CAPODIVACCA, Antonio
Appartenente ad un'antica famiglia padovana fra quelle più eminenti per censo e che avevano da secoli il predominio sulla vita cittadina. Nacque in data imprecisata nella seconda metà del secolo XV da Bartolomeo che si era segnalato al servizio della Repubblica per l'acquisto del Polesine. Associata una volta alla signoria dei da Carrara, la famiglia del C. era riuscita a conquistare il favore della oligarchia patrizia veneziana, rompendo quella barriera di diffidenza che aveva declassato le altre famiglie padovane dello stesso rango alle funzioni subordinate di una parvenza di governo locale.
Doveva essere ancora bambino nel 1482, quando per i meriti del padre già defunto fu concessa ai figli una pensione vitalizia di cento ducati d'oro, che toccò tutta a lui dopo la morte dei fratelli, Baldissera e Ubertino, sopraggiunta non molto tempo dopo. Nei primi anni del sec. XVI emerse all'interno del ceto dirigente cittadino come uomo di punta che raccoglieva su di sé tutto il prestigio della potente famiglia. Il suo ingresso nella vita pubblica ebbe luogo nel 1501, quando fu nominato il 31 agosto conservatore del Monte di Pietà. Nel marzo del 1503 fu chiamato nella deputazione di dieci oratori incaricati di difendere a Venezia gli interessi padovani gravemente minacciati dai provvedimenti veneziani in materia di acque. Per il problema delle acque ritornò a Venezia ancora nell'ottobre. Il 30 apr. 1505 fu eletto deputato "ad utilia", la massima carica amministrativa padovana. L'anno successivo ritornò alla vecchia carica di conservatore del Monte di Pietà, ma fu anche uno dei quattro sindaci deputati al sindacato dei funzionari. Fu di nuovo oratore di Padova a Venezia per trattare questioni particolari nello stesso 1506 e poi ancora nel 1507. Il 5 dic. 1509 fu eletto collaterale generale della Repubblica, un'alta carica, difficilmente accessibile a un cittadino padovano, che costò al C. un bel mucchio di denari. A solennizzare l'avvenimento il doge lo creò cavaliere nel corso di una fastosa cerimonia e il Consiglio dei dieci gli assegnò uno stipendio di trecento ducati annui. Nel febbraio del 1509 aveva preso già possesso della carica e nel marzo la esercitava a Cremona.
Dopo la sconfitta di Agnadello del 14 maggio 1509, che vide il crollo del dominio veneziano di terraferma e la rivolta di Padova che ai primi di giugno si proclamò Repubblica indipendente sotto la protezione imperiale, il C. sembrò conservarsi fedele a Venezia. Rientrò in effetti dal campo nella città ribelle, ma per dichiararsi marchesco. Anzi si occupò dei beni dei cittadini veneziani per garantirne il possesso e il flusso regolare delle rendite. Ancora il 22 giugno, il patrizio Francesco Cappello rientrato a Venezia da Padova, dove era stato per tentare le vie della riconciliazione con i ribelli, riferì che il C. si mostrava fedele alla Repubblica. Appena due giorni dopo mosse da Padova una solenne ambasceria di omaggio all'imperatore Massimiliano che in quel momento si tratteneva a Trento. Di essa faceva parte il C., passato ormai evidentemente dalla parte imperiale. Quando nella notte tra il 16 e il 17 luglio la città di Padova fu ripresa dai Veneziani, il C. era assente, impegnato come altri capitani in operazioni militari nel contado che sguarnirono la città delle poche forze a sua disposizione e facilitarono ai Veneziani l'audace colpo di mano su di essa. Mentre il condottiero al soldo della Repubblica, Citolo da Perugia, prendeva possesso della sua casa come preda di guerra, il C. alla testa di duecento cavalli occupava Este e Monselice. Alla notizia della caduta di Padova si rifugiò nel campo imperiale, dove venivano raccogliendosi tutti i Padovani fuggiaschi. Intanto i Veneziani arrestarono il suo fattore e alcuni dei suoi servi. Quindi confiscarono i suoi beni che successivamente furono venduti in parte a cittadini veneziani.
Nelle file del fuoruscitismo padovano il C. si segnalò per l'estrema cautela con la quale evitò, diversamente da tanti altri esuli, di assumere iniziative scopertamente antiveneziane. Nell'aprile del 1511 fu segnalata la sua presenza al seguito del vescovo di Gürck, Matteo Lang, ministro imperiale. Tanto bastò per richiamare su di lui l'attenzione del Consiglio dei dieci che ne temeva le trame e accettò con entusiasmo la proposta di un sicario, certo Battista dei Fioretti, veronese, offertosi di consegnarlo vivo o morto dietro compenso. L'iniziativa non ebbe però seguito e già l'anno successivo il Lang e l'ambasciatore di Spagna a Venezia, Giovanni Battista Spinelli conte di Cariati, patrocinarono il primo tentativo di riconciliazione con la Serenissima. Per avere il perdono della Repubblica il C. dovette aspettare però ancora un paio danni, mantenendo sempre una condotta irreprensibile: in questo quadro la notizia, registrata dal Sanuto ma non confermata dalle fonti mirandolane, secondo la quale il C. avrebbe esercitato funzioni di governatore imperiale della Mirandola appare infondata, seppure è vero che egli vi si trattenne nel 1514. In effetti fu proprio il cauto atteggiamento mantenuto negli anni dell'esilio che dispose la Signoria a concedergli il perdono. Il 17 febbr. 1514 un suo inviato presentò al Consiglio dei dieci la sua richiesta di grazia a queste condizioni: pronto a farsi incarcerare e processare purché senza tormenti e con la necessaria tempestività, egli offriva la somma di mille ducati e in più altri duecento per tutta la durata della guerra. La richiesta fu appoggiata a Venezia da influenti patrizi come Valerio Marcello, suo lontano parente, e venne accolta senza la stessa condizione del processo. La grazia e la reintegrazione dei beni gli furono accordate dietro il pagamento delle somme promesse e l'impegno di risiedere a Venezia per tutto il corso della guerra. La clausola più importante dell'accordo restò però segreta e riguardava l'organizzazione di un complotto di schietto stile veneziano per l'assassinio del cardinale Matteo Lang e dell'ambasciatore spagnolo conte di Cariati, già protettori del C. e acerrimi nemici di Venezia. Il 14 maggio 1514 la moglie Bianca precedette a Venezia il C. che vi giunse il 15 e fu ricevuto in serata dal doge. Il giorno successivo fu ammesso in Collegio per discutere di questioni militari. Due giorni dopo, il 18 maggio, il Consiglio dei dieci lo investì ufficialmente dell'incarico di commissionare ad altri fuorusciti padovani ancora in esilio l'assassinio del Lang e del Cariati. Il complotto però fallì e non è nota neanche la parte che vi ebbe il Capodivacca. Riconciliatosi con le autorità veneziane, il C. non riuscì però mai a estinguerne completamente la diffidenza giustificata dal suo passato di ribelle. Ancora per alcuni anni bastò che si allontanasse da Venezia senza la debita autorizzazione per sentirsi richiamare severamente all'impegno della residenza obbligata. Così nel 1515 e poi ancora nel 1517, quando si recò a Padova e ne venne aspramente rimproverato. Per placare la diffidenza veneziana il C. fece ricorso ai consueti mezzi di provata efficienza: nel 1516 offrì spontaneamente cinquecento ducati al governo e sempre coltivò le migliori relazioni con il patriziato della Dominante. Con questi accorgimenti gli riuscì di recuperare entro pochi anni tutto il suo vasto patrimonio, di rientrare a Padova e di riprendervi persino quella posizione di preminenza che vi aveva goduto prima della rivolta del 1509.
A partire dal 1519 fu riammesso nella vita pubblica cittadina: il 31 maggio di quest'anno egli figura come esattore dei dazi. Negli anni successivi fece parte per due volte, nel 1521 e nel 1523, dell'ambasceria padovana che portava le congratulazioni della città per l'elezione del doge. Nel 1524 ritornò ancora a Venezia come oratore padovano ed ebbe in più l'incarico di rimettere ordine nelle dissestate finanze del Monte di Pietà. I sospetti sulla sua fedeltà alla Serenissima si riaccesero nel 1525, quando l'appressarsi dell'esercito imperiale a Padova consigliò il suo richiamo a Venezia. Il 10 maggio egli si presentò in Collegio per farvi aperta professione di lealtà e chiedere l'istruzione di un processo per provarla. Fu trattato con benevolenza, ma quattro anni dopo, nel 1529 fu costretto a trasferirsi di nuovo a Venezia come sospetto di simpatie filoimperiali. La considerazione dei suoi concittadini non gli venne però meno e la perdurante diffidenza veneziana non gli impedì di conservarla. Per molti anni egli fu scelto infatti come oratore padovano per trattare con le autorità della Repubblica svariate questioni di interesse cittadino. Con tale veste egli venne a Venezia nel gennaio del 1526, nel marzo del 1527, ancora nel marzo del 1528, nel marzo del 1529, nell'ottobre del 1530, nel giugno e nel settembre del 1531, nel gennaio, nel marzo e nell'aprile del 1532, nel maggio del 1533. Il sospettoso esclusivismo veneziano confinò però rigorosamente la sua sfera d'influenza nell'ambito ristretto della vita locale padovana e gli precluse ogni possibilità di rientrare nelle fila del ceto dirigente dello Stato, dove pure unavolta era entrato. A riprova vale la sua candidatura alla carica di collaterale generale, ricoperta in passato, che venne bocciata in ballottaggio nel maggio del 1532.
Con il 1533 cessa ogni notizia sulla vita del C. che morì nel 1555 (Portenari).
Fonti e Bibl.: A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, p. 175; M. Sanuto, Diarii, IV-LVIII, Venezia 1880-1903, ad Indices,sub voce Cao di Vacca; Dispacci degli ambasciatori veneziani alla corte di Roma presso Giulio II (25 giugno 1509-9 gennaio 1510), a cura di R. Cessi, Venezia 1932, p. 47; A. Bonardi, IPadovani ribelli alla Repubblica di Venezia (1509-1530), Venezia 1902, passim.