CARRERA, Antonio
Nato a Belluno nel 1711 da ricca famiglia di notai, venne avviato alla carriera ecclesiastica. Egli ricevette una buona educazione classica che mise in luce nelle numerose poesie d'occasione pubblicate in varie raccolte. Arciprete di Castion dal 1749, divise la sua vita tra l'esercizio della missione pastorale in favore delle cinquecento famiglie di contadini della sua parrocchia e i prediletti studi di agricoltura, cui si dedicò sin dagli anni della giovinezza. Pur nell'isolamento di un ambiente provinciale si sforzò di non perdere i contatti con le più avanzate correnti di pensiero tenendo corrispondenza con scrittori francesi che gli mandavano a Belluno libri di agricoltura e scritti di illuministi. Anche a Belluno la vecchia Accademia degli Anistamici che aveva avuto sempre interessi letterari, sotto la spinta degli agronomi Pietro e Giovanni Arduino e dello stesso governo veneziano si trasforma nel 1766 in un centro di studi agricoli; il C. fu uno dei più entusiasti fautori della trasformazione e per decenni ne divenne l'animatore e il membro più influente e stimato. Pieno di ammirazione per la "rischiarata filosofia" del suo secolo, si ritraeva di fronte alle più ardite idee di Hume, Voltaire, Rousseau, di cui però apprezzava con equilibrio e senza pregiudizi alcune posizioni di rinnovamento e progresso. Attento osservatore della realtà agraria della sua terra, scrisse tre memorie sull'agricoltura bellunese presentate all'Accademia degli Anistamici e pubblicate dal Giornale d'Italia spettante alla scienza naturale, e principalmente all'agricoltura, alle arti ed al commercio, diretto da Francesco Griselini. Nella dissertazione Sopra l'economia rurale del 1769 egli traccia un ampio panorama storico dell'attività umana.
Ai popoli di agricoltori; di indole pacifica, promotori e primi inventori del governo, della giustizia, delle virtù morali, delle arti e delle scienze, si contrappongono le "barbare e selvagge" popolazioni dei pastori, dedite alla rapina e all'ingiusta sottomissione dei vicini. Seguendo uno schema evolutivo di evidente derivazione rousseauiana, il C. delinea il progressivo affermarsi di più complicate e progredite forme di governo, caratterizzate dal sorgere di una "nobiltà fattizia", primo esempio di dispotismo ed oppressione dei popoli. Ostile ai nobili della sua epoca, i cui unici contrassegni sono l'"ozio, l'indolenza, il fasto e la mollezza", il C. in ogni momento storico sottolinea il dramma del "villano" angariato, vilipeso da tutti, forse addirittura trattato peggio nei paesi dove ha conseguito la libertà dalla servitù della gleba (Giornale d'Italia…, VI [1769], pp. 49-62).
Nel luglio dello stesso 1769 scrive una dissertazione Sopra lo stato dell'agricoltura nel territorio bellunese, prezioso documento delle condizioni della vita rurale nel suo paese (ibid., pp. 65-72, 73-84).
Fisiocrate convinto (l'agricoltura è per lui la "sorgente primaria di tutti i beni che costituiscono la floridezza, l'opulenza e la felicità dello stato"), il C. esordisce con una dichiarazione di fiducia nel liberismo economico, unico mezzo per favorire lo smercio dei prodotti, mantenere l'equilibrio dei prezzi e quindi sostenere i redditi rurali. Nel Bellunese alle generali condizioni di avvilimento della classe contadina si aggiungono altri mali: l'alcolismo e la "mettadia", una forma di conduzione dei fondi molto sfavorevole per il conduttore su cui gravano le spese per sementi, decime, onoranze, regalie ed opere servili non retribuite. Quindi egli formula una serie di proposte immediatamente realizzabili: ridurre le feste religiose seguendo la costituzione del pontefice Benedetto XIV, chiudere le bettole nei giorni di lavoro, favorire la ricomposizione fondiaria, dividere i beni comunali imponendo il divieto di alienazione e la perdita del fondo per chi non lo chiude e non attua migliorie. Ma non appena si imbatte in problemi e strozzature che investono la struttura stessa della società veneta del Settecento e la tenace volontà di conservazione delle classi dirigenti, il C. diventa più cauto e sfumato: si abbandona ad esortazioni generiche, a vaghi auspici in un avvenire migliore o ad appassionate ma sterili declamazioni moralistiche. Così è per gli affitti esorbitanti che i pastori pagano alla mensa vescovile o ai comuni, per le decime spettanti a comunità e a privati che gravano ingiustamente in egual misura sul padrone e sul contadino, per l'alto prezzo del sale, per le devastazioni compiute dai ricchi cacciatori di città nei campi coltivati, ma soprattutto per il problema della "mettadia". "Più religione insomma e più buon costume", conclude il C.: i padroni stiano più legati alla terra e i parroci si iscrivano alle accademie agrarie per prepararsi meglio al loro compito di istruire i contadini. Torna a temi più circoscritti in una dissertazione del 26 marzo 1772, Sullamaniera di migliorare le qualità e i modi di fare i vini nel territorio bellunese, che il Giornale d'Italia pubblica l'anno successivo (X [1773-1774] pp. 41-45, 53-55, 62-64, 70-72, 86-88, 90-96).
Nell'ultimo secolo la produzione di vino bellunese si era ridotta di circa un terzo ed era cresciuta parallelamente l'importazione da Serravalle, Ceneda, Conegliano, causa prima dell'ininterrotta emorragia di valuta dalla montagna verso la pianura. Il C. propone di ampliare il periodo in cui è vietata l'importazione del vino forestiero e di fissare al 50% anziché ad un terzo la parte spettante al colono con l'obbligo però di prestarsi alla totale coltivazione della vigna anziché alla sola potatura e vendemmia. Il C. si premura anche di indicare tutta una serie di accorgimenti tecnici destinati a migliorare la qualità e la durata del vino bellunese: piantate più larghe per favorire la maturazione del prodotto, scavi più profondi, concimazioni più abbondanti, prolungata esposizione dell'uva per accrescerne il contenuto zuccherino, selezione dei grappoli, bollitura limitata a 5-6 giorni anziché a 2-3settimane per evitare l'inacidimento, botti migliori e pulite. L'ultimo scritto rimastoci, di un anno posteriore, ci mostra un C. rassegnato e pessimista, che sembra aver perso ogni fiducia in un ordinato e ragionevole progresso dell'agricoltura; rispondendo al quesito posto dall'Accademia degli Anistamici sui provvedimenti idonei ad ovviare alla penuria di legna da ardere, egli denuncia il progressivo disboscamento della montagna bellunese per l'incuria dei privati e delle autorità e propone di fermare l'incombente disastro vincolando a rotazione porzioni di monte, allontanando dai boschi uomini e animali e obbligando i proprietari a mantenere intatte le zone coperte da foreste ed anzi a piantare annualmente un certo numero di piante d'alto fusto (Giornale d'Italia…, X [1773-1774], pp. 389-391, 395-407).Ma il rimboschimento, osserva, è un investimento per il futuro ed è dubbio che "la moderna Filosofia sia capace di questo eroismo" (p. 395).I padroni dei fondi sono indolenti e si disinteressano delle innovazioni tecniche che le società agrarie si sforzano di diffondere nelle campagne; il lusso, la dissipazione, l'ozio hanno ormai guadagnato gli animi di tutti per cui a molti sembra logico e giusto eludere le leggi.
Forse questa sfiducia nella capacità dei suoi concittadini di avviare una efficace politica di riforme in agricoltura spiega il silenzio del C. negli anni seguenti; rimane membro dell'Accademia degli Anistamici, ma non scrive più nulla, anche se rimane un attento osservatore della vita sociale e politica.
Morì a Castion (Belluno) il 20 luglio del 1791.
Fonti e Bibl.:Castion, Arch. st. della pieve e parrocchia, buste 2, 29 (Registro 3), 64, 71, 77, 145; Belluno, Bibl. civica, Atti e provvisioni del Maggior Consiglio, mss.315, f. 105; Ibid., Archivio notarile, Atti Giovanni Antonio Miari, prot. II, cc. 3, 36; Atti Gio. Andrea Samartini, prot. XIX, c. 61; Atti Giovanni Forlini, prot. I, 29 nov. 1759; Atti Antonio Scolari, Repertorio degli strumenti, f. 37; Arch. di Stato di Venezia, Inq. di Stato, Disp. rettori di Belluno, b. 215, disp. n. 258; G. Soranzo, Biblioteca veneziana, Venezia 1885, pp. 389, 531 s.; M. Maylender, Storia delle Accademie d'Italia, I, Bologna 1926, p. 209; M. Lecce, L'agricoltura veneta nella seconda metà del Settecento, Verona 1958, pp. 36, 53; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche stor., Firenze 1956, pp. 70-76, 100 s.; Id., L'agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all'Unità Milano 1962, p. 9; Giornali venez. del Settecento, a cura di M. Berengo, Milano 1962, pp. XLIX, 146-168, 209; P. Preto, L'agricoltura bellunese nella seconda metà del '700, in Rivista bellunese, III (1976), pp. 43-49, 131-43, 265-72; G. Mazzatinti, Inv. d. manoscritti delle Biblioteche d'Italia, II, p. 130.