DE GENNARO (De Jennaro, Gennari), Antonio
Nacque con ogni probabilità a Napoli nel 1448 c. da Masotto, patrizio napoletano del seggio di Porto, e da Giovannella D'Alessandro.
Compiuti gli studi giuridici ed entrato a far parte del Sacrum Collegium doctorum utriusque iuris, intraprese la carriera giuridico-amministrativa, divenendo nel 1481 giudice della Gran Curia della Vicaria; nel 1482 era nominato consigliere di Ferdinando d'Aragona, per il quale compì anche alcune missioni diplomatiche. Conclusa la vicenda che aveva visto il trono di Ferdinando messo in pericolo dalla seconda rivolta dei baroni, il sovrano, nel marzo del 1487, inviò il D., rimasto fedele alla Corona aragonese, nelle terre del principe di Bisignano per restaurarne l'autorità nel suo dominio. All'inizio del maggio del medesimo anno il re lo inviò, poi, nelle terre di uno dei baroni ribelli, il principe di Salerno, fuggito a Roma: il D. doveva prenderne possesso in nome del sovrano, instaurando su di esse il diretto dominio regio.
Nel 1491 il D., divenuto anche uditore regio, fu inviato dal sovrano a Milano. Secondo il Toppi, nel medesimo anno avrebbe compiuto una missione diplomatica anche presso Ferdinando il Cattolico, ma la notizia non è confermata da altre fonti.
Com'è noto, la situazione dinastica a Milano era allora complicata dal fatto che il legittimo titolo di duca apparteneva a Gian Galeazzo Sforza, ma il potere effettivo era detenuto dallo zio Ludovico Maria, detto il Moro, duca di Bari. La situazione dell'oratore era resa ancora più delicata, poiché il legittimo duca aveva sposato, nel 1489, Isabella, nipote del re di Napoli. Dopo la nascita del figlio (30 genn. 1491), Isabella non aveva mancato di elevare lamentele con il nonno nei confronti del Moro, che di fatto aveva esautorato il marito.
Il D., insieme con il fratello Ferdinando, si fece interprete delle rimostranze, sia pur piene di cautela, del re di Napoli. Il discorso dei due oratori, riportato dal Corio, non lesina lodi al duca di Bari, chiamato non solo "auctore de la pace, ma anche conservatore di quella", invitandolo quasi umilmente a "voler assegnare il sceptro de lo imperio a Giovanni Galeazo". Il Moro si giustificò facendo rilevare che su di lui erano sempre pesati gli oneri e le preoccupazioni delle cure del governo, mentre al nipote erano riservati gli onori della sua posizione.
L'anno dopo il D. si recò di nuovo a Milano. Partì da Napoli nel giugno e passato per Firenze, ove era opinione comune che andasse a richiamare il duca di Bari a un comportamento più leale nei confronti del nipote, e per Bologna, ove fu ricevuto da Giovanni Bentivoglio, arrivò a Milano alla fine del mese o ai primi di quello successivo, accolto a corte con gli onori dovuti ad un ambasciatore aragonese sia dal duca di Milano sia da quello di Bari.
Doveva sollecitare un intervento milanese presso Genova, perché si reprimessero in qualche modo i corsari genovesi che infestavano i mari e le coste di Calabria. L'oratore doveva barcamenarsi fra le due corti, visitando or l'una or l'altra duchessa, che, ambedue sue nipoti, il re sosteneva di avere "in lo medesimo grado" e di reputare "per proprie figliole". Ma presto si presentò fra lo Stato che il D. rappresentava e quello presso cui era accreditato una crisi politica. Eletto papa Alessandro VI, il Moro aveva proposto che i membri della lega presentassero al nuovo pontefice l'obbedienza in comune e il re Ferdinando, dopo avere in un primo tempo accettato, si fece convincere a non farlo da Piero de' Medici. Di qui le rimostranze del Moro verso re Ferdinando, che si affannava, nelle lettere all'oratore, a fornire giustificazioni al suo operato da esibire al duca. Altra questione che stava a cuore al vecchio re, che non mancava di proclamare il suo affetto paterno per il Moro, era quella della figlia Beatrice, regina d'Ungheria, ai danni della quale alla corte di Milano si pensava a un matrimonio di Bianca Maria Sforza con Ladislao. Le difficoltà che il D. incontrò nella sua missione non erano, peraltro, limitate a queste controversie. Si andava infatti delineando sin dai primi tempi del suo soggiorno milanese una frattura tra la corte sforzesca e quella napoletana, frattura che il D. cercò, inutilmente, di contrastare e che portò alla rottura degli equilibri italiani, con il formarsi da un canto dell'alleanza tra il papa, Milano e Venezia e dall'altro tra Napoli e Firenze. Ferdinando, comunque, sollecitò sempre il D. a ricercare con cautela e con tatto soluzioni che evitassero la definitiva divisione tra gli schieramenti.
Il sovrano sembrava soddisfatto dell'opera che il D. svolgeva nella città lombarda e nel marzo 1493 gli comunicava prima di aver fatto ottenere a un suo parente l'arcivescovato di Sorrento, avendo "respecto" ai suoi servizi e a tutta la sua casa e poi di aver concesso 50 ducati alla moglie, "perché se ne possa adiutare in li soi bisogni".
In quel medesimo anno, a Milano, il D. ottenne l'interessamento del duca per la concessione di risarcimenti da parte di Genova per i danni arrecati da corsari nel Napoletano, si assunse l'incarico di acquistare nella città lombarda mille briglie, descrisse nel dicembre i festeggiamenti per il matrimonio di Bianca Maria Sforza con l'imperatore. Il D. continuava a ricercare una mediazione tra le posizioni milanesi e napoletane. A questo fine rassicurò il Moro sulla partecipazione avuta da Ferdinando nella questione di Virginio Orsini, il quale nel settembre 1492 aveva acquistato Cerveteri e Anguillara da Franceschetto Cibo. La questione era tra le cause della divisione tra le potenze italiane: alla vendita erano stati, infatti, favorevoli Piero de' Medici e Ferdinando, mentre Alessandro VI, timoroso di un eccessivo accrescimento della grande famiglia baronale romana, si era opposto decisamente, trovando il sostegno del Moro. Nel corso del 1493 gli Stati italiani cercarono di risolvere la questione e nell'agosto fu raggiunto un compromesso accettato da tutte le parti. Quando, poi, le sollecitazioni milanesi a Carlo VIII divennero consistenti, il D. tentò di convincere il Moro di quanto fosse pericoloso non solo per Napoli, ma anche per Milano, il suo atteggiamento verso il re di Francia: ma tutta la sua azione, com'è noto, fu inutile.
Anche nel gennaio 1494, quando già Carlo VIII aveva dato inizio alle ostilità, il D. aveva esortato invano il Moro a impedire che il sovrano francese armasse in Genova contro il Regno, "confortandolo ad ponderare bene" le conseguenze delle sue azioni e a quanto fosse disonorevole "porre Italia in foco et ruine".
Il D. tornò a Napoli nel maggio 1494, e Alfonso II, salito al trono pochi mesi prima, lo inviò subito dopo presso Alessandro VI. Nel novembre, insieme con l'altro oratore regio, Bernardino Carafa, assistette al colloquio del papa con il principe di Anhalt, al quale il pontefice fece presente come l'imperatore avrebbe dovuto sentirsi in dovere di opporsi al re di Francia. Rimase a Roma mentre si compiva la rovina del Regno, ritornando a Napoli, insieme con il principe di Salerno, durante il soggiorno di Carlo VIII nella città (febbraio-maggio 1495). Quest'ultimo lo confermò nelle sue cariche, ma, restaurata la monarchia aragonese, il D. tornò a servirla: Ferdinando II lo inviò a Venezia nel medesimo 1495 e successivamente Federico lo mandò in Spagna presso Ferdinando il Cattolico nel 1497 e nel 1500-01, con l'incarico, fra l'altro, di concludere il matrimonio dell'infanta Giovanna con Ferdinando, duca di Calabria, e di tentare la stipulazione di un trattato di alleanza fra i due Stati.
Le sue vicende personali parevano invece abbastanza prospere, poiché re Federico lo aveva nominato uditore regio, gli aveva donato due territori, uno vicino Benevento e uno in quel di Caserta, il casale di Crispano e una rendita annua di 200 ducati sugli introiti della dogana di Napoli; il D., inoltre, aveva acquistato una rendita di 200 ducati sulla dogana di Bisceglie da Nicola Maria Caracciolo, una di 100 ducati sul passo di Ottaviano dal conte di Nola ed una di 280 ducati sulla terra di Grottaminarda dal marchese di Corato. Il 25 luglio 1501 otteneva dal re, poco prima della conquista francese di Napoli, la concessione di estrarre trenta carri di sale dalle saline di Torre a Mare.
Evidentemente ostile ai Francesi, ma realisticamente lontano dalla speranza di un ritorno aragonese, quando gli Spagnoli stavano per sottrarre Napoli e il Regno ai Francesi, il D., nel maggio del 1503, insieme con altri baroni napoletani, alla testa di 200 cavalli, convinse la popolazione a far entrare gli Spagnoli nella città dalla porta del Mercato. Fu di nuovo allora un uomo di primo piano nell'amministrazione pubblica, divenendo intrinseco di Consalvo di Cordova, primo viceré spagnolo. Fu fatto percettore della Sommaria, insieme con il figlio Giovanni Tommaso, ed ebbe la riconferma di alcuni proventi. Allorché giunse a Napoli Ferdinando il Cattolico (novembre 1506), il D. fu tra coloro che lo scortarono nella cavalcata di ingresso nella città e presiedette il Parlamento del 30 genn. 1507, durante il quale baroni e sindaci del Regno prestarono al re il ligio omaggio. Nel 1511 divenne viceprotonotario e presidente dalla Sacra Curia e deteneva ancora queste cariche quando rappresentò il sindaco della città il 17 luglio 1519, in occasione dei festeggiamenti tenuti a Napoli per l'elezione di Carlo V a imperatore; poco dopo però fu sostituito, ma solo nelle funzioni e non nel titolo, da Francesco Loffredo.
Morì nell'aprile del 1522 probabilmente a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di S. Pietro Martire.
Gli fu eretto un sepolcro, opera di Girolamo Santacroce; del sepolcro, smembrato, furono riportate nella chiesa nel 1847 la statua funeraria e due altre sculture rappresentanti la Giustizia e la Prudenza.Dalla moglie, Giovannella Origlia, ebbe il già ricordato Giovanni Tommaso e Giovan Girolamo.
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