DANDOLO, Antonio
Nacque a Venezia il 13 genn. 1431 da Andrea, il conquistatore di Crema, del ramo di S. Maria Zobenigo, e da Maria Michiel di Antonio. Studiò a Padova, dove si laureò giovanissimo in diritto civile e canonico: il 13 luglio 1450 il suo nome compare infatti tra i mallevadori della galera di Paolo Querini, che commerciava con la Tana, accompagnato dal titolo dottorale.
Nel decennio seguente fu chiamato a "leggere" ius civile, dapprima nella sua università, poi in quelle, rinomatissime, di Perugia e Pisa.
Nell'aprile '61 era nel Collegio dei dottori legisti dello Studio patavino, "honorato per dottrina", come testimoniano il Sansovino e l'incarico, affidatogli dalla Signoria, di recitare l'orazione funebre per il doge Pasquale Malipiero, nel maggio '62. L'anno dopo lasciava l'insegnamento per attendere all'amministrazione del patrimonio e rappresentare la famiglia nel Maggior Consiglio: a Venezia l'aveva richiamato il padre, nominato provveditore in Morea, dove avrebbe condotto contro i Turchi un'infelice campagna militare. Tra il '62 ed il '66 il D. non rivestì alcun particolare incarico politico, tranne quello di senatore, e così poté dedicare la maggior parte del suo tempo ai prediletti studi e alle incombenze che gli derivavano dalla numerosa famiglia.
Nel 1456 aveva infatti sposato Luchina Mocenigo del procuratore e futuro doge Giovanni, che gli avrebbe dato ben quattro figlie (Laura, Andriana, Dandola, Elisabetta) e cinque figli: Francesco (che nel 1480 sposò Caterina Frangipane, figlia di Giovanni, signore di Segna e Veglia), Lorenzo, Andrea, Marco e Pietro, il quale fu, come il padre, dottore in utroque iure e poi protonotaro apostolico, vescovo di Vicenza e quindi di Padova, nel 1507.
La preparazione giuridica e le doti culturali (era ritenuto uno dei maggiori rappresentanti dell'umanesimo veneziano, e lo dimostra l'amicizia contratta col Bessarione, nel '63) spiegano la sua elezione ad ambasciatore presso il duca di Borgogna, avvenuta il 12 ag. 1467. La missione rivestiva un significato di pura convenienza diplomatica, in occasione dell'assunzione al trono di Carlo il Temerario: le commissioni, che il Senato affidò al D. il 23 ottobre, prevedevano infatti che si limitasse a studiare umori e intenzioni del nuovo duca, che, tramite Guillaume Fillastre, aveva invece sollecitato un'alleanza con la Repubblica, in funzione antifrancese. L'ambasceria si concluse pertanto con un nulla di fatto: il D. si trattenne in Borgogna parecchi mesi, ma alle precise richieste di Carlo oppose costantemente un atteggiamento sfumato e dilatorio. Quando ritornò in patria, nell'estate del 1468, la situazione politica tuttavia era mutata: le pretese di Galeazzo Maria Sforza su Vercelli, rivendicata nei confronti di Amedeo IX di Savoia quale dote promessa alla duchessa Bona, erano ormai apertamente appoggiate da Luigi XI, con il quale si erano schierati Napoli, Firenze e il Monferrato. Venezia si propose allora come mediatrice, e affidò al D. il compito di recarsi a Milano e poi in Savoia, per trovare tra le due corti un terreno d'intesa. Il 27 sett. 1468, allorché il D. stava per mettersi in viaggio, giungeva notizia che lo Sforza stava marciando su Novara: il D. riceveva nuove istruzioni, mentre la Repubblica armava e nominava provveditore in campo Bernardo Giustinian. Di fronte alla decisa reazione veneziana e al concomitante evolversi della situazione al di là delle Alpi (per timore di uno sbarco inglese, Luigi XI sottoscriveva, infatti, col Temerario, l'umiliante trattato di Péronne, che prevedeva il ripristino di buone relazioni con la Savoia), Galeazzo preferì ripassare il Sesia ed offrire al D. le più ampie garanzie per il mantenimento dello statu quo. La sua missione, iniziata così felicemente, poteva quindi continuare presso l'alleato sabaudo: una settimana più tardi egli era a Torino e il 24 ottobre a Chambéry.
Al di là delle Alpi, però, nuovi problemi stavano allora sorgendo per gli interessi della Repubblica. Ormai libero dalla minaccia borgognona, il re di Francia aveva ordinato la confisca dei beni veneziani in Linguadoca e ad Aigues-Mortes, per vendicare lo smacco subito dall'alleato milanese. Come non bastasse, il Temerario, deluso dai rifiuti sino allora frapposti da Venezia ai suoi progetti di alleanza, aveva colto occasione da una controversia, scoppiata a Bruges tra il mercante veneziano Pietro Guidizon e la società dei Medici, per proibire ai sudditi della Serenissima di commerciare nei suoi Stati. Il 26 nov. 1468 il D. riceveva l'ordine di lasciar la Savoia per la Borgogna: le istruzioni gli comandavano di far ripristinare i privilegi per i mercanti veneti, ma anche di penetrare le future intenzioni del duca e riferirle a mezzo di documenti cifrati e speciali corrieri. Il diplomatico, però, tardò a muoversi: accampò pretesti, accusò mancanza di denaro, tanto che, alla fine del marzo 1469, si trovava ancora in Savoia, a Thonon.
In effetti, egli aveva ben presenti le difficoltà della missione: premuta dai Turchi nell'Egeo, impegnata in Romagna dall'irrisolta questione dell'eredità malatestiana, la Repubblica appariva incapace di scegliere tra l'alleanza con la Francia e quella con la Borgogna.
Ma quante speranze poteva avere l'inviato veneziano di riproporre con successo, di fronte al risoluto atteggiamento del Temerario, il prudente disimpegno che il Senato suggeriva? Questi timori divennero ben presto realtà: il duca gli assegnò infatti per conferenti Filippo di Bresse ed il Fillastre, vescovo di Tournai, che ben conosceva la situazione italiana, con l'incarico di concludere in tempi brevi l'alleanza, mentre una sua ambasceria sollecitava a Roma ugual decisione da parte della S. Sede. Di fronte a tanta celerità, il 26 giugno Venezia rispondeva esattamente come il D. aveva previsto e temuto: occorreva raffreddare gli ardori del duca, ripetergli che la condotta della Repubblica doveva essere combinata con quella pontificia, fargli presente il crescente impegno al quale essa era chiamata in Levante, nell'Egeo. Per prendere tempo, si recasse intanto a Parigi, al fine di ottenere da Luigi XI la restituzione di una galera catturata dai Francesi e - se possibile - la revoca delle misure antiveneziane.
La caduta di Negroponte e la sconfitta toccata in Romagna alle truppe veneto-pontificie (30 ag. 1469), ad opera di Federico da Montefeltro, ebbero infine ragione dei tentennamenti del Senato che accondiscese all'alleanza col Temerario. Ancora una volta il D. era riuscito a portare a termine positivamente l'incarico, sia pure a prezzo di gravi sacrifici personali: se ne ricordarono i concittadini allorché, il 20 marzo 1470, acconsentirono ad eleggere il suo sostituto, in considerazione del fatto che "nulli labori et incommodo suo parcendo conatus est facere honorem nostri dominii cum incredibili interesse et damno rerum et fortunarum suarum".
Tornato in patria alla fine dell'estate, l'anno seguente fu eletto savio di Terraferma (marzo-settembre 1471) e, nel dicembre, podestà e capitano di Ravenna.
La città, perennemente in contrasto con la vicina Faenza per lo sfruttamento delle saline, era una enclave circondata da possedimenti non veneziani: il rafforzamento delle difese mobili e permanenti costituì pertanto la principale occupazione del D., che dovette confrontarsi con problemi inusitati e remoti dai suoi interessi e dalla sua esperienza. Alla fine del '72 ebbe tuttavia il conforto di accogliere l'amico Bessarione, che ritornava da una deludente missione presso il re di Francia. A Ravenna giungeva però un uomo ormai fisicamente e moralmente scosso, e proprio nella città adriatica il cardinale si spegneva, il 18 novembre. Uguale sorte toccò, di lì a poco, anche al D., la cui morte avvenne tra il 24 ed il 30 marzo 1471 giorno in cui fu eletto il suo successore. Il corpo venne trasportato a Venezia e sepolto nell'arca di famiglia, ai SS. Giovanni e Paolo.
Fonti e Bibl.: Sulla sua vita: Arch. di Stato di Venezia, Misc. Codici I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' Patritii..., III, p. 188; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 163, c. 189v; Ibid., Avogaria di Comun. prove di età per patroni di galere, reg. 178, ad annum; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 16 (= 8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, II, cc. 6r, 9v; Ibid., Mss. It., cl. VII,538 (= 7734): Libro di nozze e genealogie di fam. patr., c. 47r; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 2151: Mem. illustri della famiglia Dandolo, cc. non numerate; Ibid., Cod. Cicogna 3776: Cronaca Veniera, c. 212v. Fuorviante il Priuli (ibid., Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti …, I, c. 215rv) - e, sulla sua scorta, il Degli Agostini - che lo ritiene conte a Zara nel 1469 e lo fa poi morire di veleno, per mano di un servo, lo stesso giorno in cui finì di vivere il Bessarione. Sulle ambascerie in Borgogna e in Savoia: Archivio di Stato di Venezia, Senato. Terra, reg. 6, cc. 4r, 22r. 36v, 48r-49v, 54r, 77v, 82v, 85v, 91r, 128v, 132v, 141; Ibid., Senato. Delib. secreta, regg. 23-24, ad annum; sui successivi incarichi a Venezia e Ravenna: Ibid., Senato. Delib. secreta, reg. 25, cc. 11r, 18r, 20rv, 23r, 31r, 35r, 37v, 44r, 48r; Ibid., Segr. alle Voci. Misti, reg. 6, c. 22v. Per il testamento, che nomina amministratrice dei beni la moglie, "donec vixerit et vitam vidualem honeste et caste duxerit": Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 1240/29. Vedi inoltre: Calendar of State Papers ... relating to English affairs existing in the archives ... of Venice ..., a cura di R. Brown, I, London 1864, p. 119; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, 3, Mediolani 1733, coll. 1168, 1209; M. Benavides Mantova, Epitoma virorum illustrium…, Patavii 1555, p. 12; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniz., I, Venezia 1752, pp. 509-14; V. Bini, Memorie istor. della perugina Università degli studi e dei suoi professori, I, 2, Perugia 1816, p. 367; P. M. Perret, Histoire des relations de la France avec Venise du XIIIe siècle à l'avènement de Charles VIII, I, Paris 1896, pp. 480 s., 499, 501 s., 506, 512 s., 519, 523 ss., 527, 533, 555, 579.