la chiesa parrocchiale una grande Deposizione, da porsi su uno dei lati del coro. Interruppe il lavoro per qualche mese nell'estate, per recarsi con il Rezzonico a Vienna onde ottenere da quella corte il ripristino della pensione vitalizia. Vi fu accolto con gran cordialità e con l'invito di trattenervisi, mentre l'Accademia viennese lo eleggeva tra i suoi membri. Ma il C. pensava sempre alla possibilità di ritornare nello studio romano e rifiutò. Accettò invece (agosto 1798) la commissione da parte del duca Alberto di Sassonia-Teschen del mausoleo per la moglie Maria Cristina (morta il 23 giugno precedente) nella chiesa degli agostiniani di Vienna.
Verrà a sistemarlo nel 1805, dopo averlo modellato a Roma sfruttando un originario progetto per un sepolcro a Tiziano. La piramide e le varie figure componenti il sepolcro sono diversamente interpretate (Krasa, 1967-68), ma l'insieme del monumento è assai suggestivo e fu un ulteriore successo nella fama europea del Canova.
Da Vienna il C. seguì il Rezzonico in giro per la "Germania", con tappe a Praga, a Dresda, Berlino e Monaco dove poté ammirare le notevoli raccolte d'arte (v. gli appunti in Bassano, Mus. civ., H5-6088). A fine settembre era a Possagno per portare a termine la pala che i parrocchiani avevano deciso dovesse sostituire quella dell'altare maggiore. Quivi abbozzò anche la pittura di un Ercole in atto di uccidere i figli (ora al Museo di Bassano) ispiratagli dall'Eracle diEuripide, nonché un secondo Autoritratto (in atto di scolpire) e altri dipinti (Tre Grazie,Maddalena Venere con Amore, ecc.). Il C. passò poi l'inverno a Venezia, frequentando i salotti di Isabella Teotochi Albrizzi e di Giustina Renier Michiel, mentre l'avvenuta occupazione di Roma da parte delle truppe napoletane (novembre 1798) faceva pensare alla possibilità di un ritorno allo studio romano. Il C. si decise a partire solo nell'autunno del 1799, arrivando a Roma a fine novembre.
Proprio in quelle settimane E. Q. Visconti era partito per la Francia da cui non tornerà più. Ma il Visconti era un erudito e poteva trovare ora a Parigi ricchezza di materiale di studio; il C. era un artista che amava il quieto vivere e soprattutto, nonostante i legami affettivi e anche artistici costanti col Veneto, riteneva che solo a Roma la sua arte potesse trovare l'ambiente ideale ai fini dell'ispirazione. In questo concetto di una Roma depositaria dei valori dell'arte greca classica, con la connessa, inscindibile componente del "cielo mediterraneo", il C. si manteneva sulla scia non solo del Winckelmann, ma anche, consapevole o meno, del protoromanticismo e del neoclassicismo tedeschi (v. lettera di W. von Humboldt a Goethe, del 23 ag. 1804, in Goethes Briefwechsel mit Wilhelm und Alexander v. Humboldt, Berlin 1909, pp. 181-91).
Benché il clima di Roma sotto l'occupazione napoletana gli apparisse tutt'altro che soddisfacente, sì da non distoglierlo del tutto da qualche pensiero di ritorno a Venezia, dove il Selva aveva già ultimato il progetto d'uno studio a spese del governo austriaco che voleva l'artista sotto il suo patronato (lettera del C. al Selva del 15 febbr. 1800, in Lettere..., 1835, p. 24), il C. non lascerà più lo studio romano, in cui il D'Este oramai entrava come segretario-amministratore, se non per brevi assenze dovute a impegni di lavoro o per andare a ristorarsi nel suo paese. Fece perciò venire a Roma anche il fratellastro abate G. B. Sartori Canova e la madre, che però l'anno dopo preferì ritornare nel Veneto.
Ora Ferdinando di Napoli richiedeva la sua statua, anche se le circostanze che l'avevano ispirata erano del tutto mutate: sia per la riluttanza del C. a ritrarre personaggi viventi, sia per la voluta idealizzazione classicistica (il re con l'elmo di Minerva in capo), essa è una delle opere più discutibili del Canova (terracotta, Napoli, Museo Filangieri; marmo, ibid, Museo Archeol. nazionale). A Venezia invece arrivava prima della fine dell'anno 1799 l'Ebe per il conte Albrizzi, alla quale il C. lavorava dal 1796 (Gualandi, 1868, p. 19):l'opera, oggi a Berlino Est (Staatliche Museen), ispirò sonetti al Pindemonte ("O Canova immortal, che addietro lassi / L'italico scalpello, e il greco arrivi... "Bibl. canov., 1821, IV, p. 21)e al Cesarotti (ibid., p. 20); V.Barzoni (Venezia 1803)ne fece l'illustrazione (per le altre versioni dell'Ebe: Leningrado, Ermitage; Chatsworth; Forlì, Pinac. comun., eseguita nel 1817 per la contessa Guarini, vedi Honour, in Catal., 1972, p. 205).
Il 5 genn. 1800 l'Accademia di S. Luca, essendone principe il Pacetti, decise finalmente di accogliere il C., ancorché le solite gelosie cercassero di colpirlo con la taccia di giacobino: aveva già accettato commissioni dal Murat, ed ora cedeva a Giuseppina Beauharnais una replica dell'Amore e Psiche in piedi (ora all'Ermitage); per di più veniva male interpretata la sua ritrosia a rendere omaggio al nuovo papa Pio VII, eletto a Venezia ed entrato a Roma il 3 luglio 1800; quando però si decise ad andare in udienza, tra i due si stabilì, tramite anche il Consalvi, segretario di Stato, una reciprocità di veri affetti destinata a durare le rispettive vite.
Nello stesso anno 1800 il pittore G. Bossi, segretario dell'Accademia milanese, in associazione con altri concittadini, chiese al C. il Perseo. Quand'esso fu ultimato, nell'aprile 1801, e nell'attesa che il Bossi, trattenuto a Parigi, lo facesse pagare, Pio VII ne vietò l'esportazione dallo Stato pontificio e ne ordinò l'acquisto per i Musei Vaticani. Nel 1806 il C. farà una replica del Perseo per la principessa Tarnowska (vedi Raggio, 1969; Kaczlarzyk, 1969).
Dopo il 18 brumaio il Quatremère, costretto alla clandestinità dal Direttorio, era stato richiamato dal Bonaparte a riprendere l'attività di studioso. Ricominciava così anche il carteggio tra lui e il C. il quale voleva notizie sull'arrivo nella capitale francese dei due gruppi d'Amore e Psiche per il Murat e del gesso d'uno dei due Pugilatori: egli avvertiva che Parigi stava diventando anche il maggior centro culturale d'Europa, e quindi lo interessavano critiche e apprezzamenti (lettera del C. del dicembre 1801: Parigi, Bibl. Naz., Mss. It., XIV, 1-3;e del Quatremère del 12 apr. 1803: Valmarana, 1854, p. 16).Il 18 ag. 1802 il Visconti, nominato dal Bonaparte direttore del Museo di antichità del Louvre, scriveva al C. che Giuseppina aveva deciso di acquistare una copia dell'Ebe (ora all'Ermitage di Leningrado) e che il primo console, viste le statue canoviane del Murat, voleva anch'egli qualcosa di sua mano (Boyer, 1969, p. 127). Pochi giorni dopo, infatti, l'ambasciatore a Roma, Cacault, invitava lo scultore a recarsi a Parigi per il ritratto del Bonaparte. La resistenza del C., memore dell'offesa fatta alla Repubblica veneta fu superata grazie all'intervento del Consalvi, artefice del concordato del 15 luglio 1801, e di Pio VII, in vista di un ulteriore riavvicinamento con la Francia; ma è anche vero che nel 1801 il C. avrebbe accettato di preparare per il foro Bonaparte di Milano una statua di Napoleone, sia pure nelle sembianze di un Marte pacificatore (Boyer, 1969, pp. 131 ss.; il bozzetto fu distrutto: Honour, in Apollo, 1973, p. 184 n. 8). Il C., partito da Roma il 22 settembre, arrivò a Parigi dopo quattordici giorni e venne ospitato nel palazzo del nunzio pontificio Caprara. Fu ricevuto dal primo console ai primi di ottobre e a metà mese incominciarono le sedute, in familiarità con i coniugi Bonaparte, a Saint-Cloud, durante le quali il C. eseguì in creta un Busto di Napoleone (distrutto): da esso fu fatto a Parigi un gesso del quale si hanno due esemplari, uno a Possagno e uno all'Accademia di S. Luca a Roma. Un terzo gesso, sempre a Possagno, fu probabilmente tratto da uno dei precedenti: rappresenta il primo console senza divisa e fu probabilmente eseguito a Roma dopo che il C. aveva firmato (10 genn. 1803), con il Cacault, il contratto, il quale specificava che la statua doveva avere le proporzioni dell'Ercole Farnese, e rappresentare il primo console nudo con clamide su una spalla, una vittoria in una mano e lancia nell'altra (per le lunghe vicende della statua si veda Boyer, 1969, pp. 132 ss.; Honour, in Apollo, 1973).
Nelle lettere al D'Este il C. lo informava da Parigi anche dei conversari col primo console e con la Beauharnais, ai quali non nascondeva l'amarezza per la sorte di Venezia, per l'asportazione di tanti valori dall'Italia, per la depressione economica dello Stato pontificio, né la necessità di sovvenire agli artisti che lavoravano a Roma. Attraverso l'amico Quatremère poté in quei mesi penetrare nel mondo artistico parigino e riprendere contatto con alcune vecchie conoscenze dell'Accademia francese di Roma: rivide il Fontaine, il David (Honour, in Apollo, 1972), strinse amicizia, tra gli altri, con F. Gérard (che gli fece il ritratto, oggi nel Musée de la Légion d'Honneur). L'Institut national lo nominò tra i suoi membri, mentre il Bonaparte gli faceva ogni lusinga perché si stabilisse a Parigi.
Deciso a rientrare a Roma, il C. ripartì da Parigi il 30 novembre, fece tappa a Lione presso il cardinale Fesch, zio del Bonaparte, a Milano, ospite del Murat, del Melzi d'Eril, vicepresidente della Repubblica italiana, e dell'amico Bossi (l'Appiani approfittò dell'occasione per farne il ritratto). A Firenze fu accolto solennemente da Ludovico di Borbone re di Etruria. Con questo viaggio il C. era divenuto l'artista ufficiale del regime francese.
Il suo rientro a Roma fu festeggiato da un pranzo in casa di Angelica Kauffmann in cui gli artisti romani offrirono al C. un'incisione su disegno di V. Camuccini raffigurante Roma seduta a lato del Tevere nell'atto di incoronare il Canova.
Mentre il C. era a Parigi, Pio VII, che agli inizi del 1802 aveva promosso il C. cavaliere dello Speron d'oro, con chirografi del 10 agosto e 1º ott. 1802, aveva disposto (Bull. Rom. Pius PP. Sept., CLXVI, pp. 414 ss.) la proibizione di esportare da Roma quadri e qualsiasi pezzo, anche frammentario, antico, nonché la nomina del C., "emulo dei Fidia e dei Prassitele", a ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con sovrintendenza ai musei Vaticano e Capitolino e all'Accademia di S. Luca. La disposizione era peraltro frutto del trauma suscitato a Roma, anche negli ambienti artistici stranieri, dall'asportazione dei capolavori in Francia, e il C. stesso si era fatto portavoce della necessità di salvaguardare quanto rimasto. Ciò veniva a colpire non pochi interessi, quelli dei vari scultori-restauratori, mercanti, e delle casate che, dissestate dalle traversie politiche, cercavano di rimediare alle finanze con la vendita dei loro tesori d'arte. Fu così che il C. decise di acquistare gli ottanta cippi della famiglia Giustiniani per donarli ai Musei Vaticani, dando così l'avvio al "lapidario Chiaramonti" (Missirini, 1825, p. 149: il grosso della raccolta Giustiniani prenderà definitivamente la via di Parigi nel 1808). In questi anni Pio VII faceva sistemare l'obelisco di piazza del Quirinale col gruppo di Monte Cavallo e il C. pubblicò una dissertazione sul gruppo ritenendo che i due colossi fossero i "Castori" (cioè i Dioscuri: Congettura del C. sopra l'aggruppamento dei colossi di Monte Cavallo, Roma 1802). Con bolla del 4 aprile del 1804 il pontefice nominerà poi l'artista direttore perpetuo dell'Accademia del nudo. Quanto alle lamentele dei restauratori e venditori, il C. concordò col Consalvi di sopperire alle loro difficoltà facendo acquisti per i Musei Vaticani, e a tal fine furono destinati 10.000 scudi annui della cassa dei lotti. Al D'Este fu affidato l'incarico delle singole trattative su delega del Canova. Ne conseguì anche l'incremento regolamentato degli scavi e dei restauri dei monumenti (v. lett. del 23 luglio 1803 al Francesconi, in Guerrini, 1922, p. 172). Durante la settimana santa del 1803 si presentava nello studio del C. lord Elgin con disegni, calchi, e anche qualche frammento del Partenone per chiedergli l'opera di restauro e il C. gli diede la famosa risposta che sarebbe stato "sacrilegio" metter le mani su quei capolavori (W. Hamilton, Memorandum... of the Elgin Marbles, London 1816, p. 39). La presa di posizione era importante: in Germania, nel 1778, Ch. G. Heyne e J. G. Herder, esaltando il Winckelmann, non si erano lasciati sfuggire l'attacco contro gli artisti romani, il Cavaceppi in particolare, per gli arbitrari restauri di opere antiche a scopo di lucro (A. Schulz, Die Kasseler Lobschriften auf Winckelmann, Berlin 1963, pp. 25, 44). E invece il Thorvaldsen non esiterà ad accogliere da Ludovico di Baviera la commissione del restauro dei marmi di Egina.
La statua "colossale" del Primo console impegnò non poco l'artista a Roma. Tra l'altro egli dovette oramai ampliare lo studio acquistando tutto l'isolato compreso tra via delle Colonnette, via Ripetta, via S. Giacomo e via della Frezza: squadre di lavoranti vi erano impiegate sotto la sua guida (Honour, in Burl. Mag., 1972, pp. 214 ss.).Nel luglio 1803 il gesso del modello (ora disperso) era esposto nello studio (un bozzetto preliminare in gesso è conservato nel Museo Revoltella di Trieste). La statua fu pronta alla fine di agosto 1806. Nell'ottobre fu esposta ai visitatori dello studio canoviano. Se ne diffusero subito le stampe e le critiche non mancarono, soprattutto per il fatto che Napoleone vi figurava nudo. Il fatto è che, come già per il Ferdinando di Napoli, e poi per il Francesco d'Austria, e per il Washington, il C. riteneva più consono al concetto di bellezza ideale il nudo, oppure l'abbigliamento antico che non quello contemporaneo. Ma se nel caso delle tre statue suddette risulta pur palese un certo anacronismo, in quello della grande statua napoleonica, lo scultore, mirando colla migliore ispirazione al confronto coi nudi della classicità, trascendeva la personalità del soggetto e conseguiva appieno la nobiltà e vitalità del concetto (ne concordava anche il Visconti: D'Este, 1864, p. 321). Quando il 2 febbr. 1808 le truppe del Miollis rioccuparono Roma, l'eco dell'ammirazione per la statua si propagò in tutto l'Impero. Solo agli inizi del 1811 essa arrivò a Parigi, mentre contemporaneamente giungeva a Milano la fusione in bronzo, eseguita dal Righetti, che era stata ordinata dal viceré Eugenio: ma né l'una né l'altra furono esposte al pubblico (il marmo fu acquistato nel 1816 dal governo inglese e donato al vincitore di Waterloo: Londra, The Wellington Museum, Apseley House; il bronzo è nel cortile di Brera: Honour, in Apollo, 1973, con bibl.). Nel 1803 il C. fu accolto anche nell'Accademia dell'Arcadia col nome di Mirone Eleutrio.
Nel 1804 l'Accademia di Belle Arti di Milano nominava suo socio il C. assieme al David e al Quarenghi: ad essa dava allora tutte le sue energie per fornirla del miglior corredo didattico il Bossi che ricorreva anche al C. per avere calchi di opere antiche. Nello stesso anno la contessa di Albany volle affidare allo scultore, con l'influente intervento del Consalvi, il Monumento funebre di V. Alfieri, morto nell'ottobre dell'anno precedente. Il C., tutto preso dai molti impegni, pensava ad un bassorilievo, ma la nobildonna voleva un sepolcro con statue a tutto tondo, offrendo la non cospicua somma di 12.000 scudi; l'artista finì col cedere, ma il monumento fu pronto solo nel 1810.
Ma il 1804 è soprattutto l'anno in cui (nel maggio) il Bonaparte è proclamato imperatore, e nel dicembre Pio VII intraprende il viaggio a Parigi per l'incoronazione: al C., quale ispettore delle arti, è affidato il compito di acquistare i regali per la famiglia imperiale (Arch. dei Musei Vaticani, cart. I). Con l'occasione il C. invia in omaggio all'imperatore il Busto di Pio VII, cui aveva lavorato l'anno precedente (oggi Versailles, Musée d'Histoire: cfr. Honour, in Apollo, 1972, p. 317 n. 22; nel 1806 il C. ne farà un'altra versione, ora in Campidoglio). Intanto sul Moniteur parigino il Quatremère de Quincy aveva pubblicato (agosto 1804) una prima Notice illustrante tutta l'opera del C., che fu così consolato tra l'altro delle "inesattissirne relazioni" che sul suo conto aveva pubblicato il conterraneo D. M. Federici nelle sue Memorie trevigiane sulle opere di disegno (Venezia 1803).
Nel maggio dello stesso anno il C. spediva a Venezia il busto dell'imperatore Francesco d'Austria per la Biblioteca Marciana, e il Selva gli scriverà constatando che "gli avete infuso l'anima" (Lettere familiari, 1835, p. 45). Dopo la pace di Presburgo esso sarà portato a Vienna (Kunsthistorisches Museum).
Il C. andò a Vienna per il Monumento a Maria Cristina nella tarda primavera del 1805: "io voglio lusingarmi di buon successo ma non resto però di esserne in pena e smanioso" scriveva l'11 giugno al conte T. Roberti (Lettere di A. C. al co. T. Roberti, Bassano 1864, p. 11). Vi si trattenne fino all'ottobre, quando fu inaugurato.
Prima che il C. partisse per Vienna Pio VII aveva disposto (editto del 22 maggio 1805, in Bull. Rom.,Const. Pii VII, IV, CCCX, del 31 genn. 1806) che al C., per la sua carica di ispettore generale delle arti in Roma e in tutto lo Stato pontificio, fossero assegnati 400 scudi di argento l'anno, nonché un nuovo studio con casa annessa da erigersi in un terreno nei pressi di piazza del Popolo, su progetto di R. Stern. Il C. rifiutò studio e casa; devolse l'assegno all'Accademia di S. Luca, e suggerì al papa l'ampliamento dei Musei Vaticani (Museo Chiaramonti).
Il C. era corteggiato da tutti; anche gli Inglesi si rivolsero ufficialmente a lui nel 1806 per il Sepolcro di Nelson (che decisero poi di assegnare al conterraneo J. Flaxman: del C. restano i modellini in gesso, cera e terracotta, a Possagno).
Mentre il C. era a Vienna, stava esposto ai visitatori nel suo studio romano il modello di Letizia Ramolino Bonaparte seduta, statua commissionatagli nel 1804; G. A. Guattani nel primo tomo delle sue Memorie enciclopediche (1806) ne pubblicò la riproduzione disegnata dal Camuccini e incisa dal Fontana. Il C. era in attesa delle impressioni del Quatremère, cui aveva inviato copia della stampa, essendo la statua destinata alla capitale francese, dove arrivò nel 1808 (oggi a Chatsworth: vedi, anche per le critiche che sollevò per certe somiglianze con l'Agrippina del Campidoglio, Honour, in Catal., 1972, pp. 206 s.) e dove ebbe contrastanti giudizi. Nel corso dello stesso 1805 il C. aveva dato mano anche al modello del Teseo che uccide il Centauro (ora a Vienna, Kunsthist. Museum): il Bossi se lo aspettava "non pasciuto di rose, come quel di Parrasio, ma come quello di Eufranore, pasciuto di buon roastbeef" (Federici, 1839, pp. 15 s.). Lo canterà il Pindemonte nel 1826, in pieno clima di irredentismo ellenico: "Voi, che reggete / di tanta parte dell'Europa il freno, / pietà vi stringa di que' lidi stessi, che in rosso il Munsulman ferro colora (Pisa 1826). Sempre in tempi di Restaurazione, nel suo Panegirico canoviano il Giordani vi vedrà simboleggiata la lotta delle plebi contro i potenti.
Sia per i favori che gli elargivano i Napoleonidi, sia per l'abbandono, o superamento, di canoni classicistico-razionalisti da parte del C., era inevitabile, ma significativo, che i suoi successi provocassero reazioni non solo nel mondo artistico ma anche in quello critico-letterario. Già la collocazione nella chiesa degli agostiniani a Vienna del Sepolcro di Maria Cristina aveva destato le critiche degli artisti locali; e nell'estate dello stesso 1805 A. W. Schlegel, in uno Schreiben an Goethe (nella Jenaische Allgem. Literarurzeitung)su alcuni artisti viventi a Roma, notava nel modello del Teseo che uccide il Centauro, come del resto anche in quello dell'Ercole e Lica, un travisamento dei canoni dell'arte classica, per il cedimento a certa mollezza, ai danni del sublime, e cioè un accondiscender più al gusto della "Mittelklasse" che non alle esigenze dei veri intenditori. Ora, nel 1806, un letterato di formazione kantiana, K. L. Fernow, aveva pubblicato a Zurigo una dissertazione Über den Bildhauer C. und dessen Werke, in cui, richiamandosi alle tesi dello Schlegel, in sostanza esaltava l'effettiva fedeltà ai canoni della scultura classica da parte del Thorvaldsen che, venuto a Roma nel 1797, contendeva al C, il favore dei visitatori e committenti. Per il Fernow infatti il C. "tradiva" l'antico, peggio quasi del Bernini. L'animo sensibile e fiero del C. rimase ferito, ma senza reazioni clamorose, preferendo egli sfogare il suo risentimento, con preghiera che rimanesse ignorato, all'amico-consigliere Quatremère de Quincy, inviandogli il 26 nov. 1806 una lunga lettera-apologia in cui scriveva tra l'altro: "vi vuol altro che rubbare qua e là da pezzi antichi e raccozzarli assieme senza giudizio, per darsi valore di grande artista. Conviene studiare dì e notte su' greci esemplari, investirsi del loro stile, mandarselo in mente, farsene uno proprio coll'aver sempre sott'occhio la bella natura con leggervi le stesse massime" (Boyer, Le monde des arts en Italie..., 1969, pp. 144 s.).
A causa della lunga assenza da Roma nel 1805 per il lavoro di Vienna, il C. non poté lasciare il suo studio per tutto il 1806. In quest'anno presentò al cardinal Consalvi una petizione per l'Accademia dei Lincei, rimessa in vita nel 1802, della quale il C. si occuperà ancora nel 1816, quando farà ad essa assegnare 120 dei 3.000 scudi annui attribuitigli in seguito alla nomina a marchese d'Ischia. Ne sarà nominato socio solo nel 1819 (D. Carutti, A. C. e l'Accad. dei Lincei, Roma 1880, p. 7).
Nel frattempo lo scultore era stato accolto nell'Accademia di Belle Arti di Firenze (1791), in quella di pittura e scultura di Stoccolma (1796), in quella di pittura e scultura di Verona (1803), nell'Accademia di Pietroburgo (1804), in quelle di Venezia e di Ginevra (1804), in quella di Siena (1805), in quella danese (1805), nella napoleonica di Lucca (1806). Altre accademie lo onoreranno all'apice della fortuna: quelle di Graz (1812), di Marsiglia (1813), di Monaco (1814), la Tiberina (1816) di cui fu anche presidente, di New York (1817), di Anversa (1818), di Vilna (1818), di Filadelfia. Del 1805 è la nomina ad accademico onorario dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, nella qual città il C. aveva autorevoli amici soprattutto nelle persone del prefetto, il patrizio veneto Alvise Querini Stampalia, e di Cornelia Martinetti, amica di Giuseppina Beauharnais; e c'era P. Giordani, il quale, passando, nel suo viaggio a Roma e a Napoli, nell'autunno 1806, per lo studio del C., ne scriverà entusiasta all'amico G. di Montrone: "quel che più volentieri ho veduto in Roma è Canova, pieno di vivacità, di buon umore, di bontà. Come èbuono quell'uomo sì grande. Vorrei lo vedessero certi insetti orgogliosi" (17 ottobre, in Opere, VII, p. 151).
Ulteriore lustro doveva venire in quegli anni al C. dalla sorella di Napoleone Paolina, sposata in seconde nozze dal 1803 al principe romano Camillo Borghese. Mentre infatti portava avanti il Teseo e il centauro, dovette mettersi all'opera per una Venere vincitrice ritraente, nelle sembianze della dea, le fattezze della bella principessa, appoggiata ai guanciali, nuda, con in mano la mela del trionfo. La delicatezza della fattura sublima il bel corpo alla dignità della dea.
La data di esecuzione è controversa, ma ne parla il Fernow nel su citato scritto sul C. del 1806. Terminata nel 1805 (fupagata al C. per 6.000 scudi nel maggio del 1809) subì vari spostamenti fino a che venne collocata prima nel palazzo e poi nella villa Borghese a Roma (I. Faldi, Galleria Borghese,Le sculture..., Roma 1954, pp. 45 ss.).
Un altro napoleonide, Giuseppe re di Napoli, aveva a sua volta commissionato al C. un monumento equestre del fratello imperatore, nel 1806, sicché nel dicembre lo scultore fece un viaggio a Napoli per studiarne la collocazione in una pubblica piazza (non fu mai eseguito; bozzetto a Possagno). Nel 1807 il C. portò a termine il Monumento al Volpato per la chiesa dei SS. Apostoli in Roma e la statua della Principessa Leopoldina Esterházy, cultrice delle arti e quindi ritratta nell'atto di disegnare (Eisenstadt, coll. Esterházy), e il busto del Card. Fesch (Museo di Ajaccio). Al 1808 invece risale l'Ettore, attualmente al palazzo Treves dei Bonfili a Venezia.
Altra importante amicizia, maturata dal C. in questi anni, fu quella col conte ferrarese, trapiantato a Venezia, Leopoldo Cicognara il quale, venuto nel 1807 a Roma per distrarsi in seguito alla scomparsa della ancor giovane moglie Massimiliana Cislago, si commosse, nello studio dell'artista, alla vista del bassorilievo canoviano della Marchesa di Haro di Santa Cruz (a Possagno) che gli richiamava il suo recente lutto. In tale occasione il Cicognara, che si dilettava di pittura, fece anche un ritratto del Canova.
L'occupazione di Roma da parte dei Francesi (1808) e la conseguente unione degli Stati pontifici all'Impero napoleonico (decreto del 10 giugno 1809) lasciarono molto turbato lo scultore che espresse il suo stato d'animo per le vicende delle settimane precedenti la deportazione di Pio VII (6 luglio), incidendo sul gesso della Danzatrice col dito al mento su cui stava lavorando: "1809 lavorata in giorni tristissimi terminata in luglio" (oggi a Possagno: il marmo, del 1810, a Roma, Galleria nazionale; vedi anche la lettera al Quatremère del 10 genn. 1810, a Parigi, Bibl. naz., Mss.It., XIV/48). Le vicissitudini dei tempi rendevano precarie le condizioni degli artisti presenti a Roma, ed il C., che già aveva convinto Pio VII a costituire nel Pantheon (ora nella Protomoteca del Campidoglio) una raccolta di erme di personaggi antichi e moderni da fare eseguire dai più bisognosi, intervenne anche efficacemente presso il Miollis in aiuto dei borsisti spagnoli che si erano rifiutati di prestare giuramento di fedeltà al loro nuovo re Giuseppe Bonaparte e degli altri artisti (tra cui il Thorvaldsen) minacciati di rimpatrio, facendosi garante della loro tranquilla condotta politica.
Nel sett. 1809 il C. decise di lasciare Roma e andare a Firenze per studiarvi col Fabre (cui si deve un famoso ritratto del C. conservato a Montpellier, Musée Fabre) la collocazione del Monumento all'Alfieri in S. Croce. Il Rosini compose per l'occasione un saggio Per la recuperata salute del celebre A. C. (Pisa 1809). Era intento dello scultore, accompagnato sempre dal fratellastro, spingersi anche fino al Veneto, facendo una tappa a Bologna dove lo aspettavano gli amici di quella città, che pensarono di preparare per l'occasione una raccolta di componimenti poetici (di G. di Montrone, G. B. Giusti, P. Costa) che la Martinetti gli avrebbe presentato di sua mano, e di scoprire un busto del C. nella sede dell'Accademia. Ma il C. fu distolto dal proseguire oltre Firenze dall'insicurezza delle strade infestate da briganti. Ai primi di novembre egli era perciò di nuovo a Roma (lettera del Bossi dell'8 novembre, in Federici, 1839, p. 38). Gli amici bolognesi decisero allora di dare alle stampe le composizioni già preparate, facendole precedere da una Lettera al C. di P. Giordani, il quale proprio in quelle settimane andava incoraggiando il Cicognara a scrivere una Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, in cui l'artista fosse visto come vertice e sintesi del risveglio e rinnovamento dell'arte dai tempi della Grecia classica. Il volumetto dei bolognesi (Per l'aspettato arrivo di C. in Bologna) vide la luce (gennaio 1810) quasi in concomitanza con quello veneziano di Isabella Teotochi Albrizzi sulle Opere di scultura e di plastica di A. C. (Venezia-Firenze-Pisa, fine del 1809).
Altra importante amicizia stringeva in quel tempo il C. con G. Tambroni, che era console del Regno italico a Civitavecchia, cultore delle arti e di storia, e risiedeva a Roma in palazzo Venezia: quivi il C. ottenne che gli artisti "pensionanti" avessero a disposizione alcuni locali per alloggio e studio, impegnandosi a dirigere egli stesso tale scuola. La casa dei Tambroni fu, per opera anche della moglie Teresa, ritrovo di mondanità politica e culturale negli anni del dominio francese a Roma. Si disse anche che la Tambroni, che pareva attirasse la particolare attenzione del C., gli facesse da modella per una delle Grazie (Muñoz, 1957, p. 18).
Intanto la Consulta installatasi in Roma il 10 giugno 1809 e presieduta dal Miollis procedeva alla riorganizzazione amministrativa della città. Il 5 genn. 1810 il Miollis faceva mettere sotto sigillo tutti gli effetti appartenenti alla S. Sede, proprio mentre partivano da Roma i convogli con le opere d'arte vendute dal principe Camillo Borghese alla Francia (Boyer, 1969, pp. 225 ss.). La cura dei musei Vaticano e Capitolino restava soggetta all'autorità del Canova. La definizione amministrativa da parte francese avvenne solo col decreto imperiale del 25 febbr. 1911, il quale incamerava fra i beni della Corona tutti gli oggetti d'arte e d'antichità esistenti nei musei e negli altri edifici pubblici di Roma, compresi quelli, come i conventi, passati al Demanio. Conseguentemente Martiale Daru, intendente dei beni della Corona a Roma, procedeva, tra l'altro, al riordinamento amministrativo dei musei Vaticano e Capitolino. Ciò comportò anche la consegna ai suddetti musei di opere provenienti da chiese e conventi, nonché dall'incremento e dalla disciplina degli scavi (Boyer, 1969, pp. 147 ss., 295 ss.; Arch. Mus. Vat., cartt. II, III, IV). Il C. fu nominato, con lo stesso decreto, direttore generale dei Musei, mentre il D'Este restava come conservatore del Museo Vaticano ed A. Toffanelli di quello Capitolino. Il 19 marzo 1812 il C. sottoscriveva il giuramento "di obbedienza alla Costituzione dell'Impero e di fedeltà all'Imperatore e re d'Italia" (Boyer, 1969, p. 1153).
Intanto il 4 ott. 1810 J.-M. De Gerando faceva risorgere l'Accademia romana di archeologia e di essa volle socio anche il C., il quale nel 1812 ne divenne presidente. Dopo la Restaurazione, l'Accademia riprenderà vita il 4 luglio 1816 e il C., che era ancora presidente, vi terrà il discorso inaugurale. Nel 1818 la presidenza passerà a N. M. Nicolai, ma il C. fornirà all'Accademia la dote necessaria al suo mantenimento e a sue spese verrà pubblicato nel 1821 il primo volume degli Atti (F. Magi, in Rend. della Pontificia Accademia romana di arch., XVI [1940], pp. 113 ss.).
Il 28 giugno 1810, quando, in occasione dell'annuale distribuzione dei premi dell'Accademia di Bologna, vi fu scoperto un busto del C., opera dello scultore ravennate G. Monti, incaricato di tenervi l'orazione fu il Giordani (v. il cosiddetto Compendio del più ampio Panegirico rimasto incompiuto).
Già in questo Compendio (Opere, II, 1856, pp. 9-15)il Giordani esprimeva il concetto fondamentale che il C. rappresentava l'apogeo della scultura europea nella misura in cui egli recepiva dai Greci il senso del rapporto tra natura e ideale con riflessi anche di carattere etico-civile. In quelle settimane lo scultore era nel Veneto e, a fine luglio, rientrando a Roma, fece finalmente sosta a Bologna dove, ospite della Martinetti, ebbe le accoglienze più entusiasmanti (cfr. lettere al Cicognara: Opere, II, pp. 110 ss.;e al Monti: Lettere inedite del Foscolo,del Giordani... a V. Monti, Livorno 1876, pp. 152 s.).
Altra tappa importante di quel ritorno a Roma nell'estate 1810 fu Firenze, dove bisognava sistemare definitivamente la tomba dell'Alfieri, per la quale davano suggerimenti al C. sia il Bossi sia il Cicognara. Proprio mentre era a Firenze gli fu rispedito da Roma il dispaccio del 18agosto con cui il gen. Duroc, duca del Friuli, gran maresciallo del palazzo imperiale, lo invitava a Parigi per fare la statua dell'Imperatrice Maria Luisa. Il 22 seguente veniva inviata al C. anche una lettera dell'intendente generale della casa imperiale P. Daru che offriva all'artista italiano anche la scelta delle condizioni per stabilirsi a Parigi come scultore di corte (D'Este, 1864, pp. 439 ss.).Il C. rifiutò adducendo il motivo dei lavori avviati nello studio romano (ma al D'Este scriveva: "i Camaldoli, i contadini m'incanterebbero, ma non le corti...", ibid., p. 163).Accondiscese tuttavia a partire subito da Firenze per andare a fare il busto dell'imperatrice.
L'invito del C. a Parigi provocò a Roma una particolare attenzione da parte dei colleghi dell'Accademia di S. Luca: il 2 settembre essi lo elessero all'unanimità loro principe; si era convinti che trovandosi a Parigi già investito di tale carica il C. potesse con più autorevolezza perorare la causa dell'Accademia presso Napoleone. L'8 settembre una commissione delegata dall'Accademia portò la deliberazione a Firenze al C. che era ospite del senatore G. Alessandri (M. Missirini, Memorie per servire alla storia della Rom. Acc. …, Roma 1823, pp. 338 ss.).
Il Monumento all'Alfieri fu inaugurato il 27 settembre e il C. partì subito dopo col fratellastro per Parigi. L'11 ottobre era già a Fontainebleau, il 20diede mano al Busto dell'imperatrice, il 29 poté già far vedere il modello in creta (gesso a Possagno): gli servirà per la statua della Concordia, eseguita in marmo molti anni dopo (1816: Parma, Pinacoteca). Di questo soggiorno parigino il C. conservò un interessante diario ripetutamente pubblicato dai suoi biografi. Nei vari conversari con l'imperatore alla presenza di Maria Luisa il C. affrontò i temi più vari, ma sempre interessato a portare il discorso sul destino delle arti e sulla necessità di far riattivare in Italia gli istituti lasciati senza dotazioni, nonché sulle disastrose condizioni economiche in cui versava Roma in seguito all'occupazione francese e sulla necessità di accordarsi col papa. Prima di partire egli ottenne infatti da Napoleone notevoli benefici e dotazioni per l'Accademia di S. Luca e per quella di Firenze (lettera del Menneval, in D'Este, 1864, p. 440), ma resistette alle insistenze di Napoleone perché si fermasse stabilmente a Parigi.
Durante il suo viaggio di ritorno a Roma il C. si fermò a Milano (30 novembre) e a Bologna (11 dicembre), dove fu ancora ospite della Martinetti e festeggiato dall'Aldini, segretario di Stato. Ripartì da Bologna il 16 dicembre, proprio il giorno in cui a Roma, in Campidoglio, con discorsi del Miollis e del prefetto de Tournon, l'Accademia di S. Luca festeggiava solennemente il successo a Parigi del suo principe. A Roma il C. poteva così riprendere con lena i lavori interrotti, ma fu tosto amareggiato dalla morte, ai primi di febbraio 1811, di Luigia Boccolini Giusti, presso cui viveva, e alla quale era particolarmente affezionato, e cui soleva impartire anche lezioni di pittura. In quello stesso anno gli morì la madre.
Preso possesso della presidenza dell'Accademia di S. Luca il 27 genn. 1811, il C. si preoccupò subito di rendere esecutive le concessioni di Napoleone, ottenendo anche il trasferimento delle scuole d'arte dall'inadatto convento dell'Ara Coeli a quello dell'Apollinare (Gualandi, 1868, p. 31; vedi anche Missirini, Memorie...Rom. Acc..., cit., p. 364). A fine agosto, rientrato a Roma da un viaggio nel Veneto attraverso Bologna, poté avere finalmente come suo ospite il Giordani, che vi trascorse un mese ricco di emozioni nella compagnia dell'ammiratissimo scultore. Il momento più esaltante d'un tale soggiorno fu per il Giordani una giornata trascorsa col C. ad Albano, durante la quale lo scultore si abbandonò con l'amico ad intime confidenze. La pagina del Panegirico ad essa dedicata è tra le più belle del Giordani; il C. gli confidò anche i suoi sentimenti nei riguardi del gentil sesso: "sospirando rimembrava avere per lei [l'arte] rifiutato ogni piacere della vita, e di tutti i piaceri il più dolce e a lui più desiderabile di riamare amanti donne" (Opere, IX, p. 50). Prima di ripartire da Roma a fine settembre il Giordani scelse nello studio dello scultore per i Manzoni di Forlì una Danzatrice (cfr. lettera del Giordani, 9 sett. 1811, in Opere, II, pp. 181s., e G. Gambarin, P. Giordani,il C. e i Manzoni di Forlì, in Giorn. stor. d. lett. ital., LXXXVII [1926], pp. 282 ss.; da identificare con molta probabilità con quella della Gall. naz. d'arte antica a Roma). Per Domenico Manzoni, assassinato nel 1816, il C. farà poi il monumento funebre (Forlì, chiesa della Trinità). Stava allora arrivando la Martinetti: "Questa signora - scriverà il C. al Cicognara, l'11 dicembre successivo - mi vuol così bene, ed è così piena di spirito, che io m'immagino, come presente, i termini del suo ragionare" (Malamani, 1890, p. 7).
Nella primavera del 1812, trovandosi a Firenze, il C. vi conobbe Minette Armendariz: tra la giovane donna e lo scultore ci fu subito una tale corrispondenza di sentimenti che il barone Armendariz si dichiarò disposto allo scioglimento del vincolo matrimoniale. Ma non se ne fece niente, e la contessa d'Albany consolò l'una e l'altro della mancata risoluzione, dovuta soprattutto alle incertezze del C. circa un legame duraturo; la corrispondenza con Minette continuerà comunque fino alla sua morte. Ma prima che partisse nel 1812 per Firenze, il C. era rimasto attratto da una altra donna, Delphine de Custine, arrivata a Roma nei mesi del carnevale. I biglietti manoscritti di lei, conservati nel Museo di Bassano (Francia, 1972, pp. 29 ss.), iniziano nel febbraio e durano fino al 1816, sempre tutti pieni di amabili sentimenti. Un'altra donna infiammò in quegli anni il cuore del C., Juliette Récamier, che, compromessa tra l'altro dalla sua amicizia con madame de Staël, era stata costretta da Napoleone a lasciare Parigi nel 1811, approdando quindi a Roma nella Pasqua del 1813. Chateaubriand scriverà che il C. ricevette la prima volta Juliette nel suo studio, "comme une statue grecque que la France rendait au Musée Vaticain" (Mémoires d'outres-tombe, ed. Pléiade, II, Paris 1958, p. 190). Da quel giorno prese l'abitutine di passare ogni sera a salutarla e di inviarle ogni mattina un omaggio accompagnato da un sonetto del Sartori-Canova. Nella successiva estate la Récamier fu ospite dello scultore nel suo appartamento ad Albano. Le lettere della Récamier, conservate nel Museo di Bassano, testimoniano una tenera amicizia durata anche dopo che la donna approdò all'amore di B. Constant e a quello di Chateaubriand (Francia, 1972, pp. 134 ss.). Della Récamier il C. eseguì due busti nell'inverno 1814 (modello orig. in gesso a Possagno; marmo, come Beatrice, ai Musei di Lione: vedi Rocher-Jauneau, 1957; per le altre versioni e per l'altro busto ideale, Laura, vedi Honour, in Catal., 1972, p. 211). Sainte-Beuve dirà a proposito della liaison tra la Récamier e il C. che "le marbre de celui-ci... cette fois, pour être idéal, n'eut qu'à copier le modèle" (Causeries du lundi, Paris 1947, I, pp. 132 s.).
Nell'ottobre del 1811 arriva a Roma anche Stendhal, cugino del Daru. Lo scrittore francese il 26 sett. 1811 annotava nel suo diario, a Firenze, la sua ammirazione per il Monumento all'Alfieri anche se considerava superiore quello a Maria Cristina - "le premier des tombeaux existants" - da lui visto a Vienna nel 1809 (cfr. Journal, in Oeuvres intimes, ed. Pléiade, Paris 1957, pp. 1161 ss.). A Roma l'attrasse in S. Pietro solo il monumento canoviano a Clemente XIII: in quei giorni il Daru lo portò nello studio del C.; lo rivide poi nel salotto della Tambroni (ch'egli definirà la "maîtresse" del C.): lo scrittore, esponente del romanticismo francese, ammirerà nel neoclassicimo del C. una semplicità di carattere virgiliano (Promenades, II, Paris 1926, pp. 22 s.), l'istintività del suo genio, l'avversione per le troppe teoriche dissertazioni sull'arte: "l'heureuse ignorance de sa jeunesse l'avait garanti de la contagion de toutes les poétiques, depuis Lessing et Winkelman... jusqu'à M. Schlegel" (ibid., II, pp. 32 s.); pertanto, mentre i pedanti si rivolgevano a Thorvaldsen, il C. aveva avuto il coraggio di non copiare i Greci ma di inventare una bellezza come" avevano fatto appunto i Greci (Rome,Naples et Florence, ediz. Divan, Paris 1927, I, pp. 91 s.).
Ancora nel 1811 il C. aveva terminato la Venere che il re d'Etruria gli aveva commissionato nel 1803 per sostituire la Venere dei Medici che era stata portata a Parigi; la Venere italica del C. fu collocata nella tribuna degli Uffizi nel 1812, tra l'entusiasmo generale (dal 1816 è a Pitti; per le altre versioni vedi Honour, in Catal., 1972, pp. 211 s.). Gliela pagò Napoleone (Boyer, 1969, p. 155). Tra la fine del 1811 e il 1812 il C. aveva modellato l'Aiace (ora a Venezia, palazzo Treves dei Bonfili), e all'inizio dello stesso 1812 rimetteva mano dopo tanti anni, all'Ercole e Lica, e faceva il proprio Autoritratto in marmo (ora nel tempio di Possagno).
Nel 1812 arriva a Venezia l'Elena, e sarà la stessa Albrizzi a pubblicarne la descrizione encomiastica nello stesso anno (ed. Didot, Pisa). Il Cicognara scriveva al C. il 10 giugno: "mi sembra che a saperla ben guardare vi si leggano tutti gli squarci d'Omero che le sono relativi" (Venturi, 1973, pp. 16 ss.): il che confermava lo stretto rapporto concepito tra arte e letteratura. Ma sarà soprattutto il Byron, ospite qualche anno dopo dell'Albrizzi a Venezia, ad esaltare (nov. 1816) in termini di pura poesia l'Elena canoviana ("What Nature could, but would not, do, / and Beauty and Canova can.": Works,Poetry, IV, London 1905, p. 536). Il busto originario della Elena è in pal. Albrizzi a Venezia, il modello originale in gesso a Possagno (per la seconda versione, coll. Londonderry, v. Honour, in Burl. Mag., 1972, p. 225). Il Byron visiterà il C. a Roma nella primavera del 1817 presentato dalla Teotochi Albrizzi e da S. Rogers: "It is to introduce two Men of genius to each other" (Bassano, Mus. civ., ms. VIII, 878-4762). Ma i tempi divenivano sempre più incerti. All'inizio del 1812, anno in cui veniva conferito all'artista, da Napoleone, l'Ordine della Corona ferrea, l'amico Quatrèmere gli scriveva: "voi me mandate che dovete fare una Pace per la Russia ed io vi mando che fra poco faremo la guerra con questa potenza. Fate dunque presto la vostra statua se bramate che non sia un qui pro quo" (ibid., ms. VII, 835-4454). Ma il C. gli rispondeva (12 febbraio): "...la statua della Pace si farà; vengane la guerra e non potrà impedirla" (Parigi, Bibl. naz., Mss.It., XIV, 64).
Al Salon parigino dell'inverno 1812-13 furono esposti la Tersicore (gesso originale a Tremezzo, villa Carlotta; per le versioni in marmo del 1811 e 1816 vedi Hawley, 1969) e il Palamede del Sommariva (finito dal 1805: Tremezzo, villa Carlotta: vedi Ottino Della Chiesa [1963?], pp. 109 s., anche per la riproduzione del ritratto del Sommariva, che fu fatto da P.-P. Prudhon con le due statue sullo sfondo, conservato ora a Milano, Brera) e la Danzatrice con le mani sui fianchi (Ermitage: vedi anche Honour, 1968, per la versione a Ottawa) destinata a Giuseppina Beauharnais (lettere del Quatremère del 30 gennaio, 12 e 27 febbraio, in Bassano, Mus. civ., mss., II, 159, 1693-94; VII, 835-4455). Nella residenza dell'ex imperatrice alla Malmaison già c'erano l'Ebe e l'Amore e Psiche e arrivò in quello stesso periodo il Paride tra l'entusiasmo di Giuseppina e dei suoi amici ("Paride! Paride! Paride! è un capo d'opera. Va al par del bell'antico. Ecco come dicono tutti quanti. E così dico io": Quatremère al C., 12 febbraio, ibid., ms. II, 159-1963). Di questa statua (oggi all'Ermitage) il C. aveva eseguito un modello già nel 1807 e l'anno seguente il cardinale Fesch l'aveva chiesta per la Beauharnais. Nel 1811 ne aveva chiesta una anche Ludovico di Baviera (finita nel 1816, conservata a Monaco, Bayer. Staatsgemäldessamml.: vedi Honour, in Burl. Mag., 1972, p. 225).
Nel 1812 il Bossi aveva scritto al C: "ho sentito il vociferare che tu debba fare per questa Signora [la Beauharnais] un gruppo delle tre Grazie" (Federici, 1839, p. 49). Così, andando il Cicognara a Parigi con l'intento di presentare a Napoleone il primo volume della sua Storia della scultura, scriverà al C., nel 1813, di rammaricarsi di non poter far vedere a Giuseppina almeno un disegno del gruppo (lettera del 14 settembre, in Venturi, 1971, p. 57). In realtà Giuseppina non poté vedere l'opera (oggi conservata all'Ermitage): essa non era ancora finita quando l'ex imperatrice venne a mancare (maggio del 1814). Il 22 luglio seguente il Foscolo avrebbe scritto al Cicognara: "a voi oratore delle Grazie, manderò tra non molto il carme Alle Grazie" (Ep., V, p. 1179). Il Foscolo era rimasto affascinato nel 1812, a Firenze, dalla Venere italica ("ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata, e - ma che nessuno il risappia - ho anche una volta accarezzata questa Venere nuova": all'Albrizzi il 15 ottobre, Ep., IV, p. 117), che egli aveva anteposto addirittura a quella dei Medici. Il carme foscoliano Alle Grazie, che aveva avuto nondimeno stimolazioni diverse dalle precedenti esercitazioni canoviane sul soggetto, fu dedicato dal poeta allo scultore che egli invitava alle balze ridenti di Bellosguardo ("nuovo meco darai spirto alle Grazie"), nel concetto che fosse la poesia a ispirare la scultura e non viceversa: "il Canova dirà che senza le favole disprezzate per moda tedesca in Italia, la sua Psiche, l'Ebe e le sue Grazie si starebbero tuttavia incarcerate dietro i macigni e attaccate alle rupi di Carrara... perché Febo gli disse: io Fidia primo - ed Apelle guidai con la mia lira" (Lettere dall'Inghilterra, in App. al Gazzettino, n. 1, in Ed. Naz., V, p. 360). Del gruppo il C. farà una replica per il duca di Bedford (1815-17: Honour, in Burl. Mag., 1972, p. 226 n. 84) e quando questi farà pubblicare la sua Outline Engravings and Description of the Woburn Abbey Marbles, London 1822, il Foscolo, ad illustrazione delle Grazie canoviane, inserirà novanta versi del suo carme.
All'inizio dell'autunno 1813 il C., che nel febbraio precedente era stato a Napoli per i busti del Murat e della regina Carolina, aveva mandato all'amico Bossi, assieme ai disegni delle Grazie, anche quello di una statua della Religione ch'egli aveva in mente di erigere, alta circa due metri, a sue spese, nella chiesa di S. Pietro, riprendendo in parte quella fatta per il monumento a Clemente XIII. Ma l'amico milanese, entusiasta delle Grazie, non si mostrò altrettanto di questa (Federici, 1839, p. 27). La vicenda della Religione doveva essere travagliata; il C. vi pensò sempre come a un suo grande omaggio dell'arte alla fede, e il progetto architettonico era già stato affidato al Valadier allorché si ebbe il rifiuto dei canonici di S. Pietro. Il C. finì con lo scolpirla in misura ridotta e venderla per la tomba della contessa Sofia di Brownlow nella chiesa protestante di Belton (un modello dell'originale, nella chiesa romana dei SS. Luca e Martina: Busiri Vici, 1966).
Nel gennaio 1814 le forze del Murat, ormai deciso a scindere le sue sorti da quelle di Napoleone, entravano in Roma e riducevano il Miollis in castel S. Angelo. Tutta l'amministrazione dei beni imperiali passò al re di Napoli, compresi i musei, secondo comunicazione del 19 gennaio al Canova (Arch. dei Mus. Vat., cart. IV, fasc. 9, f. 40). Il 13 febbraio il C., in vista della scadenza del suo triennio in carica, dava le dimissioni da principe dell'Accademia di S. Luca accettando, nonostante le insistenze dei colleghi, soltanto il titolo di principe perpetuo onorario e lasciando la presidenza ad A. Vici.
Nel maggio le vicende politiche riportarono a Roma il governo pontificio. I saldi delle spese dei musei per il 1813 sono firmati ancora il 7 maggio 1814 dall'intendente della Corona di Napoli, Bolognetti (ibid., cart. IV, fasc. 3); ma già il 4, con un breve da Cesena, Pio VII aveva annunciato la ricostituzione del suo Stato e rientrava il 24 maggio, dopo aver mandato a Parigi il cardinale Consalvi, con il compito di reclamare quanto perduto con il trattato di Tolentino. Nella città si ristabiliva col Pacca l'antico ordinamento dello Stato pontificio e veniva riesumato per il C. il titolo di ispettore generale delle arti. La vita a Roma sembrava prendere un nuovo ritmo. Il 17 ag. 1814 il C. scriveva al Quatremère di aver terminato la statua della Pace commissionatagli tre anni prima dal conte Romanoff (Quatremère, 1834, p. 389). Il 18 novembre visitava il suo studio il poeta S. Rogers: Roma era piena di inglesi, che, finite le guerre, si riversavano sul continente e svernavano nella città, tenendo salotti che il C. non mancava di frequentare, compreso quello di Luciano Bonaparte, rientrato a Roma assieme alla madre e al cardinal Fesch, e onorato dal papa del titolo di principe di Canino. C'erano tra questi inglesi amici vecchi e nuovi del C., che egli ritroverà a Londra nel novembre 1815. Lady Holland scriveva in quei mesi del C. ad un amico: "sta bene in società quanto eccelle in scultura; la sua espressione riflette il suo talento" (E. Seymour, The Pope of Holland House, London 1906, p. 79).
Nell'agosto 1815 il C. ha appena terminato il Monumento funebre al conte Ottavio Trento di Vicenza, commissionatogli nel 1812 da quella città per il fondatore della sua casa di ricovero, dove tuttora si trova (Lettere inedite di A. C. intorno il cenotafio da lui scolpito pel cav. O. T., Vicenza 1854), quando il 10 viene convocato dal Consalvi per sentirsi affidare la delicata missione di correre a Parigi a rivendicare le opere d'arte cedute alla Francia col trattato di Tolentino.
Già nel maggio 1814 il nunzio a Vienna G. Severoli si era adoperato a tal uopo, sia pure senza frutto presso i rappresentanti delle potenze (L. Berra, Opere d'arte asportate... da Roma e dallo Stato pontif. e restituite nel 1815, in Rendiconti della Pontificia Accademia romana di archeol., XXVII [1951-54], pp. 239-246). Ora, dopo Waterloo, approfittando della presenza delle truppe occupanti Parigi, Russia, Baviera, Paesi Bassi e Spagna, nonché l'Austria per quanto riguardava il Lombardo-Veneto e i ducati (compresa la Toscana), ritennero di approfittare della situazione per riavere le loro opere. Il C. non fu entusiasta del compito affidatogli senza mezzi, anche perché il viaggio, data la precarietà della situazione, non era rassicurante; prima di congedarsi dal papa, che gli conferì la Croce dell'Ordine di Cristo, il C. il 12 ag. 1815 fece testamento (Malamani, 1911, p. 337). Nel frattempo aveva fatto ristampare a sue spese a Roma le Lettres del Quatremère del 1796, contenenti la protesta per le esportazioni dall'Italia. Il C. partì col fratellastro e con l'ab. M. Marini prefetto della Biblioteca Vaticana che aveva il compito di controllare la restituzione dei codici e delle medaglie. Arrivò a Parigi il 28 agosto, ma vi trovò una situazione "disperata". Più condiscendenti erano gli Inglesi (Wellington e Castlereagh) e i Prussiani (Humboldt); assolutamente contrari, come i Francesi, i Russi (lo zar Alessandro). Il 1º settembre il sottosegretario del Foreign Office, sir William Hamilton, presente a Parigi, faceva pubblicare a Londra una Lettera aperta che chiedeva a Luigi XVIII la restituzione spontanea delle opere al papa. Il re francese ricevette il C. dopo molte esitazioni la domenica 9 settembre, ma toccò assai sbrigativamente l'affare, preferendo intrattenersi con lo scultore per chiedergli un ritratto. Dopo che il duca di Wellington riprese con la forza il 20 settembre le opere appartenenti ai Paesi Bassi e l'esempio fu seguito da Prussiani e Austriaci, il 27, il Metternich, rompendo gli indugi, invitava il C. a presentare le sue richieste al Denon, direttore del Louvre. Il 30, sotto la protezione delle baionette austriache, il C. poteva ottenere la consegna delle opere. Nel frattempo aveva dovuto richiedere con urgenza a Roma la lista di queste per mano di Alessandro d'Este, figlio di Antonio, essendo stato mandato a Parigi "senza un documento solo di ciò che si deve reclamare" (Malamani, 1890, p. 60: vedi su tutta la questione lo studio citato di Berra). Il 10 ottobre il C. poteva scrivere al Consalvi di aver ripreso circa quaranta pezzi di scultura e più di trenta quadri, "che sono guardati in una caserma austriaca" (Ferraioli, 1888, p. 12): bisognò infatti contenere l'agitazione della popolazione parigina davanti al Louvre (H. Holland, Recollections of past Life, London 1872, pp. 148 s.; Rogers and his Contempor., by P. W. Claydon, I, London 1889, p. 205). Il 25 ottobre il C. scriveva ancora al cardinale Consalvi: "Finalmente il convoglio è partito questa mattina colla Trasfigurazione e l'Apollo e gli altri oggetti di pittura e scultura... Del rimanente si pensa a farne in seguito la spedizione...": Ferraioli, 1888, p. 23). Infatti molti oggetti partirono da Anversa la primavera successiva e furono sbarcati nel giugno a Civitavecchia. Ma il C., di sua iniziativa, aveva deciso, confidando di interpretare i sentimenti di Pio VII, di lasciare alla Francia diversi pezzi di scultura e dei quadri che "non si potrebbero recuperare perché dispersi nei dipartimenti" (ibid., pp. 21 ss.; cfr. C. Contarini, C. a Parigi, Feltre 1891). Se il recupero procacciò ostilità da parte francese, da parte italiana non mancarono recriminazioni al C.: fu proprio uno dei suoi più validi collaboratori in quelle settimane parigine, l'esule L. Angeloni, a dolersi del suo comportamento verso la Francia, giudicato troppo compiacente, nei suoi Dell'Italia uscente il settembre 1818 Ragionamenti IV… (Parigi 1818: vedi Campani, 1892, e Pavan, L. Angeloni…).Già nel partire da Roma per la missione parigina il C. aveva pensato di cogliere l'occasione per una visita a Londra (lett. al Cicognara del 12 ag. 1815, in Malamani, 1890, p. 57). Tanto più era necessario recarvisi dopo gli appoggi dati dall'Inghilterra, da cui la S. Sede si riprometteva anche il pagamento delle spese di trasporto delle opere; ma a Parigi, ad esortare il C. a partire per Londra, ci si misero anche il Visconti e W. Hamilton, l'uno e l'altro interessati alla vicenda dei marmi del Partenone: un giudizio, anche non ufficiale, del C. avrebbe potuto influenzare le decisioni del Parlamento inglese sull'acquisto da parte dello Stato. E lo stesso C. era quanto mai desideroso di vedere quei capolavori della Grecia classica.
Egli arrivò a Londra con l'abate Sartori il 1º novembre. Quando il 4 essi furono ospiti al ricevimento di lady Holland, fiera proprietaria di un busto canoviano di Napoleone nella sua casa dove avrebbe voluto ospitare anche l'artista "a memoria perpetua dell'eroe e del non meno grande scultore che lo ha gettato" (lettera al C., in C. Segre, Relazioni letter. tra Italia e Inghilterra, Firenze 1911, pp. 376 ss.), il C. aveva già fatto una visita agli "Elgin Marbles", provvisoriamente a Burlington House: "Canova è quanto mai entusiasta degli Elgin Marbles che afferma meritare da soli un viaggio in Inghilterra" scriveva uno dei frequentatori di casa Holland in data 8 nov. (Lloyd Sanders, TheHolland House Circle, London 1908, pp. 239 ss.). È bene precisare che il giudizio del C. non fu richiesto ufficialmente dal governo inglese, come erroneamente si suole affermare; ma Holland House era una grande cassa di risonanza, e quella sera erano presenti a sentire il parere del C., fra gli altri, artisti e letterati come J. Nollekens, R. Westmacott, D. Wilkie, Fr. L. Chantrey, S. Rogers. Il 9 novembre l'artista scriveva la sua famosa lettera al Quatremère (Quatremère, 1834, pp. 288 s.), in cui diceva tra le altre cose: "Se è vero che quelle sieno opere di Fidia, o dirette da esso, o ch'egli v'abbia posto le mani per ultimarle; queste mostrano chiaramente che i gran maestri erano veri imitatori della bella natura... Devo confessarvi che in aver veduto queste belle cose, il mio amor proprio è stato solleticato, perché sempre sono stato di sentimento, che li grandi maestri avessero dovuto operar in questo modo, e non altrimenti". Col che il C. mostrava di superare nettamente il concetto idealistico winckelmanniano dell'arte greca cogliendovi il carattere realistico che la differenzia dalle altre civilità artistiche antiche. Il 10 egli scriveva una lettera a lord Elgin, esprimendo la sua compiacenza per aver potuto vedere i "preziosi marmi... recati qui dalla Grecia... onde grand'obbligo e riconoscenza dovranno a voi, o Milord, gli amatori e gli artisti per aver trasportato vicino a noi queste memorabili e stupende sculture" (in G. Labus, Opere di E. Q. Visconti, III, Milano 1830. p. X n. 4).Nel che è ancora palesata la concezione eurocentrica canoviana: la Grecia era infatti tuttora sotto i Turchi. Tanto più ebbe risonanza il giudizio del C. sui marmi Elgin, in quanto l'opposizione al loro acquisto era capeggiata dal principe degli "intenditori" riuniti nella "Società dei dilettanti", Payne Knight, e per l'esaltazione che si faceva, di contro, dei marmi di Figalia scoperti dal Cockerell e arrivati anch'essi a Londra. Al Planta, bibliotecario del British Museum, il C. avrebbe detto che se i marmi di Figalia erano stati pagati 15.000 sterline, quelli del Partenone ne valevano almeno 100.000 (in Diary and Corr. of Ch. Abbott,lord Colchester, II, London 1861, p. 564).Ludovico di Baviera d'altra parte aveva già depositato una somma in una banca inglese per acquistare gli "Elgin Marbles"; ma questi, anche per il giudizio del C., ancorché citato solo indirettamente nel Report della commissione nominata dal Parlamento, furono alla fine acquistati per il British Museum per 45.000 sterline.
A Londra il C. e il fratellastro passarono più dei dieci giorni previsti, in attesa della udienza del reggente, momentaneamente assente. Il 28 novembre la Royal Academy, presieduta dal vecchio amico B. West, invitò il C. a un pubblico banchetto in suo onore, mentre il pittore Th. Lawrence approfittava di quei giorni per abbozzare il famoso ritratto del C. (ora a Possagno), poi ultimato a Roma e replicato in varie copie (la Royal Academy avrebbe poi esposto opere dell'artista nel 1817 e nel 1823). Il 4 dicembre il C. poté esser ricevuto dal reggente, il quale gli fece consegnare il giorno dopo, al momento della sua partenza per Roma, un promemoria per il Consalvi riguardante la somma destinata dal governo britannico per le spese del trasporto delle opere recuperate. Il reggente, che farà omaggio al C. d'una tabacchiera contenente brillanti, gli commissionò un gruppo "ideale" di Marte e Venere (La Guerra e la Pace, a Buckingham Palace) e una copia delle tre Grazie.
Il C. rientrò in Italia dopo aver attraversato la Renania lasciando echi di compiacimento per il suo giudizio sui marmi elginiani anche nell'epistolario di Goethe (Briefe, XXVI, Weimar 1902, pp. 225 ss., 237 ss.). Rientrato a Roma, egli scriverà il 17 genn. 1816 al Cicognara: "commissioni senza numero avrei potuto ricevere dagl'Inglesi se quelle che ho non mi tenessero già occupato per molti anni ancora" (Malamani, 1890, p. 62). Il gruppo di Marte e Venere appare come compiuto già nel Catalogo cronologico (Roma 1817) delle opere canoviane, compilato dallo stesso scultore per Ludovico di Baviera. Al reggente inglese, inoltre, il C. destinerà poi anche una Naiade, già commissionatagli nel 1815 dal Cawdor (a Carlton House dal 12 giugno 1819, v. Honour, in Catal., 1972, pp. 209 s.).
Il C. era arrivato a Roma col fratellastro la sera del 3 genn. 1816;il giorno dopo fu ricevuto dal Consalvi, e dal papa che in segno di riconoscenza gli conferì (6 gennaio) il titolo di marchese d'Ischia e lo fece iscrivere nel libro d'oro del Campidoglio (diploma del Senato romano del 16marzo 1816). Come stemma del marchesato il C. volle gli emblemi di Orfeo ed Euridice: la lira e la serpe ("in memoria delle mie prime Statue... dalle quali... devo riconoscere il principio della mia esistenza civile" al Falier, in Alcune lettere di A. C. ora per la prima volta pubbl., Venezia 1823, p. 52). Rifiutò invece l'assegno relativo di 3.000 scudi annui destinandoli a sovvenzioni all'Accademia romana di archeologia, all'Accademia dei Lincei, a premi per gli artisti (Diario di Roma, 18 ott. 1816).Agli amici inglesi in segno di riconoscenza inviò omaggi personali oltre a quelli ufficiali della S. Sede (Campani, p. 193;Honour, in Catal., 1972, pp. 208 s.). Nel nuovo braccio Chiaramonti del Museo Vaticano il C. fece dipingere le lunette da giovani artisti: in una di esse, ad opera dello Hayez, fece rappresentare la scena del rientro del convoglio con le opere d'arte, con a lato, monocromata, la testa di W. Hamilton. Anche in conformità a quanto stabilito a Parigi il C. si adoperò per la conservazione dell'ordinamento napoleonico dei musei Vaticano e Capitolino nonché per l'acquisizione da parte di questi di opere che in chiese e conventi erano rimaste trascurate e pressocché inaccessibili. Su disposizioni del camerlengo cardinale Pacca del 7 ag. 1816 fu così formata una apposita commissione proposta dal C. (lettera al Consalvi del 15 lug. 1816, in D'Este, 1864, p. 247 n. 1) il quale, nominatone presidente, fece chiamare a farne parte il Thorvaldsen, il D'Este, F. Visconti e C. Fea. Lo stesso camerlengo il 7 apr. 1820, con un Editto sopra le antichità e gli scavi, ribadirà la proibizione di esportazioni da Roma, conformemente al chirografo del 1802.
Nel corso dell'anno 1816 l'artista portava a termine la statua della Polimnia. Si trattava della statua commissionatagli da Elisa Baciocchi e da questa ora non più voluta; il C. sostituì la testa con quella "ideale" della musa. Acquistata dal conte C. Bianchetti di Brescia, fu invece destinata a far parte dell'omaggio degli artisti veneti per le nuove nozze di Francesco d'Austria con Carolina Augusta di Baviera. La Polimnia arrivò a Venezia nell'estate 1817 e vi rimase esposta all'Accademia prima di essere spedita a Vienna (ora al Bundesmobilien-Depot).
Per tale statua il Cicognara compose una Lettera a stampa (Venezia 1817)indirizzata a G. G. De Rossi. Altri componimenti furono pubblicati in questa stessa circostanza sia da parte di coloro che coglievano l'occasione per adulare i sovrani asburgici (G. Bombardini, Venezia 1817; C. Pimbiolo degli Engelfreddi, Padova 1818)sia da parte di chi, come Missirini e altri, colse l'occasione per deplorare le infauste sorti della Repubblica veneta, cadendo così sotto il rigore della censura (Maiamani, 1890, p. 120;Id., Memorie del Cicognara, Venezia 1888, II, p. 186 e Giordani, Opere, IV, p. 125).Nello stesso anno il Missirini pubblicava la raccolta delle sue poesie Sui marmi di A. C. (Venezia 1817).A fine maggio il C. aveva terminato anche il busto del compianto amico G. Bossi (Milano, Biblioteca Ambrosiana), per cui, in segno di riconoscenza, i congiunti inviarono al C. il suo ritratto fatto dallo stesso Bossi. Il 17 novembre del 1517 l'amico Quatremère scriveva da Parigi esultante per aver avuto in dono da madame de Grollier una testa ideale che il C. le aveva fatto e perché era arrivata da Londra una copia in gesso del Teseo del Partenone (Bassano, Mus. Civ., ms. VII, 835-4461).Egli andò a vedere i marmi di lord Elgin nel giugno 1818 e, di ritorno, compose una specie di trattatello in forma di sette Lettres al C., con la finzione che questi le avesse ricevute e pubblicate a Roma (invece Paris 1818: vedi ibid., II, 159-1698;VII, 835, 4466-4468; e Quatremère, 1834, pp. 401 ss.). Nel 1819andrà ad ammirare quei marmi anche il Cicognara, mentre il C. procurerà che al suo ritorno in Venezia egli trovi la testa della Beatrice, scolpita l'anno precedente in concomitanza con l'uscita del terzo volume della sua Storia della scultura. Nel giugno di quell'anno il C. fu anche a Napoli dove bisognava fondere la statua equestre, già preparata su commissione del Murat per rappresentare Napoleone, e ora destinata al monumento di Carlo III di Borbone.
Il 5 ag. 1818 il C. comunicava all'amico Selva in Venezia di essere stato invitato più volte dai compaesani di Possagno a contribuire alle spese per le riparazioni della chiesa parrocchiale, ma che aveva preso invece "la risoluzione di farne edificare una nuova, a mie spese..." (Lett. fam., 1835, p. 87). Aveva l'idea di fare un tempio circolare con pronao come il Pantheon di Roma, ma a colonne doriche come quelle del Partenone. Fece fare da alcuni architetti dei disegni, e li sottopose all'esame dei colleghi dell'Accademia di S. Luca.
L'idea di erigere a sue spese una chiesa a Possagno non era nuova, e il C. ne aveva fatto anche un modello prima del 1812, ma non se n'era fatto niente per la riluttanza degli Anziani del comune a garantire le spese per il materiale (per la docum. v. Bassi, in L'Architettura, 1957-58, p. 487). Ora l'idea era più grandiosa, e voleva essere anche la risposta a tante amarezze, soprattutto per il rifiuto della statua della Religione in S. Pietro (vedi la lettera al cugino G. Zardo "Fantolin" del 29 ag. 1818 in Quattro lettere ined. di A. C. a Nanne Fantolin intorno alla nuova chiesa da costruire in Possagno, Treviso 1888).Il Selva, a nome del C., chiese il permesso al governatore von Goess per la costruzione, concepita in luogo eminente ai piedi del del monte dominante la Val Cavasia. Ma il Selva morì nel gennaio 1819, e allora il C. ricorse al consiglio e all'aiuto dell'architetto A. Diedo nobile veneziano (tutta questa corrispondenza in Alcune lettere artistiche riguardanti.. il nuovo tempio di Possagno, Venezia 1852;vedi anche Honour. in Catal., 1972, pp. 509 s.). Inauguratosi in S. Pietro il suo Monumento agli Stuart (icui angeli commuoveranno Stendhal), che gli era stato commissionato dal governo inglese, il C. si recò a Possagno per la posa della prima pietra del tempio, avvenuta con grande festosità paesana l'11 luglio (Giordani, Opere, X, p. 421 s.; Missirini, Della vita). In quelle settimane il C. ebbe calorose accoglienze nelle città del Veneto: a Treviso e a Padova, dove tra l'altro venne a trovarsi in grande imbarazzo nei riguardi dell'imperatore Francesco, in visita alle province venete e reduce da quella a Roma, perché all'ingresso del teatro il C. fu salutato al grido di "Canova italiano", mentre "un tetro silenzio" accoglieva l'imperatore (Giordani, Opere, IV, p. 295), che proprio prima di lasciare Roma lo aveva insignito dell'Ordine della Corona ferrea.
Il C. non poté vedere ultimata la costruzione del tempio di Possagno, che fu inaugurato nel 1830 e consacrato dal fratellastro, fatto da Leone XII vescovo di Mindo per l'occasione, e illustrato dal Missirini (Del Tempio eretto in Possagno, Venezia 1833). Esso fu dedicato a Dio uno e trino in riferimento alla pala dell'altar maggiore, già dipinta per la vecchia parrocchiale dal C., ma poi molto ritoccata nell'estate del 1821 (abate Sartori al DEste, in D'Este, 1864, p. 273).Il C. doveva fare le metope del frontone, illustranti scene bibliche, ma ne portò a termine solamente sette. L'interno del tempio subì modifiche anche per lasciar posto, nella nicchia di destra, al gruppo della Pietà, modellato dal C. nel 1820e fuso in bronzo dopo la sua morte, e, in quella di sinistra, alla sua tomba (per la storia del progetto vedi Honour, in Catal., 1972, pp. 509 s.).All'altare maggiore furono collocati i due Angeli di G. Bernardi della vecchia parrocchiale.
Ritornando a Roma nell'agosto del 1819, il C. fu colto a Firenze da forte dissenteria e dall'acuirsi dei vecchi disturbi di stomaco. Appena rimessosi, volle raggiungere Roma dove si accinse subito al compimento di lavori, quali il busto di Eleonora d'Este, una Vestale, la Beatrice per il Cicognara, la statua di Washington per il Campidoglio di Raleigh, North Carolina, (installata il 24 dicembre 1821, fu distrutta da un incendio dieci anni dopo: Fehl, in Festschrift..., 1968), il modello dell'Endimione dormiente per il duca di Devonshire (al castello di Chatsworth); rifiutava invece la commissione da parte dei Ginevrini di una statua a Rousseau: il Giordani (Opere, IV, pp. 395 s.) così commentava: "avuto riguardo alle passioni di questi tempi, riconosco nel rifiuto la prudenza del nostro divino". Ma nella Roma piena di stranieri, tra cui molti liberaleggianti, il C. continuava a intrattenere rapporti di interesse anche culturale: con Thomas Moore, Roma nel 1819, il C. si rammaricava che non fosse permesso l'ingresso di libri come le Républiques italiennes del Sismondi (Memoirs,Journ.,and Corr. of Th. M., III, London 1853, p. 65). Delle sue aperture culturali è prova l'interesse per le riviste più vivaci dell'epoca (tra l'altro la sollecitazione per l'abbonamento alla prestigiosa rivista napoletana Minerva, nel 1820: v. V. Sperber, Il cav. Bartholdy ed i carbonari, in Rass. stor. d. Risorg., LVII [1970], pp. 19 n., 31 n.).
Nel marzo 1820 fece un breve soggiorno a Napoli in vista della fusione del monumento equestre a Carlo III, ma dovette accettare, pur di malavoglia, anche la commissione di un monumento simile per il re Ferdinando. Nel frattempo egli aveva anche lavorato alla Maddalena dormiente per lord Liverpool (a Londra, Victoria and Albert Museum) e fece un'erma di Saffo per il conte T. Falletti di Barolo (Museo civico d'arte antica di Torino).
Nel maggio il C. ritornò nel Veneto per seguire la costruzione del tempio di Possagno; rientrato a Roma nell'agosto, poté dedicarsi alacremente al cavallo per la statua di Ferdinando di Napoli, ma nella primavera 1821 i disturbi di stomaco si riacutizzarono e il C. ritornò a Possagno. Nel febbraio precedente il Giordani si era fatto portavoce presso il C. del desiderio degli ufficiali del ducato di Parma che egli facesse un busto di Maria Luisa da porsi nella locale Accademia di Belle Arti: l'opera sarà ultimata l'anno successivo, 1822, e arriverà a Parma nel luglio. Nell'invemo 1821-22 il C. modellò il busto del Cicognara (completato da R. Rinaldi dopo la morte del C.: tomba di famiglia dei Cicognara a Ferrara) e iniziò il marmo del monumento a Pio VI orante per l'altare della confessione in S. Pietro. Finito il cavallo per Ferdinando, l'artista nel maggio del 1822 si recò a Napoli per la fusione, poi passò l'estate a Roma, immerso nel lavoro, ma nel settembre dovette interrompere perché le forze non lo sorreggevano, e decise di tornare a Possagno sperando di trovarvi sollievo. Vi arrivò il 7 settembre. Ai primi di ottobre, con il fratellastro, dopo vari alti e bassi, decise di riprendere la strada di Roma e fece tappa a Venezia, nella casa del vecchio amico Florian, presso piazza S. Marco, assistito dall'amico medico F. Aglietti: quivi lo colse la crisi finale e spirò la mattina del 13 ottobre, presenti, oltre all'Aglietti e al fratellastro, V. Gamba, R. Arrigoni, P. Zannini e il Cicognara, ai quali dettò le ultime volontà (Malamani, 1911, pp. 341 s.). Il dottor Zannini ne fece il 14 l'esplorazione anatomica.
Il 16 furono fatti i funerali in S. Marco, poi il feretro fu fatto sostare a forza, contro il volere del patriarca, l'austriaco L. Pyrker, in una sala dell'Accademia dove il Cicognara commemorò l'amico scultore e maestro (il testo fu stampato in varie edizioni, a Venezia 1822, a Padova 1823 e a Roma 1823 con un canto funebre del Rosini). A Possagno i funerali furonocelebrati il 25 ottobre con un discorso dell'asolano I. Monico, vescovo di Ceneda (Bibl. Canov., 1823, I, pp. 164-93). Il Diario di Roma dava l'annunzio della morte il 23 ottobre; le esequie solenni furono celebrate a Roma il 31 genn. 1823 nella chiesa dei SS. Apostoli, presenti il camerlengo e il Senato di Roma: il catafalco fu ideato dal Valadier; l'orazione funebre fu tenuta dal Missirini (Roma 1823); altre commemorazioni si tennero nelle varie accademie (Coletti, 1957, pp. 49 ss.). Era morto poco prima un giovane amico del C., il conte G. Perticari, genero del Monti, e questi li ricordò assieme nel sonetto "Se generoso sdegno". L'uno e l'altro furono associati nel ricordo anche dal Tambroni nel Giorn. arcadico dell'ott . 1822. In quelle stesse settimane arrivava a Roma, per presentarsi al C., con lettera del Giordani, anche il Leopardi, desideroso di conoscere "il gran Canova".
La salma del C. trovò posto definitivo nel tempio di Possagno; mentre il cuore, conservato dapprima all'Accademia di Venezia, fu poi posto in un vaso di porfido, nel monumento funebre della chiesa dei Frari, promosso dal Cicognara con sottoscrizioni da tutta Europa (Cicognara, Sul monumento da erigersi in Venezia... Lettera all'ab. G. B. C., Venezia 1822), inaugurato nel 1827. All'Accademia fu collocata la mano destra dello scultore.
Fonti e Bibl.: Il recente risveglio di studi sul C. e sul neoclassicismo (si vedano le relazioni, tutte di soggetto canoviano, al convegno tenutosi alla Fondazione Cini nel 1957, Arte neoclassica,Atti del convegno..., Venezia 1964, e i saggi nel catalogo della mostra londinese del 1972, di H. Honour, pp. XXI-XXIX, e di G. Hubert, pp. LXXVI-LXXXII) sta rivelando sempre più la complessità della figura del C. non solo come artista, ma anche per i suoi rapporti di carattere politico e culturale con il mondo contemporaneo. Risulta pertanto sempre più evidente la opportunità di una pubblicazione organica ed integrale del materiale documentario conservato nel Museo civico di Bassano (fra l'altro, il ms. D 7-6022, abbozzo di biografia anonima, probabilmente rivisto dallo stesso C., che arriva fino agli inizi del 1804 e pubblicato solo in piccola parte in Studi canoviani, Roma 1973, pp. 222-37). Importante è anche il carteggio del C. col Quatremère, a Parigi, Bibl. naz. Mss.It., XIV, in corso, di pubblicazione a cura di M. Pavan. È tuttavia sempre d'indispensabile consultazione la bibliografia ragionata (fino al 1924) pubblicata da L. Coletti, La fortuna del C., in Bollettino del Regio Istituto di archeologia e storia dell'arte, I(1927), pp. 21-96, che comprende quella in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 521 (pp. 515-521). Essa è molto sommariamente aggiornata al 1957 dalla bibliografia della Bassi, in La Gipsoteca di Possagno..., pp. 32-34; alla quale va aggiunto F. Boyer, La bibliographie canovienne en France de 1925 à 1957, in Arte neoclassica, 1964, cit., pp. 81-84. Il catalogo della mostra The Age of Neo-Classicism, London 1972 (pp. 27 s., 195-214, 318 s., 509 s.), fornisce una esauriente bibliografia, nelle rispettive schede, sulle tre pitture, trentadue sculture e due disegni esposti.
Vedi anche, e in partic., A. Canova, I quaderni di viaggio (1779-1780), a cura di E. Bassi, Venezia-Roma 1959; Ein Skizzenbuch A.C.s., 1796-1799, a cura di H. Ost, Tübingen 1970 (quaderno di schizzi della Bibl. com. di Cagli; rec. di F. Licht, in The Art Bulletin, LIV [1972], 3, p. 362; di M. F. Fischer, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, XXXV [1972], 1-2, pp. 145-152); Roma, Bibl. Alessandrina, ms. 321: Giornale di V. Pacetti dal 1773 al 1803,passim (vedi H. Honour, in Apollo, LXXVIII [1963], p. 376); P. Giordani, Opere, a cura di A. Gussalli, Milano 1854-62 (in particolare Epistolario,ibid., VIII-XIII); V. Monti, Epistolario, a c. di A. Bertoldi, II-VI, Firenze 1928-1931, ad Indicem (VI, p. 484); U. Foscolo, Epistolario, III-V, Firenze 1953-56, ad Indices;I.Albrizzi-Teotochi, Opere... di A. C., Venezia 1809 e Pisa 1821-24 (seconda edizione in quattro tomi), con incisioni di C. Lasinio; A. Neumayr, Illustrazione del Prato della Valle..., Padova 1807, ad Indicem;Stendhal, Correspondance, I, 1800-1821, Paris 1962, ad Indicem; Annales du Musée et de l'Ecole moderne des Beaux-Arts, C. P.Landon, Salon de 1812, Paris 1812, pp. 47 s., 56, tavv. 33, 38; P. A. Paravia, Notizie intorno alla vita di A. C., Venezia 1822; G. Bossi, Biblioteca Canoviana, Venezia 1823; G. Falier, Memoria... del marchese A. C., Venezia 1823; L. Cicognara, Biografia di A. C., Venezia 1823 (Con il catal. completo delle opere; si veda anche la bella traduz. inglese The works of A. C. in sculpture and modelling engraved in outline by H. Moses,with a biographical memoir by Count Cicognara and descriptive notes, London 1876; ripubblicato nel 1824 e 1877, sostituendo le "descriptive notes" con "with descriptions from the Italian of the Countess Allrizzi [sic]"); Id., Storia della scultura in Italia fino al secolo di Canova, Prato 1823; G. B. Bassi, Il tempio di A. C. e la villa di Possagno, Udine 1823; M. 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