FISSIRAGA, Antonio
Appartenente ad influente famiglia lodigiana di parte guelfa, nacque da Martino a metà del sec. XIII.
I Fissiraga, che vengono citati nelle fonti note a partire dall'epoca della ricostruzione di Lodi del 1158, si affermarono nella città nel corso del sec. XIII. Il nonno del F., Arnolfo, fu intorno al 1220 tra gli iniziatori della fazione guelfa locale; Martino, il padre del F., si dedicò invece a costruire il patrimonio fondiario della famiglia, che ebbe il suo epicentro in Cavenago d'Adda (Milano).
Fratelli del F. furono Ottobello, sul cui conto non si posseggono molte informazioni. Arnolfo e Bassiano, che svolsero, spesso accanto ad Antonio, un certo ruolo politico.
Il F. appare citato nelle fonti per la prima volta nel 1271, in occasione di un contratto di vendita. Gli inizi della sua carriera politica debbono porsi verosimilmente in quello stesso periodo, quando la sua famiglia aveva raggiunto in Lodi una posizione di primo piano. Infatti fu proprio grazie all'appoggio dei Fissiraga, oltre a quello delle grandi famiglie guelfe locali, che un esponente del guelfismo milanese, Napo Della Torre, poté, nel luglio del 1270, rovesciare il regime che i ghibellini avevano instaurato l'anno precedente in Lodi e ristabilire in tal modo sulla città l'influenza che la sua casata vi esercitava sin dal 1260. Sempre grazie all'appoggio dei Fissiraga, inoltre, i Della Torre poterono fare di Lodi il loro quartier generale quando, nel gennaio del 1277, furono espulsi da Milano. Nel 1281 il F. - legato ai Della Torre e spesso loro alleato militare - appare già a capo della sua casata e figura tra i personaggi più in vista della sua città e della fazione guelfa: in quell'anno accolse infatti Raimondo Della Torre dopo la sconfitta di Vaprio d'Adda. Tuttavia, quando l'anno seguente i Della Torre dovettero abbandonare anche Lodi ai Visconti, i loro grandi avversari di parte ghibellina in Milano che stavano estendendo la loro influenza in tutta la Lombardia, il F., probabilmente per evitare di sottomettersi ad un governo ghibellino, si acconciò ad allontanarsi dalla sua patria per darsi alla attività podestarile, che svolse in alcuni grandi centri guelfi.
Podestà a Firenze nel 1286, si segnalò come capo militare. Alla testa di un potente esercito fiorentino, tra il 1° e il 25 giugno condusse una prima vittoriosa campagna contro Arezzo, dove si erano da poco imposti al potere i ghibellini, e nel corso delle operazioni si impadronì di una quarantina di fortezze nemiche, spingendosi fin sotto le mura della città avversaria. Nel mese di settembre, poi, con una seconda campagna mise in fuga l'esercito aretino senza nemmeno dover ingaggiare una battaglia campale. L'anno dopo fu podestà a Bologna, dove il suo mandato non registrò fatti di notevole rilievo, se si esclude un arbitrato tra le fazioni di Reggio nell'Emilia, ma si concluse in modo tumultuoso.
Scaduto dall'incarico, infatti, il F. si rifiutò di trattenersi ulteriormente nella città per rimanere- come esigevano gli statuti locali - a disposizione della commissione incaricata di controllare gli atti della sua gestione. Nonostante la simpatia manifestatagli da una parte del popolo, venne arrestato insieme con il gruppo dei suoi collaboratori e fu quasi lapidato. Alla fine, però, fu riconosciuto in buona fede e quindi rilasciato.
A dispetto di questo incidente, il F. fu di nuovo a Bologna come podestà nel 1291: in quella occasione non incontrò problemi particolari. Abbandonò in seguito la carriera podestarile, richiamato in patria dalla guerra che, riaccesasi in tutta la Lombardia, gli faceva intravvedere la possibilità di una rivincita sui suoi avversari. Un po' dovunque, infatti, i guelfi si erano sollevati contro il dominio di Ottone Visconti, signore di Milano. Rientrato in Lodi, già nel 1292 il F. appare tra le personalità più eminenti della sua città, alla testa del popolo di parte guelfa, ma ignoriamo quando e in seguito a quali vicende egli sia giunto, come capo della sua fazione e signore, ad accentrare nelle sue mani il potere. A questo riguardo, infatti, le fonti note ricordano un solo episodio che, pur essendo rivelatore riguardo alla personalità del F. e alla complessa situazione politica locale, non ci permette di conoscere meglio la storia nell'evolversi degli avvenimenti.
Secondo quanto ci viene riferito, il 7 nov. 1292 il podestà di Lodi, esasperato dai giochi politici interni che gli rendevano impossibile il mantenimento dell'ordine pubblico in città, minacciò di rassegnare le dimissioni. Il F., insieme con altri esponenti della fazione guelfa - tra cui lo stesso Giacomo Sommariva che di quella fazione era il capo riconosciuto -, si oppose esortando il podestà ad esercitare fino in fondo i poteri di cui era investito. Stando alle fonti, in quel frangente chi si mostrò più deciso fu il F., il quale dichiarò di voler convocare il consiglio e di essere pronto ad eseguire di persona - se necessario con le sue stesse mani - le sentenze pronunziate dal podestà: atteggiamento risoluto, persino violento, ch'egli avrebbe assunto in seguito anche in altre occasioni e che rivela la tempra del capopartito.
La letteratura storica pone in genere la presa di potere del F. - in mancanza di altre e più precise informazioni - nella stessa epoca in cui avvenne l'episodio appena riferito. Ad ogni modo la signoria del F. e del suo partito era già incontrastata in Lodi nel 1294, come dimostra il fatto che appunto in quell'anno vennero riammessi in città i Della Torre. La presa di potere del F. non fu - a quanto sembra - accompagnata né da riforme sul piano costituzionale né da una istituzionalizzazione della sua figura, in quanto signore o in quanto facente funzione pubblica. Sotto il suo governo Lodi conservò la tradizionale organizzazione comunale, almeno nominalmente, continuando ad essere amministrata da un podestà forestiero e dai Consigli municipali. Nelle occasioni pubbliche importanti, nei Consigli cittadini e nell'esercito il F. figurò sempre soltanto come uno dei notabili locali. Il richiamo dei Della Torre fece esplodere in guerra il dissidio che contrapponeva la Lodi guelfa retta dal F. alla Milano ghibellina, di cui era nuovo signore Marteo (I) Visconti.
In quello stesso anno, infatti, dopo aver riunito le forze di tutte le città da lui dominate, il Visconti invase e devastò il contado di Lodi e fissò un campo fortificato a Lodi vecchia. L'esercito lodigiano, uscito per affrontarlo, venne disfatto. Nel maggio del 1295 Matteo riprese la sua offensiva e assediò Lodi, i cui difensori avevano ricevuto l'aiuto di contingenti cremonesi e cremaschi. La pace venne alla fine conclusa l'11 settembre. Il Comune di Lodi, le cui finanze si erano dissestate a causa della guerra, dovette chiedere in prestito 8.000 lire al marchese Cavalcabò (22 dic. 1295).
Il F. guidò la delegazione inviata per ottenere tale prestito, e capeggiò poi l'ambasceria inviata al marchese due anni dopo per restituirgli la somma. Lo stesso F. prestò poco più tardi, personalmente, 700 fiorini al vescovo Bernardo Sommariva, succeduto sulla cattedra lodigiana a un suo parente - forse suo zio - Bongiovanni Fissiraga: il Sommariva aveva infatti bisogno di soldi per pagare i contributi dovuti alla Sede apostolica. D'altra parte, il F. ricevette in affitto i domini episcopali di Castione, Senedogo, Cavenago e Sommariva, tutti vicini alle terre dei Fissiraga: per essi verso nove anni e mezzo di affitto anticipato, pari a 1.805 lire (febbraio 1297 e maggio 1299). Questa transazione non solo attesta ch'egli non doveva aver sofferto materialmente della guerra contro Milano ma rivela altresì un aspetto della sua politica e della sua personalità: grazie a questi cospicui anticipi egli apparve infatti come il benefattore e il protettore della Chiesa lodigiana, di cui venne nominato nell'ottobre del 1300 procuratore generale per il recupero dei beni usurpati.
Nel 1296 il F. aveva sposato Flora Tresseni, discendente di due grandi famiglie guelfe di Lodi, quella dei Tresseni e quella dei Palatini. Non sembra abbiano lasciato figli.
Riformatasi una lega contro Matteo Visconti e riapertesi le ostilità, nel luglio del 1301, Lodigiani, Cremonesi, Cremaschi e fuoriusciti bergamaschi si impadronirono di Romano di Lombardia e compirono un attacco, senza successo, contro Bergamo; nell'ottobre il F. difese Garlasco con l'aiuto di Filippo Langosco di Pavia, che in seguito sara spesso al suo fianco. Passato quest'anno, in cui la situazione militare rimase confusa, il 1302 vide la vittoria dei collegati sui Visconti proprio grazie al F., il quale era riuscito a guadagnare alla lega l'appoggio di numerose città, in particolare quello di Piacenza guidata da Alberto Scotti. I Della Torre furono allora di nuovo suoi ospiti. Dopo essersi concentrato a Lodi, l'esercito alleato entrò in territorio di dominio visconteo. In quel frangente, mentre Matteo marciava contro il nemico, i Milanesi si sollevarono contro di lui ed espulsero suo figlio Galeazzo. Matteo rinunciò allora al potere e gli alleati entrarono in Milano il 15 giugno 1302. La restaurazione dei Torriani fu decisa, non senza contrasti, dal consiglio dei capi della lega.
Negli anni compresi tra la restaurazione dei Della Torre e l'arrivo in Italia di Enrico VII (1310) la Lombardia venne dominata dal partito guelfo, le cui personalità più in vista furono il F. e Guido Della Torre. Tuttavia essi non riuscirono a realizzare la pace, che ci si aspettava di veder rinascere dopo l'allontanamento di Matteo Visconti da Milano, perché proprio Matteo Visconti riprese molto presto le armi. Nel maggio del 1303 il F., che era podestà di Milano per un semestre, condusse spalleggiato da Guido Della Torre una vittoriosa spedizione contro il Visconti per cacciarlo da Como. Matteo compì allora una lunga ritirata: attraverso il Piemonte si portò a Piacenza il cui signore, Alberto Scotti, aveva cambiato campo, abbandonando la lega. Queste attività militari non furono che le prime di una lunga serie che si svolse per tutti quegli anni senza mai sfociare in una battaglia decisiva.
In quel periodo il F. passò buona parte del suo tempo impegnato in operazioni belliche che condusse alla testa delle sue truppe - per quanto possiamo intuire dalle fonti, piuttosto povere di notizie sul suo conto -. Designato dal papa nel 1304 podestà di Firenze, per riportarvi la pace tra le fazioni interne, non accettò l'incarico molto probabilmente a causa degli impegni connessi con la difficile situazione nell'Italia settentrionale. Sul finire del primo decennio del secolo, ad ogni modo, il F. e sua moglie Flora compirono il grande disegno religioso della loro vita: la fondazione in Lodi del monastero di S. Chiara.
Il F. si era guadagnato la fama di grande benefattore dei francescani della città, dato che aveva ricostruito per loro alla fine del sec. XIII la chiesa di S. Nicolò, poi diventata S. Francesco. D'altro canto, la madre di Flora apparteneva ad una famiglia, i Palatini, che si era ispirata alla spiritualità francescana, come del resto anche la famiglia Tresseni, con la quale aveva stretto legami di parentela. Nel suo testamento ella auspicava la fondazione di un monastero di clarisse, voto che venne realizzato dalla figlia e dal genero.
Nel febbraio del 1309 una permuta di beni con la Chiesa di Lodi permise al F. di acquisire la proprietà di Cavenago e di Sommariva, di cui era - come si è visto - affittuario dal 1297 e che donò al nuovo monastero, a costituirne la dotazione iniziale. L'11 dic. 1310 fece confermare la donazione dall'imperatore eletto Enrico VII presso il quale allora resiedeva. Quando morì, Flora aumentò per testamento questa dotazione (febbraio 1312). Lo stesso F., quando dettò il proprio testamento nel giugno del 1311, lasciò in eredità a S. Chiara un'altra proprietà (ma tale disposizione non venne eseguita). Il monastero fondato dal F. visse per quattro secoli e mezzo, fino alla soppressione nel 1782.
Il 1310 segnò una svolta nella storia politica italiana e nella vita del F.: l'imperatore eletto, Enrico VII, passò le Alpi per farsi incoronare e per riaffermare l'autorità imperiale sull'Italia. L'annuncio del suo arrivo suscitò nelle fazioni politiche italiane molte speranze e altrettanti timori. Il F. e gli altri capi guelfi, sebbene propensi alla resistenza armata, finirono tutti, ad eccezione di Guido Della Torre, con l'andare a rendere omaggio al sovrano germanico che raggiunsero a Torino agli inizi di novembre del 1310 e al quale, ben accolti, fecero da scorta trattenendosi a lungo presso di lui (10 novembre - inizi di dicembre). Tuttavia, quando anche Matteo Visconti venne aggregato alla corte imperiale e cercò di abbracciarlo, il F. non riuscì a trattenere la sua ira e, in un intervento incendiario, lo definì nemico pubblico e fomentatore della guerra.
Pare che Enrico VII abbia dato grande importanza a tale incidente: esso gli rivelò infatti che lo stato d'animo dei capi guelfi. nei suoi confronti era lungi dall'essere così ben disposto come costoro invece ostentavano. In realtà essi non potevano sopportare la reintegrazione dei fuoriusciti ghibellini nella vita politica delle diverse città italiane che l'imperatore si augurava e che desiderava fosse al più presto messa in pratica. Nel corso del viaggio Matteo finì per conquistarsì la fiducia dei sovrano che con lui si diresse verso Milano, dove pareva ormai sicuro che la popolazione avrebbe abbandonato Guido Della Torre. Enrico VII giunse nella città lombarda il 23 dic. 1310; il 27 impose la pace tra i Torriani - divisi al loro interno sulla linea politica da seguire - e i Visconti. Il 28 Guido Della Torre venne privato della carica di capitano del Popolo. Il 6 genn. 1311 Enrico fu incoronato re d'Italia; il 15 riconciliava tra loro le fazioni avversarie di Lodi. Tuttavia, misure quali la sostituzione dei podestà e dei capitani del Popolo con vicari reali e la riscossione di imposte piuttosto pesanti (a Lodi, 900 fiorini) da lui decretate dovettero apparire insopportabili ai guelfi. Nel momento in cui si apprestava a partire per Roma i Milanesi si sollevarono contro di lui, subito imitati dagli abitanti di diverse altre città, tra cui Lodi stessa. Enrico VII, avuta ragione del moto, perdonò i rivoltosi ma pretese dal F. e dagli altri capi guelfi un giuramento di fedeltà.
Incaricato - contro sua voglia - di pacificare Cremona, il F. rientrò, senza aver nulla ottenuto, a Lodi, dove la popolazione, nell'aprile del 1311, si sollevò contro il vicario imperiale restato in città nonostante il degradarsi della situazione, lo cacciò e si preparo a resistere a un attacco del sovrano germanico. E F. preferì non partecipare a questo progetto di resistenza all'imperatore ma si recò a Milano per sottomettersi un'altra volta a Enrico VII, da cui ottenne il perdono grazie all'intervento di Amedeo V di Savoia. Venne però tenuto in ostaggio mentre le truppe imperiali, inviate a Lodi, intimarono l'apertura delle porte della città, la qual cosa riuscirono a ottenere solo con la minaccia di giustiziare alcuni degli ostaggi, tra i quali era un fratello del F., Bassiano. Il 19 aprile Enrico VII in persona, giunto a Lodi, decise di non punirla ma il F. e gli altri capi guelfi furono costretti a partecipare al lungo assedio posto dagli Imperiali alla città di Brescia. Il 13 luglio, nonostante il loro parere sfavorevole, Matteo Visconti venne nominato vicario imperiale di Milano. Il 16 settembre, giorno della resa di Brescia, il F. - forse malato, come gran parte dei soldati - dettò il proprio testamento.
Per molti mesi il F., come gli altri capi guelfi, accompagnò, non certo di buon grado, Enrico VII.I sempre sperando ma vanamente di veder ristabilito quello status quo ante che permettesse loro di ritornare al potere. Così, quando il 15 ottobre, a Pavia, chiese ai rappresentanti di tutte le città di esprimere il loro parere sulla situazione politica, i guelfi manifestarono il loro malumore e il giorno seguente abbandonarono il seguito del sovrano. Solo il F. lo scortò ancora fino a Genova, nella vana speranza di farsi nominare vicario imperiale di Lodi: resosi conto che ciò sarebbe stato impossibile, abbandonò a sua volta Enrico VII ma venne fatto prigioniero a Voghera dai partigiani di Manfredo Beccaria, il signore ghibellino di Pavia. Stando a certe fonti, il F. sarebbe stato consegnato a Matteo Visconti; secondo altre, invece, sarebbe stato liberato in vista di uno scambio con lo stesso Beccaria. In ogni caso non rimase a lungo in prigione: nel luglio del 1312 guidò la sollevazione del contado di Lodi contro il rappresentante di Enrico VII, che nel frattempo era stato incoronato imperatore a Roma. E questa l'ultima volta che le fonti ricordano il F. libero e in attività.
La sua carriera politica era stata rovinata dagli sconvolgimenti causati in Italia dall'arrivo di Enrico VII; i ghibellini e i grandi signori armati dall'imperatore erano ormai divenuti i padroni del gioco politico italiano, che si organizzò intorno al primato della Milano di Matteo Visconti. Il destino del F. era sembrato segnato fin dall'incontro di Asti nel novembre del 1310 che l'aveva visto disorientato di fronte alle nuove realtà politiche e incapace di schierarsi con decisione da una parte o dall'altra. Quando rientrò definitivamente fra i ranghi dell'opposizione attiva al sovrano germanico, dopo un anno di esitazioni e di rivolte abortite, era ormai troppo tardi: il suo partito era infatti ridotto a una resistenza sporadica e disorganizzata. Nella stessa Lodi, i Vistarini, antichi avversari della sua famiglia, avevano ripreso il potere (al più tardi agli inizi del 1313). La resistenza guelfa non era allora cessata ma ne erano anima Fanone Tresseni e i Sommariva, famiglie che dominavano la fazione guelfa prima dell'arrivo al potere del Fissiraga. Nel 1313, alla fine di aprile, una pace conclusa grazie all'opera dell'arcivescovo Baldovino di Treviri escluse espressamente il F. e tutti i suoi parenti, considerati gli irriducibili della fazione guelfa di Lodi e destinati ad essere consegnati ai Visconti in caso di cattura. Lodi non sfuggì più alla dominazione ghibellina: venne infatti data in feudo da Enrico VII al maresciallo delle Fiandre, restando praticamente nelle mani di Bassiano Vistarini che divenne prima il suo vicario e poi il suo signore.
Gli ultimi quindici anni della vita del F. lo videro, sconfitto, prima in esilio e poi a lungo in prigione. La mancanza di informazioni e le divergenze tra le varie cronache non ci permettono di chiarire quali siano state le vicende della sua vita - sicuramente dolorose - tra il luglio del 1312 e la morte. Secondo il Morigia egli sarebbe stato catturato da Galeazzo Visconti il 9 ag. 1313, insieme col suo compagno di lotta Filippo Langosco, durante un colpo di mano contro Piacenza tentato da una rinata lega guelfa. Il Calco, invece, non menziona la presenza del F. in quella occasione ma dice che i Milanesi lo trovarono in prigione quando si impadronirono di Bene Vagienna (oggi in prov. di Cuneo) nel 1316. M. Grossi, basandosi su questa ultima versione, propone un'ipotesi plausibile: il F. si sarebbe rifugiato presso Filippo di Savoia Acaia, conte di Torino, ma questi, con un improvviso voltafaccia, l'avrebbe fatto arrestare. Comunque siano andate effettivamente le cose, il F. passò la sua vecchiaia nelle carceri milanesi e vi morì, malgrado i ripetuti interventi compiuti da Giovanni XXII tra il 1317 e il 1322 perché fosse liberato con gli altri capi guelfi messi in prigione. Quando Galeazzo Visconti, successore di Matteo, fu cacciato da Milano, il F. venne rimesso in libertà insieme coi suoi compagni di prigionia (8 nov. 1322). Venne tuttavia nuovamente spedito in carcere dai nuovi signori di Milano; al suo ritorno al potere, un mese più tardi, Galeazzo Visconti si guardò bene dal rimettere in libertà l'ormai vecchio e inoffensivo rivale.
Il F. morì il 20 nov. 1327.
Le sue spoglie vennero restituite ai Lodigiani. Costoro, pur essendo ancora governati dai Vistarini, le inumarono in pompa magna dopo averle rivestite del saio francescano, in quella chiesa di S. Francesco che lui stesso aveva fatto ricostruire.
Il giudizio unanime, dopo la morte, tra i suoi amici e rivali, riflette quelle qualità che tutti riconobbero al F., testimoniate anche dalla sua iscrizione funebre: indomabile energia, fedeltà alle sue scelte politiche e ai suoi amici, estrema franchezza e grande generosità, manifestatasi soprattutto nei confronti dei francescani e delle clarisse. Il F. incarnò l'ultima fase dell'indipendenza di Lodi, che difese accanitamente. Dopo di lui, la città cadde sotto l'egemonia di Milano, alla quale già prima era riuscita a sottrarsi solo con difficoltà.
Il monumento funebre del F., ancora conservato, si compone di un'urna di marmo rialzata su colonnine. È ornato da due affreschi, opera di artisti a lui contemporanei, che rappresentano rispettivamente una Vergine col Bambino, alla quale il F. in età avanzata e con la barba, viene presentato da alcuni santi, e le esequie del F., condotto alla tomba attorniato da un corteo di francescani.
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