DELLA SCALA, Antonio
Figlio naturale di Cansignorio, signore di Verona e Vicenza e di una certa Margherita dei Pittati (A. Cartolari, G. De Stefani), nacque intorno al 1363 e venne legittimato in seguito a dispensa pontificia dell'11 dic. 1375. La paternità di Cansignorio, comunque, è messa in dubbio da alcune fonti (Marzagaia, De moderni gestis;Gatari).
Il D. ricevette un'educazione umanistica di buon livello sotto la guida di maestro Marzagaia, il quale si dice fiero delle capacità dell'allievo, sul cui carattere violento non riuscì però ad avere alcuna influenza. Fu nominato signore di Verona, con il fratello Bartolomeo, nell'ottobre 1375, alla morte quasi contemporanea del padre e dello zio, Paolo Alboino, quest'ultimo giustiziato per ordine di Cansignorio nel castello di Peschiera. Fu loro affiancato in qualità di tutore, data la minore età, Guglielmo Bevilacqua appartenente ad una delle principali famiglie veronesi, assieme con Jacopo di San Sebastiano, Avogadro degli Ormaneti ed Antonio da Legnago. Il D. ricevette, con Bartolomeo, il giuramento di fedeltà della cittadinanza, al capitello di piazza delle Erbe, come era nell'uso; altrettanto avvenne a Vicenza, anch'essa parte del dominio scaligero. La Repubblica di Venezia approvò l'operazione politica compiuta da Cansignorio; i due giovani principi furono poi armati cavalieri da Galeotto Malatesta, supplendo così al difetto della loro nascita. Il D. e il fratello furono larghi di benefici nei confronti del gruppo di governo e dei sudditi: donarono, ad esempio, al Bevilacqua tutti i beni e le giurisdizioni che egli aveva tenuto a nome di Cansignorio, restituirono al clero le decime e i diritti di cui il padre si era impossessato, cancellarono tutti i debiti contratti dalle Comunità di Verona e di Vicenza fino al 1368 e concessero privilegi particolari alla Comunità di Riva del Garda. Procedendo concordi nel governo del dominio, si accattivarono la generale simpatia. L'accordo politico tra i due risulta anche dalla coniazione di una moneta d'argento recante entrambi i nomi. Nel 1376 il D. e Bartolomeo ricevettero da Carlo IV di Lussemburgo il vicariato imperiale per le città di Verona e di Vicenza con i relativi distretti e per Manerbio in territorio bresciano, con amplissime facoltà.
Nelle vicende dell'Italia padana degli ultimi venticinque anni del sec. XIV hanno particolare risalto lo scontro tra la Repubblica di Venezia e i duchi d'Austria, la guerra di Chioggia e l'espansione dell'allora signore di Milano Bernabò Visconti, che aveva sposato Beatrice Regina Della Scala, sorella legittima di Cansignorio e quindi erede di parte dei beni di Cangrande (II) e di Mastino (II) usurpati dallo stesso Cansignorio e passati poi ai suoi figli. Beatrice Regina, a quanto parrebbe, ne pretendeva la restituzione avanzando pressanti richieste al D. e a Bartolomeo, senza peraltro conseguire alcun risultato. Il Visconti strinse, pertanto, alleanza con Venezia, mentre il signore di Padova, Francesco da Carrara, si alleava a sua volta con Genova, con il re di Ungheria e con il patriarca di Aquileia (1378). Le truppe viscontee, guidate da Giovanni Acuto e da Lucio di Landau, percorsero il territorio con gravi danni alle persone e alle cose, solo in parte limitati dalla prudente tattica adottata da Iacopo Dal Verme, comandante dell'esercito scaligero. Verona stessa, che avrebbe dovuto consegnarsi in mano di Bernabò forse addirittura con l'aiuto del suo vescovo, Pietro Della Scala, trovò invece la forza di resistere al Visconti, che fu costretto a ritirarsi.
La lega stretta dai due fratelli con Genova e i suoi alleati fu diretta appunto a frenare l'espansione del signore di Milano, che stava diventando molto pericolosa per tutti i potentati dell'Italia centrosettentrionale. Allo spirare di una tregua estorta dal Visconti al fratello del D. Bartolomeo, le truppe milanesi scatenarono nuovi attacchi nel Veronese, mentre quelle della lega devastarono, in risposta, il Bresciano ed il Cremonese, per dirigersi infine sull'esercito di Bernabò attestato a Caldiero, presso Verona. Gli storici e i cronisti sono abbastanza discordi sulle vicende di questa guerra (1379), ma sembra di poter rilevare che, ancora una volta, il tradimento di condottieri mercenari, quali appunto l'Acuto ed il Landau, ed il loro passaggio agli Scaligeri, siano stati determinanti per l'esito delle operazioni.
In base ai capitoli della pace tra il Visconti e i Della Scala trattata con la mediazione di Amedeo di Savoia, il D. e Bartolomeo avrebbero dovuto versare a Beatrice Regina Della Scala un indennizzo di 440.000 fiorini d'oro pagabili a rate, quale compenso per la sua quota di eredità familiare, più un vitalizio di 10.000 fiorini d'oro l'anno. I signori scaligeri diedero, quale garanzia dei futuri pagamenti, le fortezze di Peschiera e di Ostiglia ed alcune altre località e furono tenuti ad obbligazioni di vario genere anche nei confronti di altri parenti. Continuavano peraltro l'alleanza con l'Ungheria, al cui sovrano dovevano un.contributo annuo di 20.000 fiorini d'oro; il mantenimento della pace veniva garantito da un esborso reciproco di 100.000 fiorini d'oro. Il trattato fu firmato il 13 mag. 1379, alla presenza di Gian Galeazzo Visconti che aveva sostituito nell'arbitraggio il Savoia.
Sullo scorcio di quell'anno e nel seguente il D. si dedicò con grande impegno ad opere di pubblica necessità a Verona e nel suo territorio, ma con l'andare del tempo si mostrò sempre più insofferente del controllo esercitato sul suo operato da Guglielmo Bevilacqua e non ne volle più seguire i consigli. Divenne intollerante anche nei confronti di Bartolomeo, ma non ci sono giunte, a questo proposito, notizie chiare. L'uccisione del fratello maturò, infatti, nel torbido clima della corte veronese e fu attuata tra l'11 ed il 12 luglio 1381 sotto il pretesto di una vendetta passionale.
Rimasto solo al governo, il D. allontanò nel 1383 anche Guglielmo Bevilacqua, previa confisca dei beni: ebbero forse parte in questo provvedimento le dure espressioni usate dal saggio consigliere nei confronti del giovane principe dopo la morte di Bartolomeo.
Il D. sposò nel luglio 1382 Samaritana, figlia di Guido da Polenta signore di Ravenna: le nozze furono celebrate in quella città, ma la festa nuziale ebbe luogo a Verona, con grande sfarzo e larga profusione di spese, che andavano bene al di là delle possibilità finanziarie del dominio. Il ritratto di Samaritana ci è stato tramandato dal Marzagaia (De modernis gestis),che ce la descrive come donna di notevole bellezza, ma anche molto superba ed altera; tutti gli storici coevi sono d'accordo nell'attribuirle un'influenza nefasta sul D. tanto in politica, quanto nella vita quotidiana. La si incolpa anche di aver depauperato le casse del dominio pretendendo lussi eccessivi. Quello che è certo è che nel 1386 il D. fu costretto a vendere non solo i possessi immobiliari della famiglia, ma anche ad impegnare presso alcuni ebrei veneziani gioielli ed oggetti preziosi per un valore di ben 47.500 ducati d'oro. A probabile peraltro che alienazioni e vendite siano state rese necessarie dalle spese militari per le campagne in corso e di cui si è già detto.
Il D. dimostrò grande interesse al rafforzamento dell'artigianato cittadino. Se già nel febbraio 1381 aveva approvato, con Bartolomeo, consistenti modifiche agli statuti dell'arte della lana, dei tintori e dei tessitori e ampliato i poteri del Collegio dei notai, rimasto solo emanò nuovi provvedimenti per i fabbricanti di stoffe e per i fabbri ferrai. Ancora nel 1385 vietò che si vendessero o si esportassero da Verona stoffe non bollate dai provveditori della Garzeria; ordinò che ne fosse permessa la vendita solo presso la Casa dei mercanti, ed elevò da s. 3 a s. 40 il premio per i gastaldioni che sovrintendevano alle misurazioni delle pezze di panno, le quali dovevano essere tutte della lunghezza di 25 braccia. Si deve tener presente che la lavorazione della lana era il più importante artigianato locale e che i panni veronesi erano esportati in tutta l'Italia settentrionale. Nel 1386, poi, il D. emanò gli statuti e gli ordinamenti della corporazione dei tavernieri, che vendevano vino al minuto in città, nei borghi e nei sobborghi. Egli mise in opera anche un tentativo di controllare in modo più completo ed organico i distretti del territorio veronese con il rafforzamento dell'istituto del "capitaniato", ossia di quegli officiales incaricati del governo delle "ville", con poteri giurisdizionali di una certa ampiezza e con competenze che si estendevano, almeno in linea teorica, anche sulle "ville" soggette a giusdicenti privati. Provvedimenti furono da lui presi anche in materia di debiti e di debitori e per i patrimoni dei ribelli al signore, i cui beni passavano alla "fattoria scaligera"; vennero stabiliti inasprimenti dei dazi e dei tributi per rinsanguare le casse del dominio. Per rimediare al calo demografico provocato dalle epidemie di peste e dalle guerre, il D. concesse esenzioni e privilegi a coloro che immigravano nel Veronese; nel 1384, un bando speciale invitava i forestieri a fissare la loro residenza nel Vicentino, per riparare ai danni della pestilenza e per ridare vigore all'artigianato locale.
Durante il 1383 sorsero però controversie con Venezia a proposito del commercio del sale e, in genere, di quello degli alimentari e delle stoffe di lana, che si protrassero a lungo.
Per migliorare la situazione urbanistica cittadina, il D., ancora al tempo in cui era associato a Bartolomeo, decretò l'abbattimento di tutti i ballatoi di legno che univano l'una all'altra le abitazioni al di sopra delle vie, e ampliò le fortificazioni delle mura all'altezza di porta Vittoria; fece costruire il castello di Torri (1383) e fece condurre l'acqua a Riva del Garda. Per quanto concerne la monetazione, esiste un esemplare del periodo in cui Antonio governò da solo, con la legenda "S.Zeno di Verona" e "Antonius dela scala".L'elezione (1381) del cardinale Filippo d'AlenQon a patriarca di Aquileia, contrastata dalla maggior parte degli Udinesi guidati da Federico di Savorgnan, provocò una nuova scissione nelle terre venete. Gli scontri si allargarono nel 1385 anche alla Repubblica di Venezia, che ritenne opportuno offrire al D. l'alleanza contro Francesco da Carrara, sostenitore del patriarca aquileiese. L'intervento del signore di Verona nel conflitto in corso nelle terre friulane (1386) terminò con la sconfitta delle truppe scaligere alle Brentelle prima (25 giugno 1386), e a Castagnaro poi (11 marzo 1387) e non fu che il preludio dello scontro che avrebbe ben presto opposto il D. a Gian Galeazzo Visconti, presentatosi dapprima quale mediatore di pace tra Scaligeri e Carraresi ed uscito quindi allo scoperto con la lettera di sfida indirizzata al D. il 21 apr. 1387. La risposta del principe reca la data del 23 aprile ed è espressa con tono molto moderato, rivelando una grande (e voluta) deferenza nei confronti del Visconti: chiede che vengano ascoltate le sue ragioni e gli ricorda tutte le promesse fattegli (e mai mantenute), respingendo le accuse di danneggiamento mossegli dal Visconti.
I fatti salienti della vita del D. sono legati, com'è naturale, alla guerra combattuta - e persa - contro Gian Galeazzo. Il giovane principe, privo del consiglio degli esperti allontanatisi volontariamente o meno da Verona, in balia dei cortigiani ravennati, preoccupato dell'evolversi a suo danno della situazione politica e militare, chiese aiuto a Venezia, ma senza alcun risultato. Preso dapprima tra due fuochi - l'esercito visconteo sul lago di Garda e quello carrarese nella cosiddetta "fossa di S. Bonifacio" che difendeva il territorio veronese -, attaccato poi in forze da ogni lato, privo di ogni soccorso da parte della Serenissima, il D. vide, tra l'aprile e l'ottobre 1387, sgretolarsi il suo dominio ed infine cadere anche Verona, consegnata al Visconti forse per segrete intese con lo stesso Guglielmo Bevilacqua. Le cronache locali non mettono particolarmente in risalto la partecipazione di quest'ultimo all'impresa - dalla parte dei Milanesi - ma appare evidente come egli fosse il perno di tutta la situazione, affiancato da Spinetta Malaspina, un altro dei banditi dalla città per la morte di Bartolomeo. Il D. cercò di trattare, entro Castelvecchio dove si era rifugiato assieme con la famiglia, con il suo antico tutore e con i vincitori, ma la caduta di Verona era ormai inevitabile, e nella notte tra il 17 ed il 18 ott. 1387 la città si arrese, in parte anche per tradimento. Il Dalla Corte riferisce perfino il discorso che il D. avrebbe fatto al Bevilacqua, dandogli un'intonazione del tutto moralistica, centrata sul riconoscimento degli errori commessi ad ammaestramento dei futuri signori. Il principe chiese anche una tregua di dodici giorni per recarsi a Milano a parlare con Gian Galeazzo, ma non l'ottenne. Ebbe solo la garanzia di poter uscire vivo - ma disarmato - dalla fortezza, prima che questa fosse presa d'assalto. Il D. cedette allora la città nelle mani di Corrado Crangier, ambasciatore dell'imperatore Venceslao, che, a sua volta, la consegnò subito al Visconti, forse per denaro. Nella notte seguente (19 ottobre) il principe con la moglie e i figli e quanto gli restava di beni mobili si imbarcò su una nave e lungo l'Adige raggiunse Venezia, dove-però non trovò favorevole accoglienza.
Maestro Marzagaia lamenta il comportamento dei Veronesi nei confronti del loro signore, che non ricevette da loro alcun segno di omaggio o di rimpianto in tanta sventura, ma, al tempo stesso, non ha dubbi sul fatto che il D. fosse stato la causa principale della rovina propria e del dominio, tanto per il suo comportamento nei confronti del gruppo di governo, dei suoi fedeli e dei sudditi, gravati da ogni tipo di tasse, quanto per la debolezza intrinseca del carattere, di cui si è già detto.
Abbandonato da Venezia al proprio destino, il D. cercò aiuto a Firenze, ma senza alcun risultato. Dopo aver tentato anche presso il pontefice Urbano VI, nel 1388 si recò di nuovo in Toscanaper raccogliere armati e tornare di là verso Verona, che non voleva perdere, ma morì a Tredozio (presso Faenza). Gli storici e i cronisti non danno troppe notizie su questo fatto: solo gli Annales Forolivienses indicano la data del 5 agosto; si parla, come sempre accade in casi del genere, di veneficio. Fu sepolto a Ravenna, ma anche di ciò non si ha, a quanto risulta fino ad ora, alcuna conferma.
Il D. ebbe da Samaritana da Polenta due figli: Canfrancesco, morto forse avvelenato nel 1391 o nel 1399 e Polissena, sposa nel 1410 del piacentino Lancillotto Anguissola, e forse due figlie naturali, Cleope e Tassea, o addirittura quattro sulla cui esistenza, peraltro, gli storici, in genere non concordano.
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