ANTONIO da Pisa (A. da Pontedera)
Nativo di Pontedera e conte palatino, fu capitano di ventura nella prima metà del XV secolo. Il 25 giugno 1425 Filippo Maria Visconti lo assoldò con otto lance. Nell'aprile del 1433, mentre, sempre per incarico del Visconti, faceva da scorta avanzata a Sigismondo re dei Romani, batté a Pisa Micheletto Attendolo capitano dei Fiorentini. Nel giugno passò nel Patrimonio a dar man forte a Niccolò Fortebracci, con il quale, però, venne presto ad aperto dissidio.
Al Visconti fu riferito che A. intendeva "taglare a peze" il Fortebracci, ed egli, il 10 ott. 1433,ne scrisse a Niccolò Piccinino, invitandolo a provvedere, ma senza apertamente "far male" al capitano pisano (Osio, p. 105).
Certo è che già nel dicembre del 1433 A., con 400 uomini, passò a militare nell'esercito pontificio, partecipando di persona ai combattimenti contro le truppe del Fortebracci, fino ad affrontarlo direttamente e a ferirlo di lancia in uno scontro presso Tivoli (gennaio 1434). Il 17 maggio del 1434, quando le truppe papali sconfissero, sempre a Tivoli, il Fortebracci, A. non partecipò allo scontro, essendo rimasto a Ponte Lucano per tagliare la ritirata al nemico. Ma continuò per poco tempo a militare nell'esercito di Eugenio IV: quando, nel luglio, questi fu costretto a fuggire da Roma e i Romani, con l'aiuto di Filippo Maria Visconti, si costituirono in repubblica, Antonio, con un nuovo voltafaccia, passò infatti dalla parte dei ribelli; e ostile al pontefice rimase pure dopo che Roma, nell'ottobre, fu da questo riconquistata.
Stabilitosi in Marino e stretta alleanza con i Colonnesi e con Alto e Grado dei Conti di Valmontone (di quest'ultimo sposò una figlia), A. condusse tra la fine del 1434 e la primavera dell'anno seguente un'aspra guerriglia contro Roma, spingendosi in ardite scorrerie fino sotto le mura della città (il 9 apr. 1435 prese porta S. Giovanni) e minacciandone l'approvvigionamento. Ciò spiega perché, nel maggio, Giovanni Vitelleschi, che, al fine di una piena restaurazione dell'autorità pontificia nel Patrimonio, stava organizzando la spedizione che avrebbe portato alla cattura di Giacomo dei prefetti di Vico, pensò bene di stipulare una tregua della durata di due mesi con A. ed i suoi alleati. Rimasto così libero da impegni nel Patrimonio, A. accettò nello stesso mese di maggio l'invito rivoltogli dal Consiglio di reggimento che governava allora Napoli dopo la morte di Giovanna II e, trasferitosi nel Regno, prese a militare nell'esercito angioino guidato da Iacopo Caldora, ponendo come unica condizione il suo desiderio di non combattere mai contro il Visconti. Ma presto fra lui e il condottiero abruzzese si creò la stessa situazione di insofferenza che già aveva portato alla rottura con il Fortebracci. In autunno, all'assedio di Capua, A., che pare sostenesse la necessità di cedere la piazza, una volta che si fosse arresa, a Renato d'Angiò, mentre il Caldora sembrava volesse tenerla per sé, prese pretesto dalle insegne viscontee che il comandante aragonese di Capua aveva innalzato sulle mura per non partecipare più alle operazioni. Il Caldora invitò allora A. ad una spiegazione, ma non lo arrestò, contro il parere dei suoi capitani, che lo volevano uccidere. Certo è che, subito dopo, A., dietro premio di tremila fiorini, passò nel campo aragonese e il Caldora dovette togliere l'assedio.
All'inizio del 1436 Alfonso d'Aragona, intenzionato a costringere con la forza Eugenio IV a riconoscerlo re di Napoli, pensò di sfruttare l'esperienza di A. per riaccendere le ostilità nel Patrimonio. Già nel marzo A. aveva di nuovo messo il campo a Marino, riprendendo, insieme con Renzo Colonna e Francesco Savelli, la guerriglia contro Roma, e conquistando, per perderla però dopo pochi giorni, Porta Maggiore. Ma questa volta il Vitelleschi volse tutte le sue forze contro di lui; battuto il Savelli, respinto nel Regno Renzo Colonna, il patriarca marciò contro A., che, senza aspettare il soccorso di altri capitani aragonesi, lo affrontò il 15 (o il 16) maggio 1436 a Piperno. A. combatté con grande valore: "con una scimitarra in mano faceva così gran ferire, che per forza sosteneva i suoi uomini, come se proprio Ettore fosse stato" (Niccolò Della Tuccia, p. 157). Ma il Vitelleschi, nel momento cruciale della battaglia, ruppe lo schieramento nemico con un abile attacco di cavalleria su un fianco. A. fu catturato insieme con due suoi nipoti, Giacomo e Giovanni di Mariano da Pontedera, e, per ordine del Vitelleschi, impiccato ad un olivo tre giorni dopo.
Fonti e Bibl.: Cronache di Viterbo e di altre città scritte da Niccola Della Tuccia,in Cronache e statuti della città di Viterbo,a cura di I. Ciampi, Firenze 1872, pp. 126, 129, 130, 131, 134, 135, 150, 156, 157; L. Osio, Documenti diplomatici tratti dagli Archivi milanesi,III,Milano 1877, pp. 76, 80,105; Diario della città di Roma di Stefano Infessura,a cura di O. Tommasini, Roma 1890, in Fonti per la Storia d'Italia,V, pp. 34 s.; Gli atti cancellereschi viscontei,a cura di G. Vittani: Parte prima,Milano 1920. p. 112 n. 942; Parte secmda,ibid. 1929, pp. 79 s. n. 529, 81 n. 535, 92 n. 598; La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone,in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XXIV, 2, a cura di F. Isoldi, pp. 12 s., 14, 23, 25-27, 87; N. F. Faraglia, Storia della lotta tra Alfonso V d'Aragona e Renato d'Angiò,Lanciano 1908, pp. 18, 45, 49, 63, 75; C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni,I, Milano 1936, p. 49; L. Simeoni, Le Signorie,Milano 1950, I, p. 478; II, p. 688.