Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Celebrato in vita come lo scultore “di cui il mondo non può stare senza” (Pietro Giordani, Panegirico, 1810) e, allo stesso tempo, etichettato dalla critica idealista come seguace di Bernini (Carl Ludwig Fernow, Römische Studien, 1806), Antonio Canova ha interpretato le nuove istanze neoclassiche e rivoluzionato l’attività scultorea, trasformandola da pratica artigiana a intellettuale. Anche dopo la morte, le sue opere hanno continuato ad animare il dibattito inanellando stroncature e successi. Liquidate come algide “statue di sale” (Cesare Brandi, Periplo della scultura moderna, 1949), le opere di Canova sono oggi celebrate come il più alto ideale di bellezza.
Da Venezia a Roma: formazione e debutto
Antonio Canova nasce nel 1756 a Possagno, nella provincia trevigiana. Figlio d’arte – sia il padre che il nonno sono scalpellini – si forma a Venezia, alla scuola di nudo presso l’Accademia e tra i calchi in gesso delle più importanti statue antiche, collezionati da Filippo Farsetti nel suo palazzo sul Canal Grande.
Entrato nella cerchia del senatore Giovanni Falier, realizza il gruppo di Orfeo ed Euridice (1775-1777, Venezia, Museo Correr), destinato al giardino della villa del committente.
Canova immortala la coppia mitica nel momento chiave della loro storia. In cammino verso la liberazione di Euridice, Orfeo contravviene ai precetti divini, si volta, guarda la moglie e la condanna a un ineluttabile destino nell’Ade.
L’artista non risparmia enfasi drammatica, costringe le figure a pose contorte e gesti declamatori da pièce teatrale. La tradizione tardobarocca, a quelle date ancora dominante, segna profondamente lo stile del giovane artista. Bastano tuttavia un paio d’anni di studi e maturazione e Canova trova una forma espressiva personale e autonoma.
È il 1779: per il procuratore Pietro Vettor Pisani realizza un’altra coppia di figure, Dedalo e Icaro (Venezia, Museo Correr), ispirata all’Ars amandi e alle Metamorfosi di Ovidio. Abbandonati i modi enfatici d’esordio, che pure gli avevano garantito una certa fama in ambito locale, Canova opta per una composizione dalla forte tensione psicologica.
L’anziano Dedalo è artefice consapevole dei rischi cui sta sottoponendo il figlio. La fronte corrugata, le labbra piegate, gli occhi concentrati sottolineano la meticolosa perizia con cui fissa le ali di cera al braccio del giovane. Icaro invece è imperturbabile, sereno, ai limiti del beffardo.
La diversa partecipazione dei due protagonisti all’evento si traduce in una differente resa delle superfici e dei dettagli. Il corpo di Dedalo e in particolare il volto, segnato dall’età, è descritto con minuzia e rimanda alle teste di carattere del Piazzetta; l’ideale perfezione del giovane Icaro si esprime invece attraverso un’economia di mezzi mai raggiunta prima: naturalismo della tradizione contro sintesi geometrica.
Nuova è anche la scelta di porre le figure ai margini della composizione e di lasciarvi al centro il vuoto. Così facendo Canova rompe l’attrazione magnetica che costringe le statue barocche in abbracci asfittici: le separa e, nello spazio lasciato libero, non colloca nulla. La presenza del vuoto enfatizza la distanza concettuale dei due protagonisti, resa quantificabile attraverso il filo di ferro, oggetto reale che entra nello spazio dell’artificio rompendo il gioco tra verità e illusione proprio della rappresentazione artistica.
Giulio Carlo Argan ha letto il gruppo come una metafora della scultura che si eleva da attività artigiana a intellettiva: Dedalo rappresenta l’azione materiale, Icaro quella intellettuale. Talvolta il processo di elevazione dalla pratica manuale comporta dei rischi, come dimostra il tragico volo verso la libertà del giovane Icaro (Giulio Carlo Argan, Antonio Canova, 1969).
Altrettanto rischiosa è la scelta compiuta da Canova. Rinfrancato dai consensi ottenuti, lo scultore lascia Venezia per misurarsi con l’ambiente intellettuale di Roma, dove i principi estetici dettati dalla statuaria classica, riletta da Johann Joachim Winckelmann, mal si conciliano con il ritmo compositivo continuamente interrotto e il realismo descrittivo del Dedalo e Icaro. Il gesso che Canova aveva tratto dal gruppo marmoreo per presentare le sue abilità sulla scena della capitale registra infatti un sostanziale insuccesso. Ciononostante il talento del giovane artista non passa inosservato. Grazie al pittore Gavin Hamilton, che lo introduce nella cerchia di artisti e mercanti romani, Canova è traghettato verso un nuovo ideale estetico. Banco di prova: la commissione per l’ambasciatore della Repubblica di Venezia, Girolamo Zulian.
Libero di scegliere il soggetto da rappresentare, Canova realizza una coppia di combattenti, Teseo e il Minotauro (1781-1783, Londra, Victoria and Albert Museum).
L’idea di fissare il momento della lotta viene presto scartata dallo scultore che, alla fisicità della battaglia, preferisce la quiete della contemplazione. Teseo è l’eroe concentrato sulle conseguenze della vittoria appena ottenuta, incarna l’ideale dell’intelligenza che vince sulla forza animale, la supremazia dell’idea sulla vile materia. Benché si tratti di una coppia è Teseo il protagonista, posto al vertice di un ardito scorcio prospettico che dalla testa, priva di vita, del Minotauro conduce a quella dell’eroe. La composizione, perfettamente circoscrivibile in un ovale, si risolve in un ponderato gioco di contrasti.
Teseo siede sul corpo del mostro. Nonostante la posa in riposo, i muscoli sono tesi per mantenere la posizione, il volto è reclinato, lo sguardo è diretto al vinto; nel complesso, non c’è abbandono. Sotto di lui giace disteso il corpo inerme del Minotauro. Canova avrebbe potuto cedere alle lusinghe del naturalismo barocco, descrivendone con minuzia il vello in opposizione alla perfezione del corpo dell’eroe, ma la sobrietà di mezzi e la concisione nel trattamento delle superfici dimostrano come l’artista si sia avviato verso nuovi principi estetici, guidato dal magistero della statuaria classica. In particolare, evidente è il rimando all’Ares Ludovisi (Roma, Palazzo Altemps), al Mercurio seduto (Napoli, Museo Nazionale Archeologico) e al Fauno dormiente (allora presso la raccolta Pacetti), modelli dello schema iconografico dell’eroe seduto.Sono i primi anni Ottanta del Settecento e il giovane scultore veneto è riuscito a conquistare Roma.
Celebrare la morte
Grazie alla mediazione dell’amico e conterraneo incisore Giovanni Volpato, Canova ottiene l’importante commissione per il Monumento funebre di papa Clemente XIV nella chiesa dei Santi Apostoli (1783-1787), il pontefice che nel 1773 aveva abolito l’ordine gesuita.
Il monumento colpisce per la sua potente semplicità: un crescendo di parallelepipedi, scalati su piani differenti – il basamento che ingloba la porta della sacrestia, il sarcofago, il plinto e infine il trono su cui siede con gesto imperioso il pontefice – che imprimono alla composizione uno slancio ascensionale.
Lo schema è quello piramidale utilizzato da Bernini. Canova lo recupera, lo rilegge e lo trasforma privandolo di ogni complessità. Alla ricchezza dell’insieme, propria del monumento barocco, l’artista sostituisce infatti una rigorosa autonomia della tomba rispetto allo spazio circostante e dei singoli elementi che la compongono.
La tomba non si armonizza al resto della chiesa, superando l’unità di architettura e scultura alla base dell’arte barocca. Per enfatizzare questa distanza Canova avrebbe voluto discostare di due palmi il monumento dal muro e impedire alla nicchia di inquadrarlo. Non ci riesce e gioca sul contrasto cromatico: i marmi policromi delle colonne stridono con il bianco della lumachella degli elementi architettonici e del marmo di Carrara delle figure. Nel complesso domina un unico tono, diversamente dai precedenti di Bernini in cui l’uso di bronzi e marmi policromi garantiva al monumento continuità visiva con le decorazioni della chiesa.
Lo stesso principio di autonomia governa le figure che abitano il monumento: Temperanza e Mansuetudine, a sinistra e a destra del sarcofago, non dialogano tra loro né col pontefice, sono poste di fronte o di profilo, costringendo l’osservatore a leggerle una ad una e a interpretarle per ciò che sono, donne ritratte in un composto dolore prima che allegorie delle qualità morali del papa.
Le novità introdotte da Canova gli garantiscono una seconda, importante prova, il monumento funebre di Clemente XIII (1783-1792) per la basilica di San Pietro.
L’opera ripropone tutte le caratteristiche della precedente – l’isolamento dal resto della chiesa, la semplicità di forme e di figure – e vi aggiunge nuove iconografie per celebrare il defunto. Non più il papa benedicente, ma un uomo anziano, pingue e stanco, raccolto in preghiera; le figure allegoriche presenti nel monumento ai Santi Apostoli sono sostituite dalla Religione, vestita come i sacerdoti di Israele e con corona, simbolo della luce della Divina Sapienza, e dal Genio funebre, un angelo laico che veglia sulle ceneri del defunto.
Cambia il modo di celebrare la morte poiché cambia il concetto stesso di morte che, secondo la nuova visione illuminista, segna la fine della vita senza implicare automaticamente una speranza per il futuro. La tomba è il luogo in cui vivi e morti si confrontano in una “corrispondenza d’amorosi sensi”, come ricordano i versi di Ugo Foscolo. I vivi ricercano nel ricordo dei defunti un modello cui ispirarsi e i morti la speranza di non essere dimenticati. Il monumento funebre, scenario di questo dialogo silenzioso, non può più ricalcare il modello imposto da Bernini. Marmi bianchi prendono ora il posto dei bronzi rilucenti, la severità della linea sostituisce la piacevolezza delle curve, l’elevazione sublime della ragione scalza lo spettacolo teatrale dei sensi.
Tutto questo trova la più alta interpretazione nel Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria (1798-1805, Vienna Augustinerkirche) e nella Stele funeraria di Giovanni Volpato (1807, Roma, chiesa dei Santi Apostoli). Su una stele di matrice classica è immortalato il ritratto di Volpato, un’erma con il busto di profilo cui siede accanto l’Amicizia, una donna, vestita all’antica, che con grande pudore nasconde il proprio dolore con la veste. L’opera segna il tramonto della tradizione barocca, dello spazio teatrale, della lettura allegorica, dei dettagli decorativi in nome di chiarezza, semplicità e rigore ispirati all’antichità.
Dalla materia all’idea
A partire dal monumento funerario di Clemente XIV Canova perfeziona una tecnica esecutiva estremamente elaborata che muove dal virtuosismo del bozzetto in creta verso la bellezza ideale del marmo levigato.
Lo scultore affida l’abbozzo della prima idea a una statua in creta, che egli plasma con vigore, lasciando emergere l’urgenza, propria del primo tempo della creazione. È infatti in questa prima fase che i detrattori di Canova, che lo hanno accusato di freddo accademismo, riconoscono il momento più brillante dell’artista. Non è possibile tuttavia separare le differenti fasi esecutive in quanto ognuna svolge una precisa funzione. A prova di ciò vi è lo scarto notevole che esiste tra il bozzetto e l’opera finita: il modellino di papa Ganganelli (1783, Possagno Gipsoteca) è intriso di pittoricismo nella descrizione minuta del manto del pontefice, superato nel marmo del monumento. Al bozzetto segue un altro modello in creta, la cui grandezza corrisponde a quella della statua finita e la funzione è di delineare nel dettaglio la composizione.
A questo punto l’attività di Canova cessa, per lasciare il posto ai lavoranti. Essi proseguono creando la matrice in gesso dal modello in creta, secondo la tecnica cinquecentesca della “forma persa” che consente di rispettare con precisione millimetrica le proporzioni della statua e ogni minimo dettaglio che Canova ha definito nel modello in creta.
Distrutta la matrice, resta l’anima in stucco su cui sono fissati dei piccoli chiodi metallici, detti points de repère, che guidano gli aiutanti nella sbozzatura del marmo. Lustrato e levigato con pelli e polveri abrasive, il marmo attende solo “l’ultima mano” di Canova che consiste nella stesura di cere colorate, fuliggine o pietra pomice, date a lume di candela, per modulare gli effetti luministici della superficie e donare alla statua differenti sfumature di colore.
Tale procedimento consente di sveltire enormemente il lavoro dell’artista, determinante nella fase iniziale e in quella finale. Tutte le tappe intermedie sono svolte dai lavoranti. Come in una moderna factory, Canova può dunque dedicarsi a più opere contemporaneamente e replicare i medesimi soggetti per diversi committenti, poiché nel suo studio restano i bozzetti e i calchi in gesso.
Pastorale ed eroico: Amore e Psiche e Perseo
Pur allontanandosi dalle facili suggestioni della materia, Canova non le rifugge del tutto, soprattutto nelle opere che appartengono al genere “delicato e gentile”, come il celebre gruppo di Amore e Psiche che si abbracciano , realizzato per il colonnello inglese John Campbell e poi giunto nella collezione di Gioacchino Murat (1783-1793, Parigi, Louvre).
La statua mostra uno straordinario virtuosismo nella complessità compositiva, nell’attenzione ai giochi luministici e nella novità di rappresentazione.
Come in un fermo immagine, l’artista blocca il bacio tra Amore e Psiche: i due amanti tendono l’uno verso l’altro, sono vicinissimi, ma non si sfiorano; li separa uno spazio vuoto, delimitato dalle braccia di Psiche che, come un obiettivo, mettono a fuoco il punto nodale del gruppo. I loro corpi si dispongono lungo gli assi ortogonali ma allo stesso tempo si muovono in tutte le direzioni dello spazio. Per cogliere ogni dettaglio, per entrare nel vivo della complessità del gruppo, è necessario girare attorno alla statua. “Invano – critica Carl Ludwig Fernow (in Pavanello, 1992) – lo spettatore si affatica a ricercare un punto di vista da cui scorgere entrambi i volti”, poiché Canova ha infranto la regola dell’unicità del punto di vista, adottata nella scultura barocca, in favore di una maggiore complessità. Un eccesso virtuosistico deprecabile per alcuni, un segno di straordinaria novità per altri.
Anche il trattamento delle superfici, attentissimo ai giochi di luce, alle gradazioni tonali del marmo desta sospetto. Il rischio che corre l’artista è di trasformarsi in un “Bernini antico” e anche i più ferventi sostenitori, Quatremère de Quincy in primis, lo mettono in guardia.
Uomo di pratica più che di parola, Canova si difende con l’evidenza delle sue opere. Nel 1797 gli viene commissionato il Perseo (1797-1801, Città del Vaticano, Musei Vaticani). La statua appartiene al genere eroico dove virtù morali e perfezione di forme concorrono per realizzare un’opera esemplare.
L’eroe mitico, immortalato da Canova, è sicuro di sé, guarda la testa mozzata di Medusa. La posa è dinamica: le gambe divaricate, leggermente scalate, corrispondono alla postura delle spalle, secondo la regola classica del chiasmo. Altrettanto equilibrio vi è nelle braccia: uno disteso per sorreggere il capo del mostro, l’altro leggermente scostato dal busto per sostenere la spada, l’arma con cui l’eroe ha compiuto l’impresa. Il fianco sinistro è lambito dalla clamide che completa la figura e al tempo stesso fa da sostegno alla statua. Il corpo del giovane eroe è perfetto, la muscolatura è appena accennata per descrivere una bellezza che non ha bisogno di dettagli esornativi. Modello evidente l’Apollo del Belvedere, la statua antica che per i contemporanei rappresenta il canone assoluto di perfezione fisica.
Anche il giovane scultore danese Berthel Thorvaldsen, interprete e portavoce delle istanze della critica idealista promossa da Fernow, si misura con il modello antico nel Giasone (1802-1828, Copenaghen, Museo Thorvaldsen): un colosso di muscoli, superfici scabre, forme chiuse e pathos solenne, più vicino all’arte austera dell’età di Pericle che alla sensibilità ellenistica del modello.
A differenza del rivale, Canova dà una lettura molto più fedele dell’Apollo. È identica la posa, sono solo invertite le gambe, il volto tratto di profilo suggerisce un’apertura della statua oltre la propria posizione e il dettaglio del mantello ritorna puntuale.
Studiando l’opera nel dettaglio Canova ha osato sfidarla e, a giudizio unanime dei contemporanei, superarla poiché è riuscito a elevarsi da una puntuale trascrizione e procedere all’imitazione. Concetto espresso da Winckelmann, l’imitazione si discosta dalla copia poiché non è una ripetizione passiva, ma una scrupolosa disamina del modello al fine di estrarne la quintessenza.
Nel Perseo, Canova è riuscito nella più grande impresa: fissare nel marmo la perfezione del corpo maschile, una bellezza immutabile nel tempo, passando attraverso la lettura del modello antico. Per questo motivo è parso naturale risarcire con questa statua la grave perdita dell’Apollo del Belvedere, trasferito a Parigi a seguito del patto di Tolentino del 1797. Nel 1802 papa Pio VII acquista l’opera, in origine destinata a Milano come celebrazione dell’esercito francese, e la dispone sul piedistallo del cortile del Belvedere. Agli occhi dei contemporanei, solo questa statua, che rappresenta l’alternativa e, in certo modo, la continuazione dell’esempio ellenistico, può sostenere il confronto.
Al di là di qualsiasi critica, l’arte di Canova ha raggiunto il più alto riconoscimento. Il Perseo è il manifesto del canone di perfezione del tempo e Antonio Canova il suo portavoce più autorevole.