CORRER, Antonio
Figlio di Giovanni (1586-1644) di Francesco e di Cecilia di Marcantonio Zen, nacque a Venezia il 17 febbr. 1622. Nel 1650 sposò Elisabetta di Giacomo Correr e di Marina Pisani. Il cursus honorum del C., anche per la non eccessiva floridezza economica della famiglia, fu inizialmente assai modesto; il 22 sett. 1647 fu eletto castellano a Brescia; nel 1651 occupò gli incarichi di governatore di galea e delle Ragion Nuove; nel marzo 1658 entrò nel Consiglio dei pregadi; nel 1659 fu provveditore alle Biave e sopra i Denari. Nel 1660 venne eletto provveditore sopra gli Ori e le Monete, ma nel novembre dello stesso anno non otteneva il quoziente di voti necessario per l'elezione a provveditore sopra i Beni inculti. Nell'agosto del 1661 fu scansador e nel mese seguente entrò nuovamente nel Consiglio dei pregadi. Nel settembre del 1662, 1663 e 1664 venne eletto nella zonta del Senato. Nel dicembre del 1663 Ottenne l'incarico di provveditore sopra i Feudi e nel dicembre del 1665 quello di provveditore sopra le Spese superflue. Forse a causa della mediocrità degli incarichi ricoperti, o più semplicemente per il desiderio di dedicarsi interamente agli ozi letterari, il C. abbandonò improvvisamente la vita politica. Tale distacco era però destinato a non protrarsi per molto.
Riunitosi infatti, il 19 sett. 1670, il Maggior Consiglio per l'elezione d'un nuovo avogadore di Comun, il cui nome, come stabilivano le leggi, doveva essere proposto dalla Signoria, il C., improvvisamente e fra lo stupore di tutti, chiedeva la parola. "Il soggetto in stima per qualche opinione di letteratura, ma non però avezzo a gl'esercitii dell'eloquenza", come avrebbe osservato alcuni anni più tardi lo storico Michele Foscarini, attirò "il concorso e la meraviglia" di tutti. E lo stupore generale crebbe quando l'uditorio intese lo assunto del suo discorso, tanto più che in apparenza esso non sembrava avere alcuna relazione con l'elezione in corso. Il C., subito dopo aver lamentato la recente perdita di Candia, lanciò un duro attacco contro Francesco Morosini, che nelle vesti di capitano generale da Mar s'era reso responsabile della cessione dell'isola e della pace conclusa con il Turco senza la previa autorizzazione del Senato. Il C. chiese perentoriamente, in rispetto alle leggi della Repubblica, che il Morosini fosse arrestato e che si facesse ampia luce sulle malversazioni e gli abusi compiuti da alcuni funzionari pubblici durante il lungo conflitto. Concluse il suo discorso invitando il Maggior Consiglio a deliberare su tale questione. La proposta del C. veniva accolta a pieni voti, ma non mancò di suscitare perplessità ed inquietudine in una parte del patriziato veneziano, convinta che essa avrebbe inevitabilmente riaperto le recenti ferite dell'infelice guerra di Candia. Inoltre, la delicatezza e l'importanza d'una simile questione avrebbero richiesto - a detta di alcuni patrizi - una sede ben diversa dal Maggior Consiglio, in cui il dibattito si svolgeva generalmente senza la prudenza e la serenità di giudizio ritenute necessarie. La polemica aperta dal C. si calava però, con tutta la forza della sua attualità, in una costante della vita politica veneziana, che vedeva contrapposti, da un lato, quella parte del patriziato più numeroso ma più povero, che alla riaffermazione delle prerogative istituzionali del Maggior Consiglio legava in modo indissolubile la propria sorte e, dall'altro, una più ristretta e potente oligarchia che riteneva quelle stesse prerogative non solo limitative nei confronti dei propri privilegi da tempo consolidati, ma ancor più espressione di un momento ormai superato della vita della Repubblica ed inadatte ad affrontare con la dovuta efficacia una situazione politica e sociale che richiedeva rapidità nelle decisioni e una indiscussa compattezza da parte degli organi decisionali.
Il giorno seguente il C. veniva eletto avogadore di Comun, nonostante lo scrutinio del Senato avesse designato come candidato all'incarico Francesco Foscari e ciò fu una prova assai eloquente dell'accoglimento favorevole che aveva ricevuto la sua proposta.
Ci fu anche chi dubitò delle vere intenzioni del C., ritenendo che egli avesse aperta l'azione inquisitoria contro il Morosini spinto dal desiderio di ritornare alla vita politica, prematuramente abbandonata; mentre altri sospettarono che la sua iniziativa facesse parte d'un segreto e ben calcolato gioco politico condotto dagli avversari dei Morosini, che mal ne vedeva la potenza e la fama raggiunte.
Quali che fossero le sue reali intenzioni, il C. nei giorni seguenti perseverò decisamente nella sua iniziativa: denunziò il decreto con il quale il Senato aveva provveduto all'elezione di un inquisitore per i fatti di Candia, adducendo che tale compito spettava unicamente al Maggior Consiglio, e propose che l'elezione del Morosini a procuratore di S. Marco, avvenuta quando ancora infuriava la guerra di Candia, fosse cassata in quanto svoltasi senza il rispetto dei requisiti imposti dalle leggi.
Il 23 settembre, in qualità di avogadore di Comun, ripeté in Maggior Consiglio le sue accuse contro il Morosini. A difesa di questo si levò a parlare Giovanni Sagredo, il quale si diffuse, con un ampio ed eloquente discorso, a sottolineare i meriti e la serietà dimostrati dal Morosini nell'espletamento degli incarichi da lui sostenuti. Le proposizioni del Sagredo e del C. ottennero un numero pari di voti e la decisione venne rinviata ai giorni seguenti. Il 25 settembre, apertosi nuovamente il dibattito in Maggior Consiglio, il C. attaccò duramente il Sagredo e il Morosini, causando l'immediata reazione del partito a questo favorevole. Gli animi si accesero immediatamente e l'Assemblea minacciò di degenerare in tumulto. Prese allora la parola Michele Foscarini, il quale, pur lodando l'intento del C. di voler far luce sull'esito infelice della guerra di Candia, rimproverò però i toni concitati ed accusatori con cui egli eccitava gli animi contro il Morosini, proclamandone la colpevolezza ancor prima che questa fosse stata provata. Il Maggior Consiglio accettava la proposizione del Foscarini e il C. si astenne da qualsiasi azione ulteriore. Nei giorni seguenti Francesco Erizzo venne eletto inquisitore sopra l'esito della guerra di Candia e sulle eventuali malversazioni compiute durante il suo svolgimento. Il Morosini stesso venne proclamato alle carceri, ma accertatane l'innocenza, il Senato ne decretò la liberazione.
Le orazioni del C. e del Sagredo ebbero una notevole diffusione e una sorprendente fortuna. Già negli anni immediatamente seguenti ai fatti narrati molte copie manoscritte ne circolavano per Venezia. Il C. venne additato dai contemporanei come "novello Bruto", il quale aveva osato attaccare la "prepotenza" del capitano generale Francesco Morosini; e la sua vigorosa azione tribunizia fu considerata come l'estremo tentativo di far rifiorire le antiche libertà repubblicane. Le Orazioni del C. e del Sagredo vennero pubblicate a Valenza nel 1676 nell'Italia regnante di G. Leti. Nel 1749 A. Arrighi ne fece un sunto in latino che inserì nella sua De vita et rebus gestis Francisci Mauroceni... (Patavini 1749). Nel 1833 B. Gamba le ristampò a Venezia seguendo l'edizione dei Leti.
Il 26 apr. 1671 il C. fu eletto camerlengo di Comun e nell'aprile dell'anno seguente podestà di Brescia. Qui fu impegnato con il collega Taddeo Morosini a sovrintendere ai lavori di completamento del "naviglio" bresciano, che, iniziato nel XIII secolo e proseguito con la conquista veneziana della città, era poi stato abbandonato per mancanza di fondi.
Nel 1660 il Consiglio cittadino aveva deliberato il suo completamento con la costruzione d'un nuovo canale che avrebbe messo in comunicazione Brescia con la Dominante. Come notava il C. nei suoi dispacci al Senato, la decisione aveva però incontrato molte resistenze tra la nobiltà bresciana, timorosa che la "navigatione introdurebbe abbondanza di biave e vini pregiuditiale a benestanti che vivono d'intrada". Inoltre molti nobili bresciani ritenevano che la costruzione del nuovo canale avrebbe favorito la penetrazione economica veneziana nel Bresciano, "spogliando in consequenza li cittadini de loro beni". Ogni resistenza però venne infine superata e durante la podestaria del C. ben mille operai erano impegnati nella costruzione del "naviglio".
Ritornato a Venezia, il 30 ott. 1674 fu eletto consigliere per il sestiere di S. Polo; il 6 febbr. 1676 fu provveditore alle Pompe e nel settembre successivo entrò nella zonta del Senato.
Morì a Venezia nell'ottobre del 1676.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 58 (Libro d'oro nascite, VIII); Cons. dei dieci, Lett. rettori, busta 34, ff. 85-136; Senato, Rettori, Bressa Bressan, filza 79; Venezia: Bibl. naz. Marciana: copie delle Orazioni del C. nei Mss. It., cl.VII, 656 (= 7791), 918 (= 1566), 1188 (= 9571), 1566 (= 8539), 1766 (= 9435), 1908 (= 9045); Venezia, Bibl. d. Civ.Museo Correr, Mss. Correr, buste 1465 (un breve profilo biogr. del C.), 1467, 1481; Ibid., Mss. Gradenigo, reg. 15; B. Dotti, All'illustriss. et eccellentiss. A. C. podestà di Brescia, Brescia 1672; molti altri sonetti e canzoni vennero dedicati al C. e alla moglie durante la loro permanenza a Brescia, tra i quali si ricorda Li prodigiosi trionfi della divina grazia…, Brescia 1674; A. Lupis, Gli applausi della fama, Brescia 1674; M. Foscarini, Istoria della Repubblica veneta, in Degl'istorici delle cose veneziane, X, Venezia 1720, pp. 10-15; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, V, Venezia 1842, p. 169; Id., Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, p. 138; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, Venezia 1858, pp. 467-472; E. Musatti, Storia d'un lembo di terra, Padova 1886, pp. 1194 s.; A. da Mosto, I dogi di Venezia, Milano 1960, pp. 383, 429;P. Litta, Le famiglie celebri italiane, sub voce Correr, tav. IV.