CONTI, Antonio de'
Nacque probabilmente a Padova, nel sec. XV. Che il C. fosse padovano, conte, cavaliere e giureconsulto risulta dal titolo della sua opera in onore della marchesa Isabella d'Este, moglie di Francesco Gonzaga.
Ignoti per altro sono la data di nascita, l'ambiente in cui visse e il curriculum degli studi; dato il silenzio delle varie genealogie della famiglia patavina su di lui, non sono più precise le notizie che si possono ricavare dal titolo di cui egli si fregiava, "de comitibus sancti Martini", giacché non ci è dato precisare se "sancti Martini" si riferisse ad un ramo della famiglia Conti (nota nella Padova del tempo) così detto per avere possedimenti in San Martino di Calvarese, o per abitare (o aver abitato) nella contrada di San Martino, o se, invece, designasse tutt'altra famiglia che aveva il titolo di "conti di San Martino".
Comunque, il C. risulta un intellettuale gravitante intorno alla corte di Mantova, interessato ad instaurare con essa un legame che superasse quello di simpatizzante per approdare all'altro ben più stabile e remunerativo di "dipendente". E in questo sappiamo che spese molte energie, se bisogna prestare fede alle sue stesse affermazioni: in una lettera inviata il 29 luglio 1493 al marchese ricorda infatti "la anticha servitù et fede portata ne la mia etate al quondani ex.mo vostro avo et ill.mo vostro patre". I risultati non dovettero soddisfarlo se, a distanza di due anni, prese di nuovo l'iniziativa e inviò a Francesco Gonzaga delle composizioni poetiche in latino ed in volgare per congratularsi del felice esito della battaglia del Taro (o di Fornovo, del 6 luglio 1495) nella quale il marchese, a capo delle forze della lega santa, aveva sconfitto Carlo VIII re di Francia. Ma evidentemente neanche questa volta la corte mantovana si mostrò attenta all'omaggio del cavaliere e giureconsulto di Padova, tantu che solo qualche giorno dopo, il 26 agosto, questi si vide costretto a ricordare al marchese, con una lettera, i suoi "latini et vulgari versi" e, soprattutto, a rinnovare la sua richiesta: "sono disposto ad ogni servitù, comodità et exaltatione de la prelibata Vostra illustrissima Signoria".
Non è facile comunque cogliere nelle formule stereotipe e nei luoghi comuni sulle difficili e precarie condizioni di vita dei cortigiani ("alli presenti nostri bisogni, che certo grandissimi sono, suaque sola clementia, supplico adjuto porga") i termini reali della condizione dei C., e bisognerà limitarsi a ipotizzare dietro quel nome uno dei tanti mediocri letterati che gravitavano ora intorno ad una corte, ora intorno ad una cancelleria o ad una curia (nel caso particolare quelle di Bologna, di Mantova e, probabilmente, della natia Padova), ai quali le composizioni letterarie, di carattere per lo più celebrativo, servivano soprattutto da lasciapassare per accedere ai tanto agognatì incarichi di segreteria (condizioni e ruolo non troppo diversi da quelli che, quasi negli stessi anni, furono propri dell'Ariosto a Ferrara).
Triumphale opus definisce il C. l'opera composta in lode della marchesa Isabella e terminata prima del 29 luglio 1493 (giorno, si è visto, in cui scrisse al marchese ricordandogli l'operetta), e tale in effetti la dobbiamo riconoscere in quanto mira a rappresentare un vero e proprio trionfo della dedicataria, e, insieme, in quanto è modellata sui Trionfi petrarcheschi (dei quali riprende metro, lessico e immagini). L'epistola che precede le duecentoventidue terzine ne nasconde a fatica lo scopo ultimo ("se... me al numero dei servi toi ascripto uorai"), anche se tutto il discorso tende a magnificare quei principi e signori che hanno avuto la fortuna di vedere le loro gesta cantate, e perciò eternate, dai poeti. L'opera, spiega l'autore, rappresenta "uno uero & eterno templo di diuine uirtu" nel quale la marchesa potrà rispecchiarsi e conoscersi meglio. Il Triumphale opus, come le altre testimonianze dell'attività letteraria del C., non denota né rispecchia l'impegno o l'ansia dell'uomo di lettere, ma, del tutto occasionale com'è e privo della minima vitalità, nasce (e muore) con le circostanze che l'hanno determinato. Il linguaggio, le immagini, la struttura stessa del suo lavoro più organico e più impegnativo, non vanno al di là di un mediocre petrarchismo e la grandiosità dell'impianto, nonché innalzare la materia ne evidenzia la natura ampollosa e artificiosa; nessuna meraviglia quindi che la corte mantovana restasse sorda a quei versi e a quelle lettere.
Il Triumphale opus (Ad divam Isabellam de Gonzaga Mantuae Marchionissam Antonii de comitibus sancti Martini patavini comitis equitis iure consulti de suarum virtutum laudumque praestantia triumphale opus) si conserva in un manoscritto della Biblioteca comunale di Mantova (segn. I.VI.28 [1355]). Il Mazzatinti (Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, VIII, p. 189) segnala un sonetto ("Cristo Jesù Idio trino et intero") nella silloge poetica dei manoscritto Magl. VII, 342 della Biblioteca nazionale di Firenze, mentre un altro sonetto ("Se 'l celeste Leon advien che saglia") pubblicano A. Luzio e R. Renier nel loro Francesco Gonzaga alla battaglia di Fornovo (1495) secondo i documenti mantovani, in Arch. stor. ital., V-VI (1890), pp. 205-246. Altre indicazioni in P.O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 265, 267; II, pp. 67, 84, 518.
Fonti e Bibl.: Una prima descrizione del poemetto del C. ed una prima serie di notizie sull'autore, rimaste poi fondamentali, in G. Andres, Catalogo de' codici manoscritti della famiglia Capilupi di Mantova, Mantova 1797, pp. 183-187. La lettera al marchese è riportata da C. D'Arco nelle Notizie di Isabella Estense moglie a Francesco Gonzaga, in Arch. stor. ital., II (1845), App., pp. 298 S. Fanno un po' il punto sul C., A. Luzio-R. Renier, in La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, in Giorn. stor. della lett. ital., XXXVII (1901), pp. 229 s.