DE DOMINICIS, Antonio
Nacque ad Ascoli Piceno, nelle Marche, il 2 genn. 1826.
Dopo aver studiato giurisprudenza, quasi certamente a Roma, cominciò ad esercitarvi la professione di legale nello studio di famiglia, acquistando con il tempo notevole fama e ricca clientela: basti ricordare casa Torionia e l'ambasciata di Francia. Con lui e con pochi altri avvocati cominciò ad apparire sulla scena romana degli anni Cinquanta una figura sociale nuova, moderna, di professionista capace di muoversi con sicurezza e con autorità nell'intrico della legislazione e dell'amministrazione pontificie, non più cliente dell'alto ceto nobiliare ed ecclesiastico, non più passivo oggetto ma interlocutore, sollecitatore di moderne riforme ma anche abile mediatore. Dovette anch'egli contribuire alla stesura di una lunga "Memoria sulla legislazione e sull'ordinamento giudiziario nello Stato pontificio", redatta, in chiave anche di opposizione politica, prima dell'unificazione italiana (Roma, Museo centrale del Risorgimento, vol. 584).
Nelle file di quell'opinione "fiancheggiatrice" che sosteneva il Comitato nazionale romano, partito clandestino liberale e unitario, strettamente legato al gruppo ricasoliano toscano, nel 1864 il D. fu obbligato a prendere posizioni di primo piano - con il moderato L. Dubino e il democratico N. Costa - nell'ambito della sua direzione.
M. Minghetti, nel governo dopo la fallita avventura garibaldina del '62, aveva dato inizio a una segreta manovra -sostenendola con un forte appoggio finanziario e una vivace campagna di stampa - per incentrare nella città stessa una soluzione della questione romana: era la popolazione a dover manifestare la sua volontà unitaria e nazionale, nell'ambito di quella "sovranità" che i governi liberali europei non potevano disconoscere. Al Comitato veniva affidato il compito di prepararla sia come massa di opinione sia come massa di manovra: nella prima dovevano confluire esponenti delle più alte sfere sociali, nell'altra schiere di popolani organizzati per una eventuale rivolta, come quella di cui fu avviata l'organizzazione in previsione della morte di Pio IX. Il governo pontificio era intervenuto rapidamente, inviando in esilio, con tutti i capi, centinaia di liberali.Il D. appare, nei suoi cifrati rapporti (pseudonimo "Enrico"), più trascinato che convinto nella operazione della rivolta interna: la convenzione di settembre che procrastinava di due anni l'iniziativa su un terreno sgombro dalle truppe francesi venne quindi da lui accolta con sollievo. Chiamato a Torino dal nuovo presidente del Consiglio G. Lanza alla fine del 1864, riferì sulle condizioni della città e della cittadinanza; ebbe incontri anche con gli esponenti di quel gruppo piemontese - in primo piano M. Castelli - che reagiva al trasferimento della capitale a Firenze con una insistita azione sul terreno romano, in polemica con i moderati toscani e in collegamento con gli esuli democratici (in primo piano M. Montecchi).
Il D. era circondato da un alone di sospetto e sfiducia: lo si sapeva legato alla "consorteria" ricasoliana. Venne ridotta l'elargizione di fondi segreti, ma rinnovata la richiesta di un'opera di propaganda (alla Cronaca romana si sostituirà un nuovo giornale, La Roma dei Romani con una incitazione esaltante: "voi avete dunque in mano le vostri sorti. Voi potete esercitare quel diritto che ormai non si nega ad alcun popolo, il suffragio universale": Bartoccini, La "Roma dei Romani", p. 410). Venne anche richiesta un'opera approfondita di informazione su quanto avveniva nella città, a livello sia di Curia sia di ambiente borbonico. I rapporti del D. sono quindi ricchi di notizie (vi ricorre spesso il nome dei Mazio, fedelissimi del pontefice), mentre egli personalmente si adoperava - sfruttando la sua posizione professionale - per guadagnare alla causa italiana gli aristocratici (entrarono nel Comitato alcuni cadetti di grandi famiglie); contemporaneamente si allontanarono molti democratici, fra cui il Costa, polemici denunciatori di politica miope e rinunciataria.
Il D. s'illudeva, per i suoi rapporti con l'ambasciata francese, di far sentire il peso del Comitato, mentre era invece l'altra parte a trarre da lui informazioni e a svolgere opera di persuasiva moderazione. S'illudeva anche - e ingannava i suoi interlocutori - sulla potenzialità del partito che si stava invece dissolvendo: "Qui le compose? On l'ignore. Où siège-t-il? On ne le sait pas. Sans cesse recherché par la police il lui échappe toujours et son existence est tellement mistericuse que certain gens prétendent qu'il n'existe pas, que c'est un mythe" (A. S. Kauffman, Chroniques de Rome..., Paris 1868, p. 12). E lui stesso riconosceva: "lavoriamo su larga base, e con quella energia che la stanchezza degli animi richiede. I lunghi disinganni, l'aspettare perpetuo e inutile, ha generato una rilasciatezza da sgomentare veramente" (Museo centr. del Risorgimento, b. 913/3).
A causare quello stato di indifferenza e di passività che disgregava l'isola del movimento patriottico non erano però solo la diminuzione dei finanziamenti del governo italiano, che indeboliva le interne operazioni di potere, e la crescente polemica di "dissidenti" democratici: nel quadro della vita politica e istituzionale, culturale ed economica italiana, con cui Roma stava intessendo sempre più fitti rapporti con il sostegno di una vivacizzata opinione, le società segrete apparivano anacronistiche sopravvivenze di un mondo scomparso. Il linguaggio del D. divenne ambivalente: auspicava il dovere d'intervento dello Stato italiano da un lato e dall'altro reclamava il diritto di scelta della popolazione locale. Forte - ma vana - fu la sua protesta per le missioni Vegezzi e Tonello, perché non solo tentavano di instaurare un rapporto con il Papato, ma perché mostravano di ignorare l'esistenza, come interlocutore, del Comitato liberale.
Nel 1866 il D. venne chiamato dal governo italiano a più dirette e precise responsabilità: la partenza delle truppe francesi di occupazione riproponeva il problema dell'iniziativa interna. In novembre, a Firenze, Ricasoli lo rassicurò sull'intenzione di concedere al pontefice "un ultimo esperimento di vitalità" (Bartoccini, La "Roma dei Romani", p. 495). L'avvento di Rattazzi, che eliminò finanziamenti e rapporti privilegiati, accantonò il D. sulla scena romana, dove si cominciò ad organizzare, con vivaci pressioni esterne, un partito d'azione in cui confluivano moderati e democratici: era in preparazione una rivolta interna cui avrebbero dovuto portare sostegno i volontari garibaldini ammassati alla frontiera. Il D. riapparve in primo piano, chiamato a Firenze a prendere istruzioni governative (è lui quell' "Enrico" non identificato da Luzio), e invitato a riorganizzare un nuovo Comitato dalle ampie dimensioni politiche; Rattazzi, nel precipitare della situazione alla metà di ottobre 1867, finì per chiedergli un'iniziativa interna che permettesse all'esercito italiano di passare i confini in difesa dell'ordine pubblico.
Fu Garibaldi a passarli, poi sconfitto a Mentana e Monterotondo, mentre nella città si ebbe solo qualche sussulto insurrezionale. L'iniziativa più significativa del gruppo moderato romano, che non aveva mai accettato pienamente l'accordo con i democratici, fu quella dell'invio al municipio, per la trasmissione al pontefice, di un indirizzo in cui si chiedeva l'autorizzazione all'ingresso delle truppe italiane. La polemica sarà vivacissima, rintracciabile per decenni, con accuse di tradimento, rivolte soprattutto al D., sospetto informatore dell'ambasciata francese, e di appropriazione indebita di denaro destinato all'insurrezione. L'accusa appare eccessiva, ma certo l'azione interna fu condizionata anche da consigli ed ammonimenti stranieri, oltre che dalla incapacità e mancanza di volontà del D., e del gruppo moderato da lui guidato, di arrivare a uno scontro diretto.
Il D. sparì dalla scena politica locale insieme con il Comitato, non più riconosciuto e privilegiato nel rapporto con il governo italiano: un sempre più ricco tessuto di relazioni legava ormai la città all'accerchiante Regno italiano. Ricomparve brevemente nell'ottobre del 1870., dopo la breccia, in una commissione di giureconsulti incaricata dalla giunta provvisoria di governo di preparare l'introduzione dei codici italiani. Come legale mantenne una posizione di grande rilievo sulla scena sociale (nello studio di piazza Venezia aveva "numerosa e ricca clientela": L'Illustraz. ital., 4 luglio 1886); insieme con altri professionisti romani gli avvocati assicuravano conoscenza del difficile terreno locale e abilità nella mediazione con il mondo esterno che improvvisamente vi si proiettava. In una linea di tendenza che vedeva in alcune province del Regno privilegiata la scelta di un deputato di residenza romana, sicuro aggancio con il potere governativo, il D., nelle file della Destra, rappresentò in Parlamento Ascoli Piceno dal 1870 al 1882 (anno di allargamento dei suffragio e scrutinio di lista) e dal 1884: difese il diritto della città ad essere capoluogo di provincia, ne curò i collegamenti ferroviari.
Nel 1892, con l'operazione della grande "infornata" giolittiana, in un quadro di vivaci polemiche, ricomparve in primo piano con la nomina a senatore: la scelta privilegiava, più che un superstite della tradizione patriottica, un illustre esponente dell'alta borghesia romana.
Morì a Roma il 4 luglio 1897.
Fonti e Bibl.: Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Checchetelli, schedari ad nomen (carte politiche del Comitato); Archivio di Stato di Roma, Gli archivi delle giunte provvisoriedi governo, a cura di C. Lodolini Tupputi, Roma 1972, p. 32; A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935, pp. 365-370; F. Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1970, ad Indicem;Id., Roma nell'Ottocento, Bologna 1985, ad Indicem; T. Sarti, Il Parlam. subalp. e naz., p. 355. Sulle polemiche relative alla posizione assunta nel 1867: N. Costa, Quel che vidi e quel che intesi, a cura di M. Guerrazzi Costa, Milano 1927, p. 201; D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Roma 1961, ad Indicem.