D'ALBA, Antonio
Nacque a Roma il 4 dic. 1891 da famiglia assai modesta. Il padre Cesare era guardiano-giardiniere e la madre, Cristina Bellante (alias Bellanti, Villante, Vellanti), portinaia. Fin dall'età di 11 anni cominciò a lavorare come manovale edile. Verso i 14 anni il D. iniziò a condurre un genere di vita che egli stesso definì "corrotta". Il 3 genn. 1906 subì la prima condanna a sei giorni di reclusione per furto. Fu ancora condannato per furto e per maltrattamenti ai genitori. Verso l'età di 17 anni si avvicinò all'anarchismo senza peraltro impegnarsi in una vera e propria attività politica. Il 21febbr. 1910 la questura di Roma lo propose per la vigilanza speciale, ma l'autorità giudiziaria non credette di procedere ritenendo che negli ultimi tempi egli si fosse ravveduto. Il D. continuò ad esercitare saltuariamente il mestiere di muratore senza segnalarsi agli organi di polizia, fino a quando non si rese protagonista, a Roma, dell'episodio che lo portò improvvisamente alla ribalta.
Il mattino del 14 marzo 1912, nascostosi tra le colonne di palazzo Salviati, il D. si fece largo tra la poca gente che assisteva al passaggio del corteo reale ed esplose due colpi di rivoltella all'indirizzo della carrozza in cui era Vittorio Emanuele III. Il re e la regina, che stavano recandosi al Pantheon per una messa funebre in memoria di Umberto I, uscirono indenni dall'attentato. Dei due colpi esplosi, uno ferì il maggiore dei corazzieri Lang e l'altro colpì un cavallo della scorta. L'attentatore, subito bloccato, subì le percosse della gente accorsa.
Tratto in arresto, il D. manifestò una personalità sconcertante, alternando a fiere dichiarazioni di fede anarchica atteggiamenti da squilibrato e sostenendo ora di avere agito da solo ed ora di avere avuto complici e mandanti.
Polizia e magistratura si mossero avvalorando per diverso tempo la tesi del complotto ed impegnandosi nella caccia ai presunti congiurati. Le indagini furono dirette anche all'estero, soprattutto in Svizzera, dove il gesto del D. aveva prodotto un certo entusiasmo tra i rivoluzionari italiani emigrati e trovato numerosi apologeti.
Vi fu, tra gli inquirenti, chi ritenne che l'attentato fosse stato organizzato dai Turchi, con cui l'Italia era in guerra, e chi addirittura considerò il D. uno strumento delle mene clericali (cfr. Arch. centrale dello Stato, Carte Giolitti, b. 37, fasc. 150, Note confidenziali sull'attentato D'Alba). Anche se, come risultò infine evidente, il D. aveva agito da solo, il suo gesto assunse un valore emblematico della protesta contro la guerra di Libia. Il rapporto tra il re e il capo del governo, Giolitti, fu incrinato da quell'episodio, essendo emerse palesi deficienze nell'apparato di polizia (il questore di Roma venne rimosso). L'attentato fu inoltre causa indiretta dell'espulsione dal partito socialista di L. Bissolati, I. Bonomi e A. Cabrini, che si erano felicitati con il re per lo scampato pericolo.
Nei mesi trascorsi in carcere in attesa del processo il D. tentò il suicidio. L'8 ott. 1912 comparve davanti ai giudici della corte d'assise di Roma. L'imputato proclamò la sua convinzione anarchica, dichiarando di aver agito da solo e ostentando durante il dibattimento un atteggiamento di indifferenza. La sua difesa venne assunta dal celebre penalista e deputato socialista E. Ferri. Questi invocò la concessione delle attenuanti in considerazione dello "squilibrio mentale e morale" dell'imputato. Dal proprio difensore il D. venne definito "né delinquente nato né delinquente passionale, né delinquente politico", ma soltanto un "cervello instabile e semioscuro", uno dei "miseri abbandonati dalla famiglia nel fango della strada".
Il processo fu breve e si concluse il 9 ott. 1912 con la condanna del D. a trent'anni di carcere e a tre anni di vigilanza speciale. All'imputato non venne riconosciuta alcuna attenuante fuorché la minore età, in virtù della quale non gli fu comminata la pena dell'ergastolo. Il D. venne trasferito nello, stabilimento penale di Noto, in provincia di Siracusa. Durante la detenzione ebbe frequenti crisi di pianto, scatti d'ira, si dichiarò pentito giungendo a chiedere che gli fosse amputata la mano "colpevole". Il 21 genn. 1914. dopo aver manifestato ripetuti propositi suicidi, il D. fu tolto dall'isolamento e posto sotto stretta sorveglianza. In carcere riceveva somme di denaro, frutto di sottoscrizioni raccolte in ambienti anarchici. Il 25 giugno 1920, per timore che un moto popolare dall'esterno potesse provocare la sua liberazione, il D. venne trasferito nella casa penale di S. Stefano. Qui rimase fino al 31 ott. 1921, allorché fu dimesso in seguito a provvedimento di grazia.
Tornato a Roma, il D. manifestò segni di squilibrio mentale, che indussero il padre a richiederne il ricovero in casa di cura. Posto in osservazione medica gli fu riscontrato uno stato di demenza precoce e, nel dicembre 1921, venne rinchiuso in manicomio. Le sue condizioni generali andarono col tempo peggiorando: ridotto alla cecità e alla sordità visse gli ultimi anni nel reparto "tranquilli" del manicomio di Roma, dovetnori, all'età di sessantadue anni, il 17 giugno 1953.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Casell. politico centrale, fasc. 79.342; Ibid., Min. Int., Dir. Gen. P.S.; Div. Aff. Gen. e Ris.; H2-I, Attentato a S. M. il Re; Ibid., Carte Giolitti, b. 37, fasc. 150; Atti parlam., Camera dei Deputati, Discuss.; XXIIIlegislatura, tornata del 14 marzo 1912, pp. 7321 s.; per la cronaca dell'attentato, l'istruttoria e il processo cfr. anche Il Messaggero, 15 marzo, 4, 9, e 10 ott. 1912; e per il necr. 19 giugno 1953; S. Cilibrizzi, Storia parlam., politica e diplomatica d'Italia. Da Novara a Vittorio Venero, IV (1909-1914), Napoli 1939. pp. 246 ss.; G. Ansaldo, Il ministro della buona vita. Giolitti e i suoi tempi, Milano 1949, pp. 397, 399 ss.; 403. 421; L. Albertini, Venti anni di vita politica, I, L'esperienza democratica ital., II, Bologna 1951, pp. 176, 214; L. Salvatorelli, Storia del Novecento, Milano 1957, p. 417; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965, pp. 110. 113; L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione, Bari 1969, pp. 476, 489, 507, 509, 534 s.; P. C. Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Milano 1969, p. 357; F. Malgeri, La guerra libica, Roma 1970. pp. 211, 214 ss.; 270; P. Nenni, Intervista sul socialismo ital., a cura di G. Tamburrano, Bari 1977, pp. 12 s.; F. Fiorentino, Ordine pubblico nell'Italia giolittiana, Roma 1978, pp. 112, 113 n; R. Bracalini, Il re "vittorioso". La vita, il regno e l'esilio di Vittorio Emanuele III, Milano 1980. pp. 83, 84 n.