MONTEFELTRO, Antonio di
MONTEFELTRO, Antonio di. – Nacque nel 1348 da Federico novello di Nolfo. Litta ritiene che sua madre fosse Teodora (Tora) d’Ugolino Gonzaga, che in realtà fu moglie di suo zio Paolo di Montefeltro, figlio di Galasso. Il 30 settembre 1363, il cardinale Egidio Albornoz conferì la custodia civitatis di Urbino a Paolo, che la ricevette in proprio e in qualità di tutore di Antonio e degli altri nipoti Nolfo, Guido e Galasso, tutti ancora minori di età.
Ciò avvenne in una fase della storia dei Montefeltro durante la quale il peso politico del lignaggio era fortemente ridotto dal governo diretto della Chiesa, come testimoniano le efficaci azioni intraprese dal cardinale legato Anglic Grimoard a Urbino e nel suo contado tramite il proprio vicario Enrico da Sessa nel 1367. La custodia civitatis fu avocata al vicario, il Comune cittadino fu posto fuori del controllo dei conti e si giunse persino alla requisizione e alla distruzione delle antiche case dei Montefeltro, sulle quali il cardinale fece costruire un cassero (edificio che, situato sotto l’attuale palazzo ducale, è ben distinto dalla rocca cosiddetta «di Albornoz», forse edificata anch’essa da Grimoard, sul Pian del Monte, dall’altra parte della città). Il 16 marzo 1370, Paolo di Montefeltro arrivò a scrivere a Lodovico Gonzaga chiedendogli di intercedere presso il legato affinché la sua famiglia non venisse espulsa da Urbino. Nella sua relazione al successore Pierre d’Estaing, complemento alla Descriptio Romandiole del 1371, il legato sottolineava che la città, occupata per tanti anni dalla tirannide dei conti, era posseduta pacificamente dalla Chiesa romana, mentre gli stessi conti erano ormai ridotti a tal partito «quod nichil habent agere in dicta civitate et comitatu quod ascendat ad aliquid», aggiungendo che se, non sostenuti dalla Chiesa, «irent pro pane mendicando » (Franceschini, 1982, n. 231). È ipotizzabile che Paolo di Montefeltro, che si era sposato poco dopo la morte di Nolfo e Federico novello e che ebbe un figlio maschio (Ugolino), intendesse volgere verso il proprio ramo la direzione del consorzio familiare; ma forse la morte prematura e in ogni caso la decisa azione di Antonio e dei suoi congiunti non glielo permisero. In pochi anni il governo di Urbino passò nuovamente nella linea di discendenza di Nolfo (m. 1363 circa) anziché in quella di suo fratello Galasso (m. 1350). Di Paolo, sfortunato trait-d’union tra la dominazione di Nolfo con i fratelli e quella di Antonio, si era persa memoria storica fino alle ricerche condotte da Franceschini.
Nell’autunno del 1367 Antonio sposò Agnesina dei Prefetti di Vico, che, soprattutto negli anni a cavallo fra il XIV e il XV secolo, ebbe rilievo nella gestione degli affari dello Stato urbinate durante le lunghe assenze del marito e la minorità del figlio primogenito Guidantonio. La coppia ebbe almeno due figlie: Battista (1384-1448), sposa di Galeazzo Malatesta signore di Pesaro, e Anna (m. 1434), sposa di Galeotto Belfiore Malatesta.
Agnesina era figlia di Giovanni (III) di Vico (m. 1366), che era stato il più potente signore della Tuscia e che fu un acerrimo nemico del legato. La convergenza di interessi determinata da questa parentela (alcuni discendenti dei Prefetti di Vico si radicarono successivamente nel Montefeltro insignorendosi dei castelli di Casteldelci, Faggiola e Senatello) favorì un’alleanza contro il pontefice, che si concretizzò nell’estate del 1369, quando il giovane Antonio, che militava al servizio del legato contro Perugia, abbandonò l’esercito pontificio e si mise al comando dei ribelli insieme con i fratelli e i cognati.
In quella estate del 1369, Antonio riuscì a portare le proprie milizie fin sotto le mura di Viterbo, allora residenza del pontefice Urbano V. Avendo solidi punti d’appoggio nell’area appenninica, nella Valtiberina e nel Montefeltro (dove custodiva tra l’altro le due temibili fortezze di Pietrarubbia e Pietramaura), Antonio tentò di prendere Urbino, che, dopo essere stata occupata da Pandolfo Malatesta, era ormai saldamente nelle mani del cardinale Grimoard, ma non vi riuscì. L’anno successivo (inverno 1370), si recò ad Avignone insieme con i fratelli e ottenne dal nuovo papa Gregorio XI la restituzione dei beni allodiali (ma non della custodia civitatis di Urbino) e una provvigione di 100 fiorini al mese, nonostante l’opposizione del cardinale Grimoard, che lo descrive in termini duri nella sua relazione al cardinale d’Estaing.
Un’ulteriore occasione per rientrare a Urbino si presentò al principio del 1374, quando il rettore di Urbino e della Massa Trabaria Filippo Corsini riuscì a sventare una congiura nella quale erano verosimilmente coinvolti Antonio e i suoi fratelli. Poco dopo, la guerra detta degli Otto santi tra la Repubblica fiorentina e il Papato determinò il formarsi di un’alleanza quinquennale tra Firenze e Milano e fomentò le ribellioni che, dilagando in tutto lo Stato pontificio, da Viterbo a Ravenna, portarono quasi ovunque alla cacciata dei rettori ecclesiastici. Avendo Antonio fatto mostra di voler divenire «figliuolo» del Comune fiorentino ed essendo già insorte Gubbio e Città di Castello, nel dicembre 1375 i Fiorentini appoggiarono la sollevazione della Massa Trabaria (che da allora avrebbe cessato di esistere come provincia) e, subito dopo, quella di Urbino. Galeotto Malatesta accorse con i suoi uomini per rinsaldare la difesa della rocca, ma il 24 dicembre Antonio, che si era mosso da Città di Castello con 400 cavalli, riuscì a entrare a Urbino e ne fu acclamato signore. Galeotto Malatesta riparò a Cagli, ma dopo pochi giorni fu cacciato anche da quella città, che si diede in signoria al Montefeltro, il quale rinsaldò il dominio addivenendo subito a un accordo con i Gabrielli di Gubbio e facendo successivamente contrarre un matrimonio tra suo fratello Nolfo e Margherita figlia di Cante Gabrielli.
Il conte entrò quindi a far parte della lega fiorentino-viscontea (1° febbraio 1376), riuscendo finalmente a togliersi dal lungo isolamento politico in cui si erano trovati i suoi immediati predecessori. Seguirono la citazione di Gregorio XI a presentarsi, in quanto ribelle, al suo cospetto (13 febbraio) e quindi la scomunica (1° aprile), che lo colpì insieme con il cognato Francesco dei Prefetti di Vico.
Dopo aver resistito e contrattaccato i Malatesta e dopo aver tenuto testa all’avanzata delle compagnie dei «bretoni» del cardinale Roberto di Ginevra (poi antipapa Clemente VII) inviate da Gregorio XI, Antonio ebbe modo di consolidare ulteriormente i risultati raggiunti. Nell’ottobre-novembre 1377, Francesco dei Prefetti si riconciliò col pontefice, il quale aveva tutto l’interesse, essendo nel frattempo rientrato a Roma da Avignone, a ritrovare sostegni in Italia centrale. Il ritorno dei Prefetti alla fedeltà verso la Chiesa, la pace tra il nuovo papa Urbano VI e Firenze (28 luglio), la tregua tra Firenze e Galeotto Malatesta, nella quale fu compreso come aderente anche Antonio (11 agosto), furono i preludi alla riconciliazione del conte di Montefeltro con il papa. Passato brevemente all’obbedienza di Clemente VII per forzare la mano a Urbano VI nella scelta del vescovo di Urbino, Antonio fu finalmente assolto ed ebbe da papa Urbano il vicariato apostolico in temporalibus per 12 anni su Urbino, Cagli e i loro distretti, nonché su una trentina di castelli dislocati soprattutto nel Montefeltro (luglio 1379). Tale concessione, che fu ripetuta il 3 giugno 1390, avrebbe determinato i successivi rapporti tra la casa comitale e la Sede apostolica, immettendo Antonio nel dominio già dinastico con un grado nuovo e molto alto di legittimazione.
Accanto al conseguimento del vicariato apostolico e alla stipula di una tregua con Galeotto Malatesta (21 marzo 1380) – che fu peraltro interrotta da frequenti riprese delle ostilità –, l’opera maggiore di costruzione e consolidamento del dominio fu l’assunzione della tutela e poi della signoria della città di Gubbio, per anni travagliata da lotte intestine nelle quali Antonio aveva lungamente appoggiato la fazione avversa ai Gabrielli. Il 24 marzo egli occupò la città con 2000 fanti e 800 cavalli. Seguì (7 novembre 1384) una pace solenne con Galeotto Malatesta, ottenuta con la mediazione di Gian Galeazzo Visconti signore di Milano, con il quale Antonio nel prosieguo avrebbe rinsaldato sempre più l’alleanza.
Gli anni che seguirono videro Antonio operare un progressivo consolidamento dello Stato, favorito in questo anche dalla morte del signore di Rimini e dalla frammentazione dei possessi malatestiani che ne seguì. Nell’ottobre 1385 riuscì a occupare temporaneamente il dominio che Francesco Gabrielli, fuoriuscito da Gubbio, aveva costruito a Cantiano, spingendo in tal modo Firenze, insieme con i Malatesta, all’offensiva contro di lui. Dopo vari episodi di guerra e un tentativo di sollevare Gubbio, i Fiorentini riuscirono a negoziare una pace per essi favorevole, che fu sottoscritta il successivo 18 luglio: il conte si dichiarò raccomandato della Repubblica, restituì Cantiano ai Gabrielli e consentì che a Gubbio fosse eletto un podestà di cittadinanza fiorentina, mantenendo tuttavia il controllo della città. Pochi anni dopo (1394), l’acquisizione definitiva di Cantiano avrebbe conferito una compattezza ancora maggiore al territorio dominato da Antonio, all’interno del quale ormai non rimanevano, come enclave di una certa importanza, che i domini dei Brancaleoni nella Massa Trabaria e quelli dei Malatesta, degli Oliva e dei Carpegna nel Montefeltro.
Il 17 novembre 1388 fu stipulata una nuova pace tra Antonio di Montefeltro e i Malatesta, di nuovo con la mediazione di Gian Galeazzo Visconti. Di questi Antonio divenne soldato e aderente, rimanendo tale fino alla morte, rivestendo posizioni di prestigio e facendo parte del nobile corteo di coloro che, nel 1395, lo salutarono duca di Milano.
Il passaggio all’alleanza viscontea lo allontanò da Firenze e il 20 maggio 1392 emanò nuove norme per la scelta del podestà di Gubbio, i cui requisiti principali dovevano ora essere non più la cittadinanza fiorentina, ma il gradimento del signore e il titolo di dottore in legge. Schieratosi nuovamente contro i Fiorentini e i Malatesta a fianco del signore di Milano, fu a lungo impegnato in azioni di guerra, con risultati alterni, fino alla pace (13 ottobre 1393) che, voluta dal papa e assecondata da Gian Galeazzo Visconti, permise il mantenimento di un’intesa pluridecennale e una posizione di equilibrio tra le due famiglie Montefeltro e Malatesta; negli anni immediatamente successivi fu anche rinsaldata da due matrimoni incrociati, rispettivamente tra Guidantonio e Anna figli di Antonio, e Rengarda e Galeotto Belfiore Malatesta figli di Galeotto I.
Negli anni 1395-98 combatté contro la lega antiviscontea raccogliendo intorno a sé le forze di diversi signori dell’Italia centrale. Incluso nella tregua di Venezia del luglio-agosto 1398 (non senza rimostranze da parte di Firenze, che non voleva comprendervelo in quanto lo considerava un suo raccomandato caduto in fellonia), stava per divenire luogotenente del duca di Milano e già si era recato a Pavia, dopo aver lasciato la moglie Agnesina e il figlio Guidantonio a governare lo Stato, quando, nel settembre 1398, si ammalò di peste. Scampato alla morte e recatosi alle terme di Petriolo nella Valle dell’Ombrone per ristabilirsi, si adoperò affinché Siena, con cui da tempo intratteneva rapporti di amicizia, si sottomettesse al duca di Milano. Il 29 giugno 1399 giurò fedeltà al duca e divenne capo del suo consiglio segreto. Nel 1402, alla morte di Gian Galeazzo, entrò nel Consiglio di reggenza dei minori Giovanni Maria e Filippo Maria Visconti e dovette far fronte alle difficoltà provocate dagli altri membri della casa Visconti, che fino ad allora erano stati tenuti lontani dal governo.
Antonio, fatto ritorno a Urbino nel 1403, vi morì il 29 aprile 1404. Il 14 maggio fu sepolto nel chiostro di S. Francesco, dove nel 1416 fu sepolta anche la moglie Agnesina, il cui sarcofago si conserva all’interno della chiesa.
Franceschini, studioso capace di analizzare nel dettaglio la vicenda storica e accorto raccoglitore di un’imponente documentazione, ma non alieno da toni encomiastici, considera Antonio di Montefeltro un esempio perfetto di principe rinascimentale. Il periodo del suo dominio segna una fase di svolta nella storia dello Stato urbinate, tanto che egli ne è ritenuto il «fondatore». Dal punto di vista politico, a partire dal 1375 la signoria fu di segno marcatamente monarchico, venendosi definitivamente a perdere la struttura della dominazione almeno parzialmente collettiva – e spesso diarchica – che era stata caratteristica delle generazioni precedenti.
Nel 1382, due fratelli di Antonio, Nolfo e Guido, furono accusati di avere ordito una congiura contro di lui e furono incarcerati a vita; altri due fratelli, Galasso e Nicolò, ricoprirono alcuni incarichi, ma in posizione subordinata. La conquista di Gubbio e del suo contado portò all’assestamento quasi definitivo del territorio, che, nonostante i tentativi di reazione e contenimento di Firenze, Perugia e Città di Castello in Umbria, dei Malatesta soprattutto nel Montefeltro, dei Brancaleoni nella Massa Trabaria e dei Gabrielli a Cagli e nell’eugubino, si sarebbe strutturato in un’unità sempre più compatta, di circa 2000 km2 a cavallo dell’Appennino. Con una prospettiva centralistica, Antonio vigilò sui mercati e sulla sicurezza pubblica e fece redigere nuovi statuti a Cagli, Gubbio, Peglio, nel Montefeltro e a Urbino, dove nel 1396 promulgò le Constitutiones appellationum. Riordinò le milizie, inquadrò i signori minori della zona, controllò sempre più direttamente le cariche ecclesiastiche e si servì di un ceto di officiali spesso reclutati tra le maggiori famiglie del territorio, cui conferì gli incarichi di amministrazione, giustizia e cancelleria. Inoltre istituì il communis Montisferetri, che, stabilito a Montecerignone, fu l’organismo con il quale venne organizzata la regione del Montefeltro, che era popolata da molti castra, ma che non aveva una vera e propria città che potesse dar vita a istituzioni di coordinamento centralizzato. Soprattutto la città di Urbino e il vicino borgo di Fermignano dovettero trarre giovamento economico dall’attività di Antonio, che impiantò laboratori artigiani di tessuti, ceramiche e cartiere e fece aprire almeno un banco, all’ebreo Salomone di Isaia. Il significato di cambiamento rappresentato dal periodo di governo di Antonio fu ben rappresentato dallo stesso Franceschini, il quale divise la sua opera postuma Documenti e regesti comprendendo nel secondo volume (che avrebbe voluto pubblicare per primo) il periodo 1376-1404.
Antonio si circondò di una corte di artisti e letterati, tra i quali Simone Serdini detto il Saviozzo, e ordinò imponenti opere di architettura a Urbino, dove fece costruire un palazzo, documentato dal 1392, che peraltro non corrisponde, come si è a lungo creduto, all’attuale palazzo Bonaventura sede dell’Università. Gli stemmi che oggi sormontano il portale d’ingresso di questo palazzo, che generalmente vengono ritenuti essere quelli di Antonio e della consorte Agnesina, sono invece posteriori di alcuni decenni. Antonio mostrò interesse per la poesia in volgare, tanto che fu autore egli stesso: di lui si conservano un sonetto e una preghiera in capitolo ternario (Napoli, Biblioteca nazionale, Neap., XIII C2, cc. 195v-196v), che furono pubblicate in R. Borghesi, Rime del conte Antonio di Montefeltro (Rimini 1819). Alcune opere gli furono dedicate: tra queste il trattato De Astris di ser Jacopo di Manno da Gubbio e il De quibusdam miraculis Virginis Mariae occursis Mutine di Gerardo Anechini. Antonio rinverdì a Urbino il culto per Dante, già tradizionale nella sua famiglia, ed è possibile che il Dante Urbinate (Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat., 366), uno dei più antichi e autorevoli codici della Commedia esemplato nel 1352, forse dallo stesso Anechini, fosse entrato nella libraria dei Montefeltro per sua iniziativa.
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