MEDICI, Antonio de’
Nacque il 29 ag. 1576, verosimilmente a Firenze, dal granduca Francesco I e da Bianca Cappello, nobildonna veneziana all’epoca amante del sovrano.
Numerosi elementi lasciano supporre che l’identità del M. fosse inizialmente tenuta nascosta alla corte. Probabilmente fu svelata solo nel giugno 1579, quando Francesco I decise di presentare ufficialmente Bianca come nuova granduchessa, rendendo noto il loro matrimonio segreto celebrato il 5 giugno 1578, poco dopo la morte della prima moglie, Giovanna d’Asburgo. In seguito alla precocissima scomparsa di Filippo (nato il 20 maggio 1577 e morto il 29 marzo 1582), unico maschio avuto da Giovanna, il granduca designò il M. come suo successore. Dopo averlo legittimato, nel 1583, e presentato ufficialmente al Consiglio dei duecento, cercò di ottenere dal re di Spagna una conferma alla legittimità della propria scelta. Nel 1584 il M., su richiesta del padre, fu insignito da Filippo II del titolo di principe di Capestrano (marchesato abruzzese innalzato per questa occasione a titolo principesco).
Nella quiete delle ville medicee il M. visse serenamente fino a quando, il 20 ott. 1587, i suoi genitori perirono inaspettatamente.
Recenti studi confermerebbero l’ipotesi, già circolata al tempo, che la morte della coppia granducale fosse causata da un avvelenamento a base di arsenico disposto dal cardinale Ferdinando de’ Medici (fratello di Francesco e granduca dal 25 ott. 1587), che si affrettò a ordinare un’autopsia per fugare tali sospetti (Mari - Bertol - Polettini).
Qualche mese più tardi il M. si ritrovò vittima di un’altra meschina trama, che lo privò del rango di erede al trono. Il 5 marzo 1588 lo zio gli comunicò di essere entrato in possesso di documenti dai quali risultava che egli non era figlio di Francesco e di Bianca, bensì di una popolana che lo aveva ceduto ancora in fasce alla presunta madre. Quest’ultima, secondo le carte create artificiosamente da Ferdinando I con la collaborazione del fidato giurista e arcivescovo di Pisa Carlo Antonio Dal Pozzo, avrebbe inscenato sia la gravidanza sia il parto, nel tentativo di dare all’amante quel sospirato maschio che la moglie non era ancora riuscita a generare. Ferdinando I fece addirittura sparire il testamento disposto dal fratello, cancellandone anche la registrazione all’ufficio delle Riformagioni. Tali macchinazioni comportarono, per il M., la perdita del cognome e l’annullamento di tutte le donazioni in suo favore.
Diffamato, defraudato e soprattutto disarmato, al M. non rimase altra scelta che accettare l’offerta dallo zio, il quale con falsa magnanimità promise di riabilitarlo nella successione dei beni e di riconoscerlo ugualmente come membro della famiglia a patto che egli fosse entrato, una volta divenuto maggiorenne, nell’Ordine dei cavalieri di Malta. Con questa condizione il nuovo granduca, che si riservava comunque la facoltà di revocare in qualsiasi momento la riabilitazione, portò a compimento il proprio disegno ai danni del Medici.
Lo statuto dell’Ordine dei cavalieri gerosolimitani prevedeva infatti il voto di povertà e di castità. Ciò comportava non solo la rinuncia del M. alla proprietà dei beni, dei quali avrebbe mantenuto il solo titolo di usufrutto (egli poté comunque contare anche su un vitalizio concessogli da casa Medici e sulle rendite del priorato di Pisa assegnatogli da Clemente VIII), ma anche l’obbligo al celibato, con l’impedimento così di generare discendenti legittimi, che avrebbero potuto un giorno avanzare scomode rivendicazioni.
Dopo la cerimonia di investitura al cavalierato, avvenuta nell’aprile del 1594, il M. fu impiegato da Ferdinando I per incarichi diplomatico-militari. Nel luglio dello stesso anno partì per l’Ungheria al comando di un contingente per prestare soccorso all’imperatore Rodolfo II d’Asburgo impegnato contro l’offensiva turca. Lì ebbe modo di mettere in mostra tutto il suo entusiasmo, ma una brutta ferita gli negò presto la possibilità di dimostrare appieno il proprio valore. Andò comunque meglio l’anno successivo quando, ancora impegnato nella campagna ungherese, partecipò ad alcune importanti battaglie, tra cui quella che consentì all’esercito cristiano di prendere il castello di Višegrad.
Durante la spedizione si erano però manifestati i primi segnali di una cattiva salute, che gli fu sgradita compagna per tutta la vita e che lo costrinse a frequenti riposi forzati. Ciononostante, nel 1607 il M. ebbe una nuova occasione per servire con le armi il Granducato, quando fu impegnato nella spedizione contro Cipro, frutto dell’iniziativa di papa Paolo V. Già dall’anno precedente si era più volte recato a ;Livorno per controllare la situazione della flotta e l’intera organizzazione logistica, ma a tanto zelo non fecero seguito i risultati sperati. L’impresa infatti, comandata dal conestabile Francesco del Monte a Santa Maria, al quale il M. era stato aggiunto con il brevetto di collaterale, si rivelò ben presto fallimentare, non solo a causa della controffensiva nemica e delle errate manovre militari toscane, ma anche per la mancata sollevazione degli abitanti greci, sulla quale il granduca aveva riposto larghe speranze.
Deluso e amareggiato, il M. tornò a svolgere per la corte funzioni diplomatiche e di rappresentanza.
Tra le sue missioni si ricorda soprattutto quella relativa al matrimonio della sorellastra Maria che, nell’autunno del 1600, andò in sposa al re di Francia, Enrico IV. In quell’occasione il M., al comando di cinque galere maltesi che facevano parte di una più ampia flotta, ebbe l’incarico di accompagnare la sposa fino a Marsiglia.
La dimensione più autentica del M. può essere colta non nella corte di palazzo Pitti, ma in un contesto più intimo come quello del casino di S. Marco, il palazzo buontalentiano che fu la sua residenza e la sede delle sue numerose passioni. Lì, per esempio, allestì un teatro che, grazie al reclutamento di abili attori, divenne un importante punto di riferimento per il mondo teatrale, dove illustri ospiti assistettero a pregevoli rappresentazioni. Riuscì inoltre ad avere al proprio servizio validi musicisti e cantanti, tra i quali Giovanni Gualberto Magli. Nel campo musicale il M. seppe spingere il proprio interesse oltre il semplice gusto dell’appassionato, cimentandosi in prima persona con la chitarra e il pentagramma. Questo non fu comunque l’unico ramo in cui egli dimostrò le proprie abilità pratiche. La sua particolare predisposizione verso gli aspetti tecnico-artigianali lo portò infatti a diventare un provetto costruttore di orologi e di armi, forgiate nella fonderia del suo casino. La produzione di armi fu affiancata da studi di balistica.
Al di là di questi interessi, la grande passione del M., ereditata senza dubbio dal padre, fu la ricerca alchemica e la sperimentazione. A essa dedicò gran parte delle proprie risorse. Grazie all’aiuto di validi collaboratori, di una fitta rete di relazioni (in cui figura Galileo Galilei, al quale fu legato da sincera amicizia e che fu più volte suo ospite) e al supporto di una ricchissima biblioteca scientifica, il M. riuscì a far diventare il suo laboratorio uno dei più attivi centri di ricerca e sperimentazione. A testimoniarlo, oltre al suo epistolario ricco di scambi di ricette e segreti, sono due preziosi manoscritti (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., XVI.63: Apparato della fonderia dell’ill.mo.…Sig. d. Antonio Medici. Nel quale si contiene tutta l’arte spagirica di Teofrasto Paracelso et sue medicine. Et altri segreti bellissimi, del 1604; XV.140: Segreti sperimentati dall’ill.mo.…Sig. d. Antonio de Medici nella sua fonderia del casino).
Nel Magl. XVI.63, raccolto in quattro tomi, sono contenute alcune migliaia di ricette. La maggior parte di esse è di carattere medico e offre un interessante spaccato del quadro delle patologie all’epoca più frequenti. Accanto alla medicina, in certi casi non scevra di elementi di superstizione, trovano spazio la botanica (numerose le piante utilizzate, alcune delle quali coltivate nel casino di S. Marco già dai tempi di suo padre), l’astrologia, la chiromanzia, l’alchimia, la mascalcia e anche un buon numero di ricette dedicate alla cucina, alle cure estetiche e afrodisiache.
A causa di dissapori con la corte di Cosimo II, succeduto a Ferdinando I nel 1609, la sua attività diplomatica fu progressivamente ridotta. Dopo la morte del granduca Ferdinando I, il diarista di corte lo nomina sempre più raramente e dal 1614 il suo nome quasi scompare. Libero dagli impegni ufficiali, il M. decise di ritirarsi nel casino S. Marco, alternando gli esperimenti a lunghe e penose degenze causate da una salute sempre più precaria.
Il M. ebbe quattro figli naturali. Dall’unione con una donna di umili origini nacque, presumibilmente nel 1610, la figlia Maria Maddalena, poi monacata. Successivamente, dalla relazione con Artemisia Tozzi, nacquero Paolo (1616), destinato alla carriera militare, Giulio (1617), avviato alla vita ecclesiastica, e Antonfrancesco (1618).
Il M. morì a Firenze il 2 maggio 1621, probabilmente a causa della sifilide.
A soli due giorni di distanza dalla sua morte, la granduchessa Cristina di Lorena, desiderosa di rientrare in possesso dei beni concessi in usufrutto al nipote, ordinò la compilazione di un inventario dei beni presenti nel casino, il cui contenuto testimonia gli interessi scientifici e il raffinato gusto artistico del M. (l’inventario è pubblicato con alcune lacune in Covoni, Don A. de’ M.…, pp. 199-246; una copia manoscritta è in Arch. di Stato di Firenze, Guardaroba, 399). Accanto al laboratorio e alla preziosa libreria trovano posto anche una serie di pregevoli opere scultoree, una quadreria di primissima qualità e numerosi oggetti artistici che da buon collezionista egli aveva raccolto in svariate occasioni. Tutti questi averi, sommati al denaro e alle tenute del M., divennero subito oggetto di uno scontro tra la corte e i suoi figli maschi naturali. La controversia, accesasi con il M. ancora in vita, cominciò quando quest’ultimo decise di percorrere varie strade per ottenere per la propria prole il riconoscimento e il diritto alla successione nei beni, ai quali era stato costretto a rinunciare dopo l’investitura al cavalierato nel 1594. Nonostante i buoni risultati ottenuti inizialmente (Paolo V e forse anche l’imperatore Ferdinando II gli concessero quanto richiesto), la questione si trasformò ben presto in una causa giudiziaria che si protrasse faticosamente fino al 1630, concludendosi sostanzialmente a favore della corte.
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