CERATI, Antonio
Nacque a Vienna il 19 ag. 1738 dal conte Carlo, di famiglia parmigiana, allora reggente nel Supremo Consiglio d'Italia, e da Isabella Dalla Rosa. Il C. ricevette la prima istruzione nel Collegio dei nobili di Modena, città che predilesse e fu suo frequente luogo di villeggiatura; si trasferì per qualche tempo a Milano, dove il padre era senatore, dedicandosi poi a Parma agli studi ecclesiastici e diplomatici, per assecondare i desideri del padre. In un opuscolo inedito (cit. in Affò-Pezzana, pp. 382 s.) confida però che, "terminata a diciotto anni la via tortuosa delle leggi civili e canoniche", preferì costruirsi da solo, cartesianamente si direbbe, un metodo intellettuale "consultando la sua propria ragione e quella di qualche amico che reputava di sommo merito, perché sapeva pensare", prediligendo "lo studio della metafisica e del diritto pubblico" nonché, in pari tempo, un'attività letteraria che rispondesse a certo suo edonismo divagante e curioso.
Una vera carriera pubblica il C. non fece, quantunque a tale effetto si schierasse con gli oppositori di G. L. Du Tillot inviso ai politicanti e al clero locali per la sua coraggiosa opera riformatrice, scrivendo contro di lui una sorta di cahier de doléance presentato "ai due ministri straordinari delle corti di Francia e di Spagna inviati a quella di Parma", del quale onestamente si pentì più tardi - dopo la deposizione del ministro avvenuta nel 1771 - confessando il suo grave errore di valutazione (cfr. Opuscoli, I, pp. 49 s.).
Non gli mancarono peraltro incarichi nel campo culturale: nel 1778, su proposta di P. M. Paciaudi, fu nominato riformatore degli Studi, poi preside della facoltà di filosofia e, dopo la morte di A. Bernieri e del duca Ferdinando (1802) che gli era avverso, presidente della locale università, carica che riebbe nel 1814, con la Restaurazione dopo il burrascoso periodo francese. Viaggiò molto: in Toscana, specialmente a Lucca, ospite dei Buonvisi, nel 1770; a Torino (dove fu iscritto ai Pastori della Dora come Medonte) e a Genova nel 1787; a Roma e Napoli nell'88; a Venezia l'anno dopo. A Roma divenne amico di V. Monti e membro dell'Arcadia, presentato da G. C. Amaduzzi e da L. Godard, col nome di Parmenio Dirceo, ma pteferì sempre quello, ricevuto nella colonia degli Emonii, di Filandro Cretense che compare nei frontespizi di molte sue opere. Fu pure in corrispondenza con G. B. Giovio e G. Fantoni, ma specialmente intrinseco del vescovo di Parma A. Turchi, del quale lasciò un'accurata biografia (pubblicata negli Elogi).
Il C. non prese moglie, fu terziario cappuccino, e negli ultimi anni sopportò serenamente la cecità; con la sua morte, avvenuta a Parma il 20 sett. 1816, si estinse la sua famiglia. Sepolto nella chiesa dell'Ordine, ne dissero l'elogio funebre A. Sanvitale e il p. F. F. Jabalot; un altro elogio compose R. Tonani, cui si deve pure l'epitaffio.
Il lunghissimo catalogo dei suoi scritti - opuscoli con molta minutaglia stampati a Parma, spesso dal Bodoni - s'avvia con una serie di Elogi, genere nel quale il C., infaticabile panegirista intonato sul registro enfatico del francese A. L. Thomas, rinforzando il discorso di pezze d'appoggio filosofiche, suscitò un'ammirazione corale, della quale permane testimonianza fin nella chiusa dell'articolo dedicato da P. L. Ginguené allo zio di lui mons. Gaspare Cerati (Biographie univ. ancienne et moderne, VII, Paris 1844, p. 328). Gli elogi dello zio Gaspare (1778), di C. I. Frugoni (1776), di Isabella di Spagna (1780) furono i più citati, con gli altri (di P. Manara, di S. Pallavicino, di A. Bernieri Terrarossa, ecc.) raccolti da A. Rubbi nei suoi volumi di Elogi italiani, Venezia 1782.
Il fondamentale dilettantismo del C. ha poi modo di provarsi in tutta un'altra serie di componimenti, misti di prosa e versi secondo la formula sannazariana dell'Arcadia, che egli adatta principalmente al genere narrativo-descrittivo, come nelle celebrate Ville lucchesi (1783) - Cenami, Buonvisi, Orsetti, Mansi, Garzoni -, con profusioni scenografiche ed encomiastiche; e nel libretto, esso pure elogiativo fino all'adulazione smaccata, I Sanvitali (1787), in cui trattando, sotto forma di visioni, dei fasti della nobile famiglia, si propone di "tramutare la Storia in una specie di scena teatrale di quadri mobili, dove l'una dopo l'altra le colorate figure si mostrano" (premessa Al leggitordiscreto). Inpari tempo s'accosta alla lirica magniloquente di tipo frugoniano (L'accademia degli amori, 1792) in una con I. A. Sanvitale, G. M. Pagnini, il Manara, A. Mazza. Tenta la novella in ottave: Una fola (1792), ripresa e ampliata in Una fola e il fine d'una fola (1808), Zobed (1795), 1 tre gobbi (1800), Il chimico morale (1806); spinge all'assurdo, alla caricatura volontaria e involontaria, la voga preromantica del macabro, sfruttato moralisticamente, negli sciolti La morte (1807).
Due sono le zone più genuine anche oggi interessanti nella congerie dei suoi scritti. L'una, ben conosciuta, è dove sbriglia i suoi umori grotteschi negli "scherzi" e nei "ghiribizzi" (come lui stesso li intitola) della Magreide (1781) con il suo autoritratto di ultramagro: "un collo lungo, un naso sperticato"; dell'Ipocondria (unita alla precedente), in cui compaiono ironizzati E. Young, J. Hervey e F. I. Arnaud; e della Grasseide (1816). L'altra, pressoché ignorata, nei trattatelli latamente illuministici, stesi per lo più in forma di dialogo, di argomento politico, giuridico, economico, moraleggiante e linguistico. Il C. vi mostra non comune informazione e un equilibrato progressismo. Sono sparsi e talora celati sotto i titoli di altre composizioni, quasi per un "miscere utile dulci" a pro' della nobiltà più aperta alla nuova cultura. Vanno ricordati come esempio almeno la Rapsodia politica e il Dialogo al sig. N. N. patriziolucchese (sullo schema del Caffè), con note eruditissime, sparse anche in altre operette di svago, e citazioni estese agli studi che in materia uscivano in Francia e in Inghilterra. È significativo al riguardo che il C. abbia progettato un giornale (Lo Spettatore italiano) sul modello illustre dello Spectator inglese.
Oltre agli scritti citati, e anch'essi editi a Parma: Parafrasi de' sette salmi penitenziali, 1778; I genii amici, cantata a quattro voci, 1789; A Pio VII nel suo passaggio per Parma, 1805; L'immortalità dell'anima, 1808; Opuscoli diversi, I-IV,1809-1810; Schizzo dell'uomo sociale e poesie per il matrimonio Buri-Portalupi, Vicenza 1811.
Bibl.: F. F. Jabalot, Oraz. funebre in morte del conte A. C., Parma 1816; R. Tonani, Elogiumcomitis A. C., Parma 1816; I. Affò-A. Pezzana, Mem. degli scrittori e letterati parmigiani, VII,Parma 1833, pp. 382-402; G. B. Passano, I novellieri ital. in verso, Bologna 1868, pp. 227 s.; E. Bertana, In Arcadia, Napoli 1909, pp. 397 s., 409 s.; C. Calcaterra, Storia della poesia frugoniana, Genova 1920, p. 377; G. Natali, Il Settecento, Milano 1955, p. 723 e ad Ind.; I. Belli Barsali, La villa a Lucca, Roma 1964, ad Ind.; R. Negri, Gusto e poesia delle rovine in Italia fra il Sette e l'Ottocento, Milano 1965, pp. 102 s.