DI LAURO (Laureo, Lauro), Antonio
Della nascita del D. conosciamo con sicurezza soltanto l'anno, il 1498. Incerti sono, invece, i genitori (probabilmente Fabio ed Elisabetta Francoparte) e il luogo: secondo alcuni, infatti, il D. sarebbe nato in Amantea (prov. di Cosenza), altri lo reputano napoletano, altri ancora ritengono che sia nativo di Rossano (Cosenza), dove un ramo della famiglia si era trasferito dalla originaria Amantea. A Napoli egli avrebbe in seguito fissato la sua dimora per attendere agli studi giuridici. Quanto allo status sociale della famiglia, i biografi concordemente la qualificano nobile, per quanto nessun elemento preciso intervenga a suffragare tale giudizio, almeno per il sec. XVI. Lo stemma che sovrastava la cappella familiare in S. Maria delle Grazie (un albero di alloro, sostenuto ai due lati da leoni rampanti) potrebbe appartenere ad un'epoca successiva. In ogni caso, i Di Lauro non erano annoverati fra le casate appartenenti alla nobiltà di "sedile".
La prima traccia che il D. ci ha lasciato di sé lo mostra lettore nel secondo corso di istituzioni del diritto presso lo Studio di Napoli, nell'anno 1533-34, con la paga di dodici ducati l'anno. A quell'epoca egli aveva già intrapreso la carriera ecclesiastica; infatti, i documenti lo designano con l'appellativo di "canonicus Maioris Ecclesiae Neapolitanae". In questa veste, nello stesso anno 1534, redasse gli statuti del capitolo della cattedrale, dandoli alle stampe. Il periodo successivo della vita del D. è avvolto nel silenzio; lo ritroviamo solo nel 1562, quando venne consacrato vescovo di Castellammare di Stabia (9 ottobre); quasi contemporanea (16 apr. 1563) è la sua nomina a cappellano maggiore, carica quest'ultima che comportava di diritto anche la dignità di prefetto allo Studio.
Una brillante carriera, dunque, alla quale prestò un valido sostegno la fama di abile iurisperito che il D. si era conquistato. Il cappellano maggiore era chiamato a svolgere, con l'ausilio di un consultore laico, una vasta attività giurisdizionale che si estendeva, e nel campo civile e in quello criminale, da un lato sull'università, con i suoi studenti e professori, dall'altro - secondo quanto asseriva lo stesso D. - sui chierici, cappellani e stipendiari della regia cappella e dei castelli regi di Napoli e del Regno, oltre che sui componenti la sua stessa curia. Tuttavia, la preparazione giuridica, per quanto solida, non sarebbe bastata da sola a promuovere l'ecclesiastico all'alta magistratura. Al cappellano maggiore era richiesta innanzitutto una provata fedeltà alla monarchia spagnola, venendo egli consultato in vista della concessione del regium exequatur ai provvedimenti della S. Sede. In tali circostanze, pur essendo solitamente un vescovo, il cappellano maggiore doveva pronunciarsi sugli eventuali pregiudizi che potessero derivarne alle prerogative sovrane.
L'ambiguità della sua posizione, divisa fra obbedienza al papa e fedeltà al sovrano, si fece particolarmente acuta proprio negli anni in cui il D. rivestì la carica. Il concilio di Trento, terminato appunto nel 1563, mentre determinò un diverso assestamento istituzionale della Chiesa cattolica, aprì di riflesso un nuovo capitolo nei rapporti fra Stato e Chiesa. Nel Regno di Napoli frequenti furono gli scontri fra Roma e la monarchia, originati, come è noto, dalla pretesa papale di ampliare la propria sfera di controllo giurisdizionale, cui faceva riscontro una vivace difesa dei diritti spettanti alla potestà regia. Il cappellano maggiore si trovò spesso al centro di tali contrasti: da parte papale se ne contestavano non solo le competenze giurisdizionali, alle quali si è già accennato, ma anche la potestà vescovile. Elencando i presunti "aggravi" che i ministri regi avrebbero commesso ai danni dei prelati del Regno, i cardinali V. Giustiniani e M. Ghislieri (il futuro papa Pio V) accusavano il cappellano maggiore di avere spogliato gli ordinari della giurisdizione ecclesiastica sui castelli regi. Il D., incaricato di definire i compiti del cappellano maggiore, sostenne l'infondatezza delle rimostranze, dal momento che quest'ultimo, proprio nell'ambito oggetto della contestazione, rivestiva per lunga consuetudine l'autorità vescovile. Il tono della risposta è pacato, assente ogni desiderio di aperta collisione con il volere di Roma. Questa caratteristica sembra contraddistinguere i rapporti del D. con la S. Sede, scegliendo egli la via della mediazione, pur senza abdicare all'esercizio di prerogative consacrate da antica tradizione. Così, per esempio, in segno di buona volontà ed in contrasto con il viceré, il D. offrì al nunzio pontificio di rinunciare agli emolumenti che la Chiesa doveva versare al suo ufficio per l'esame dei provvedimenti sottoposti a regium exequatur. Al contempo, però, quando il vescovo di Capaccio iniziò un procedimento contro un cappellano regio che aveva benefici curati nella sua diocesi, il D. si mosse con decisione ad inibirne l'azione, rivendicandone l'esclusiva competenza. Ancora, con la stessa motivazione, egli proibì all'arcivescovo di Napoli, Mario Carafa. di entrare nel Castelnovo con le insegne pontificali.
Quanto alla sua attività di ecclesiastico e di prelato, concorde è il giudizio dei contemporanei e degli storici sulla correttezza del suo operato e dei suoi costumi, che gli riserva un posto a parte nel desolante panorama della vita del clero napoletano, quale ci viene descritto in quegli anni dal visitatore Orsini. "Prelato devoto et da bene" lo definì il cardinale Granvele e Giulio Pavesi, incaricato da Paolo IV di effettuare una visita pastorale nel Regno, si avvalse anche della sua collaborazione (cfr. Nunz. di Napoli, pp. 179 s., 182). Un'ulteriore riprova dell'autorevolezza di cui godeva il D. nell'ambiente ecclesiastico napoletano possiamo registrarla in occasione dell'arrivo a Napoli del nuovo arcivescovo Mario Carafa (marzo 1566), allorché, avendo Fabio Polverino, suo vicario, proposto di accoglierlo con una solenne processione, risultò determinante il parere negativo del cappellano maggiore D. che, in seduta capitolare, considerò il gesto "cosa né debita né conveniente". D'altra parte, appare da condividere l'opinione del De Maio che "da vescovo non si lasciasse proprio prendere dalla febbre pastorale" (Alfonso Carafa..., p. 156). Facendo appello alle incombenze inerenti alla carica di cappellano maggiore, il D. riuscì a sottrarsi all'obbligo della residenza nella diocesi, che il concilio di Trento aveva fissato tassativamente per i vescovi. In verità, il papa era disposto a tollerare un minore rigore nei suoi confronti, ma insisteva, attraverso il nunzio, affinché, essendo la sua chiesa comoda e vicina a Napoli, vi si recasse almeno nelle principali festività religiose. La resistenza opposta dal D. alle insistenze del nunzio fu tenace, prolungandosi per vari anni, dal 1573, data in cui ne abbiamo per la prima volta notizia, al 1577. Soltanto nella primavera del '77 il D. si rassegnò ad obbedire alle disposizioni papali, precisando, però, che per ragioni di salute si sarebbe trattenuto a Castellammare solo pochi giorni.
Probabilmente, lo scarso amore per i viaggi lo aveva indotto a non recarsi a Trento per il concilio, seguendo, del resto, l'esempio di altri vescovi del Regno. Partecipò, invece, al sinodo provinciale indetto da Alfonso Carafa (febbraio 1565), nel corso del quale venne designato dall'arcivescovo giudice delegato. In virtù di quest'ultimo incarico, il D. procedette, fra l'altro, in una causa lungamente agitata fra il vescovo di Minori e il monastero della Ss. Trinità della Cava per la giurisdizione sulla chiesa di S. Giovanni a Mare e pronunciò una sentenza favorevole al monastero. Il D. presenziò, inoltre, alla commissione di consultori, teologi e giuristi che Alfonso Carafa convocò nel monastero di Monteoliveto, durante una breve interruzione del sinodo, per discutere la consuetudine dei sacerdoti di speculare su matrimoni e funerali.
Come si è già accennato, il vescovo partì per la diocesi di Castellammare nell'aprile del 1577, lagnandosi per le cattive condizioni di salute. La morte sopravvenne in quello stesso anno a Napoli. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria delle Grazie a Caponapoli, nella cappella di famiglia. I nipoti Bartolomeo, Carlo e Giacomo vollero poi innalzarvi un monumento che lo commemorasse. Il D. vi era raffigurato in atteggiamento di composta devozione, rivestito della toga, con la mitra poggiata sul fianco sinistro. Un'iscrizione ne ricordava il cursus honorum e le qualità morali.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Cappellano maggiore, Diversi, fs. 1160/1; Napoli, Bibl. dell'Arch. di Stato, B. Chioccarelli, Manoscritti giurisdizionali, II, IV, passim; Acta et decreta synodi Neapolitanae, Neapoli 1568, ff. 55, 81-82; Nunziature di Napoli, I, a cura di P. Villani, Roma 1962, pp. 179-189, 218 s., 235 s., 280, 402 s.; Titulos y privilegios de Napoles (siglos XVI-XVIII), I, a cura di D. R. Magdaleno, Valladolid 1980, sub voce; C. D'Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli 1654, II, pp. 117, 208; F. Ughelli, Italia sacra..., Venetiis 1720, VI, p. 662; G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1754, II, pp. 36, 43; P. T. Milante, Della città di Stabia, della chiesa stabianae de' suoi vescovi, Napoli 1836, II, pp. 111-114; C. Minieri Riccio, Mem. stor. degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 175; N. Capece Galeota, Cenni stor. sul clero della R. Cappella Palatina di Napoli, Napoli 1854, p. 354; C. Padiglione, Mem. storico-artist. del tempio di S. Maria delle Grazie Maggiore a Caponapoli, Napoli 1855, pp. 127-131; E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Napoli 1895, p. 64; P. Santamaria, Historia collegi patrum canonicorum metropolitanae Ecclesiae Neapolitanae, Napoli 1900, p. 409; N. Cortese, L'età spagnola, in Storia dell'Univ. di Napoli, Napoli 1924, pp. 221 s., 324; C. De Frede, Studenti e uomini di legge a Napoli nel Rinascimento, Napoli 1957, p. 107; R. De Maio, Le origini del seminario di Napoli, Napoli 1958, p. 74; Id., Alfonso Carafa cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961, pp. 156, 184, 190; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, III, Monasterii 1923, p. 304.