DI BOLOGNA, Antonio
Era figlio di Antonino e di Giulia Di Sangro, e nipote del celebre unianista Antonio Beccadelli, detto il Panormita.
Le vicende della famiglia Beccadelli sono note: trasferitasi a Palermo dalla natia Bologna nel XIV secolo, aveva serbato memoria dell'originaria provenienza, al punto che, con gli anni, il cognome era stato soppiantato nell'uso dal toponimico. Al seguito di Alfonso I, il Panormita si era poi portato a Napoli, città nella quale aveva finito per stabilirsi, ottenendone la cittadinanza. Il suo matrimonio con la nobildonna napoletana Laura Arcella favorì il definitivo inserimento della famiglia Di Bologna nell'aristocrazia della capitale, venendo essa aggregata al "sedile" di Nido. Dopo la morte del Panormita, il figlio Antonino conservò il favore del sovrano Ferdinando I: nel 1489, infatti, fu nominato capitano di Agropoli e di Castellabbate. Sposata in prime nozze Giulia Di Sangro, ne ebbe, come si è detto, Antonio.
Il D. deve la sua fama alla sfortunata storia d'amore con Giovanna d'Aragona, che è narrata da M. Bandello e che ispirò pure un dramma di John Webster, The dutchess of Malfy, e un altro di Lope de Vega, Elmayordomo de la Duquesa de Amalfi. Genealogisti e cronisti, invece, sono avari di notizie sul D., limitandosi, tutt'al più, ad accennare fuggevolmente alle sue nozze con una "donna di sangue reale". Tale reticenza non è casuale. In una famiglia come quella Beccadelli-Di Bologna, numerosi esponenti della quale si attestarono ai vertici della gerarchia laica ed ecclesiastica, la sventura del D. rappresentò un episodio che, per quanto riscattato dall'altissimo lignaggio della vittima femminile, era comunque opportuno passare sotto silenzio, stendendo un velo di oblio anche sul malaccorto protagonista. Allo stesso modo, tace la scarsa documentazione coeva superstite. L'eco dei tristi casi del D. e di Giovanna è rimasta così confinata nell'ambito della narrativa. Di conseguenza, per ricostruirne la biografia, bisogna giocoforza avvalersi della novella del Bandello come fonte principale, la quale, pur presentando accenti romanzeschi, ha tuttavia il conforto di alcuni riscontri.
Sappiamo dunque che il D., nato a Napoli in data non precisata, crebbe nell'ambiente della corte aragonese e, ricalcando le orme dell'avo paterno, offrì i suoi servigi a re Federico, di cui divenne maggiordomo. Compiutasi la rovina politica dell'ultimo sovrano aragonese e rifugiatosi questi in Francia, il D. decise di ritirarsi a vita privata nella capitale, fidando sulla rendita annua di circa 1.000 ducati. Tuttavia, il suo proposito non ebbe lunga durata. Giovanna d'Aragona, duchessa di Amalfi, cui era giunta voce dei suoi lodevoli trascorsi, lo richiese come maggiordomo e il D., spinto anche dalla devozione alla famiglia, accettò l'invito.
Giovanna, figlia naturale di Enrico marchese di Gerace e di Polissena Centelles dei marchesi di Crotone, aveva sposato Alfonso Piccolomini, secondo duca di Amalfi. Lo Stato di Amalfi era stato donato "cum honore et titulo ducatus" da Ferdinando I ad Antonio Piccolomini, come ricompensa per l'ausilio da lui prestato al recupero del Regno. Alfonso morì nel 1498, lasciando la moglie in attesa di un figlio, che nacque postumo.
Impegnatasi in un primo tempo a restaurare le finanze della casa, che il defunto duca aveva dissipato, la duchessa vedova si diede poi a considerare la possibilità di risposarsi in maniera confacente al suo rango. Stando al racconto del Bandello, ella si avvide ben presto che i pochi baroni a lei pari di grado erano inadatti, perché tutti più giovani; di contro, vi erano le qualità del suo maggiordomo, che la vicinanza quotidiana le dava modo di apprezzare in misura crescente. Il Bandello ce lo rappresenta come "un gentiluomo molto galante e virtuoso" che possedeva tutte le caratteristiche del perfetto cortigiano: era "gentilissimo cavalcatore", "di buone lettere non mezzanamente ornato e col liuto in mano cantava soavemente". A ciò si aggiungano i modi "costumati e gentili" e la bellezza fisica. Inevitabilmente, il sentimento di stima si tramutò nella duchessa in amore "ardente", di buon grado corrisposto; ma il meccanismo delle convenzioni sociali impedì che la vicenda approdasse al classico lieto fine. Il D., pur appartenendo all'aristocrazia cittadina, non era ritenuto degno di sposare una donna di sangue reale, la quale, dal canto suo, avrebbe dovuto circoscrivere il campo di scelta ai soli rappresentanti di importanti famiglie feudali.
La storia del D. e di Giovanna esemplifica efficacemente la stratificazione orizzontale che distingueva, all'interno della nobiltà napoletana del sec. XV, il semplice patrizio da coloro i quali venivano definiti "magnates", vale a dire "quasi magni nobiles", perché "ultra nobilitatem quam cum ceteris nobilibus communem habent, sunt conspicui, uti regalia excercentes et cum vassallis"; essi differivano dagli altri nobili nell'opinione dei comuni cittadini "propter eorum dignitatem et honorem" (Consuetudines Neapolitanae, cum glossis Napodani…, Neapoli 1775, I, pp. 391 s.). Ulteriori ostacoli all'unione dei due amanti nascevano poi dalla particolare rilevanza sociale che, come è noto, assumeva la scelta matrimoniale della donna, poiché a quest'ultima era affidato il compito di stringere alleanze utili per la famiglia, quasi a controbilanciare i costi economici della dote. Lo stesso Bandello non mancava di sottolineare la disparità di trattamento riservato nella società del tempo ai due sessi, cosicché l'amore di Giovanna per il D., "nobile, vertuoso e onestamente ricco", era stato considerato degradante per lei e per i suoi parenti, laddove un "conte nobilissimo e ricco ha presa per moglie una figliuola d'un mulattiero senza dote ... ed ella ora tien luogo e grado di contessa ed egli è pur conte come prima" (Bandello, p. 346).
In tale situazione, quando il legame clandestino venne a conoscenza dei fratelli di Giovanna, Carlo marchese di Gerace e Luigi, creato cardinale da Alessandro VI, alla duchessa e al suo maggiordomo non restò altra via di scampo che la fuga. Sappiamo che la partenza di Giovanna dal Regno va collocata nel novembre 1510, perché il giorno 17 di quel mese notar Giacomo ne registra il passaggio per Napoli, alla volta - egli dice - di Ragusa. Le successive peregrinazioni cui furono costretti i due perseguitati sono descritte con occhio attento e pietoso dal Bandello, fino alla tragedia finale che, sia pure in tempi diversi, li accomunò entrambi. Per quanto riguarda, però, il luogo in cui fu ucciso il D., il suo racconto differisce da quanto è stato in seguito appurato da uno studioso ottocentesco, M. Camera. Narra dunque il Bandello che il D., rifugiatosi a Milano, rimase per qualche tempo sotto la protezione di Silvio Savelli, che in quel mentre assediava i Francesi asserragliati nel castello. Partito poi il Savelli all'assedio di Crema, il D. passò al servizio di Francesco Acquaviva marchese di Bitonto e quindi del cavaliere Visconte. Frattanto, i fratelli di Giovanna, ottenuta la confisca di tutti i suoi beni, ne organizzavano l'uccisione. Teatro dell'agguato, che secondo Bandello sarebbe avvenuto in Milano, fu invece, a giudizio del Camera, Padova, dove poi il D. venne sepolto, nella chiesa dei frati carmelitani, con una lapide che ne ricordava la fine dolorosa. L'iscrizione è riportata dal Nemeitz, il quale aggiunge, a mo' di commento: "Antonius Bologna, vir militaris et strenuus, qui post insignia munia in patria peracta adulterii insimulatus lethaliter vulneratus interiit".
Fonti e Bibl.: La storia del D. e Giovanna d'Aragona è narrata in un manoscritto anonimo "Successi tragici et amorosi occorsi in Napoli e altrove incominciando dalli Re Aragonesi", s.d., conservato nell'Archivio di Stato di Napoli, Biblioteca, ms. n. 21, che segue la falsariga del Bandello. Vedi inoltre: Cronica di Napoli di notar Giacomo Della Morte, Napoli 1845, p. 331; M. Bandello, Le novelle, Bari 1910, I, novella XXVI; S. Ammirato, Delle famiglie nobili napol., Fiorenza 1580, II, pp. 49-50; C. De Lellis, Discorsi postumidi alcune poche nobili famiglie, Napoli 1701, pp. 34-35; J. C. Nemeitz, Inscriptionum singularium, Lipsiae 1726, p. 298; M. Camera, Mem. storico-diplom. dell'antica città e Ducato di Amalfi, Napoli 1881, pp. 81-82; Lodi di dame napoletane del secolo decimosesto, dall'"Amor prigioniero" di Mario di Leo, a cura di G. Ceci-B. Croce, Napoli 1904, p. 32.