FOGAZZARO, Antonio
Nacque a Vicenza il 25 marzo 1842 da Teresa Barrera e da Mariano, che esercitò su di lui un'influenza notevole e persistente, com'è documentato da alcuni personaggi dei suoi romanzi ispirati alla figura paterna, primo fra tutti il Franco Maironi di Piccolo mondo antico. Nel 1848 il padre fu, con il fratello don Giuseppe, tra i membri del Comitato provvisorio che dirigeva la lotta di resistenza della città contro gli Austriaci, manifestando entrambi, in questa occasione come poi nelle vicende successive della stagione risorgimentale, la loro vocazione liberale mai disgiunta da una salda e convinta adesione al cattolicesimo. Durante il periodo della guerra il F. si trasferì, con la madre e la sorella, a Rovigo e quindi a Oria, in Valsolda, luogo di origine della famiglia materna e sfondo prediletto, poi, dei suoi versi come di molte ambientazioni romanzesche.
Tornato a Vicenza e finite a otto anni le scuole elementari, ebbe come precettore lo zio sacerdote, don Giuseppe, raffigurato successivamente in Piccolo mondo modemo e ricordato in Il mio primo maestro (in S. Rumor, Don Giuseppe Fogazzaro, Vicenza 1902): una delle personalità della cerchia familiare, insieme col padre e la sorella del padre suor Maria Innocente, da cui raccolse sempre insegnamenti e indicazioni di vita. A quattordici anni entrò al liceo di Vicenza, dove incontrò G. Zanella che lo indirizzò allo studio della letteratura italiana ed europea, un campo di interessi che catturò l'attenzione del giovane F., affascinato dalla lettura di H. Heine e F.-A-R. de Chateaubriand, come, poco dopo, di Victor Hugo. Nel 1858, terminati gli studi superiori, si iscrisse, per volontà del padre (che volle trasferirsi insieme con lui), alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Padova.
Alla scarsa inclinazione per il diritto si uni, a rendere quanto mai modesti e distratti i suoi studi universitari, una malattia che lo colpì quasi subito e che si trascinò per circa un anno, durante il quale continuò le sue amate letture letterarie, scoprendo allora e invaghendosi di V. Hugo.
Nel novembre 1860, Mariano Fogazzaro decise di trasferirsi con la famiglia a Torino per consentire al figlio di frequentare l'università, ma anche per allontanarsi in volontario esilio, dal Veneto ancora sotto il dominio austriaco. Nel capoluogo piemontese il F. riprese gli studi giuridici, condotti sempre con scarsissimo entusiasmo e applicazione arrivando tuttavia a laurearsi nel 1864. Rimanevano prediletti gli interessi letterari che si tradussero nei primi tentativi di composizione poetica. Sono infatti di questi anni alcune odi e inni raccolti in un quaderno e poesie d'occasione: Una ricordanza del lago di Como, Vicenza 1863 (nozze Scola - Patella), Albo veneziano, ibid. 1865 (nozze Clementi - Marchesini), A mia sorella, ibid. 1868 (nozze Fogazzaro - Danioni), Najadi, ibid. 1871 (nozze Casalini - Barrera). Il padre tuttavia insisteva perché intraprendesse la carriera forense; il F. si impiegò perciò, appena laureato, presso uno studio legale a Torino e, poi, presso un altro studio di Milano, dove la famiglia si era nel frattempo (1865) trasferita.
Qui conobbe e frequentò un gruppo di giovani letterati e intellettuali come E. Praga, C. Mancini, C. e A. Boito. Pur non condividendo il F. pressoché nulla delle aspirazioni e delle tensioni di questo ambiente, coltivò numerose amicizie, consolidando soprattutto con A. Boito un rapporto di stima e di solidarietà che rimase intatto per tutti gli anni della loro vita.
Nel 1866 sposò, nonostante le riserve del padre (che proprio quell'anno fu eletto deputato nel collegio di Marostica, mandato che mantenne fino al 1873), la contessa Margherita di Valmarana; nel 1868, dopo aver superato l'esame di procuratore, prese la decisione di abbandonare definitivamente l'attività forense. Tornato a Vicenza, dove nacque la prima figlia Teresa (1869), cominciò ad abbozzare un romanzo, di cui scrisse le prime pagine, utilizzate poi per l'inizio di Malombra; nel 1870 iniziò a tenere per i successivi dodici anni, insieme con la moglie, un diario, nel quale i due coniugi registravano gli elementi significativi della loro vita familiare e soprattutto del rapporto con i figli (è del 1875 la nascita di Mariano e del 1881 di Maria). Intanto, accanto a qualche conferenza (Discorso tenuto al teatro Olimpico per la dispensa dei premi agli alunni delle scuole serali civiche e rurali, Vicenza 1870; Dell'avvenire del romanzo in Italia, ibid. 1872) il suo interesse era concentrato sulla scrittura in versi: andava infatti elaborando il poemetto in endecasillabi sciolti Miranda, che pubblicò (Firenze 1874, con successive integrazioni in Poesie, Milano 1908) con il finanziamento del padre, che si era finalmente convinto dell'autenticità della sua vocazione.
Il volumetto, sottoposto all'attenzione dei critici e dei letterati più noti del momento dallo stesso F. e da suo padre, raccolse apprezzamenti ma anche molte riserve. F. De Sanctis ne scrisse: "Ci ho trovato dei bei. motivi psicologici, ma poca ricchezza e poca serietà nel loro sviluppo e nelle loro gradazioni", concludendo: "questi difetti organici producono una monotonia che giunge talora sino alla stanchezza e all'ineloquenza, un difetto d'espressione, un soverchio di muta concentrazione che può nutrire una scena, ma non una poesia così lunga" (lettera al padre del F., in Gallarati Scotti, p. 53). Si tratta di una novella in versi scandita in un prologo, due libri ed un epilogo; la parte centrale è coperta dal racconto, nel primo libro, del giovane poeta Enrico che ripercorre la breve vicenda sentimentale che lo ha legato a Miranda, candida e sensibile fanciulla, da lui abbandonata per ansia di affermazione e per il fascino di una straniera, Diana, prototipo delle donne esotiche e fatali che compariranno spesso nei romanzi successivi. Nel secondo libro il racconto malinconico e mesto è condotto dalla giovane protagonista, avviata alla malattia e quindi alla morte, nonostante il ritorno del pentito Enrico. La derivazione dalla tradizione romantica della novella in versi è evidente nel tipo della protagonista, personalità sensibile e delicata, che ha molto dello spirito dell'autore, come nelle scelte linguistiche ed espressive, modulate più su tonalità prosastiche che propriamente poetiche, sicché, alcuni anni dopo, G.P. Lucini parlò di "lunare squallidezza del verso prosastico ... poemetto ricomposto sulle brume bavaresi, sopra una spiritualità, cui l'isterismo inlievita" (Il Resto del carlino, 19 marzo 1911, poi in E. Ghidetti, Le idee e le virtù di A. F., Padova 1974, p. 76).Di due anni posteriori furono i versi raccolti in Valsolda (Milano 1876), dedicati ai paesaggi, agli ambienti, alle figure della terra tanto amata dal poeta. Passate quasi inosservate alla prima uscita, queste poesie riscossero - ristampate con altre - un notevole successo (in Poesie disperse, Torino 1887, poi in Poesie), dopo che ormai il F. aveva conquistato la notorietà con i primi romanzi.
Vi si riconoscono le molte letture dei poeti del romanticismo europeo (H. Heine, F. Schiller, P.B. Shelley, A. Platen) insieme con la tradizione poetica italiana. Ma va notato che già emergono le idee cardine della concezione dell'arte che accompagnerà tutta la carriera letteraria del F.: il profondo legame che lo univa a quelle terre e che sostanzia la sua scrittura non solo nel senso geografico-ambientale, ma anche e soprattutto in quanto è il motore dell'immaginazione, della fantasia, della stessa spinta alla scrittura, come si vedrà ancor più chiaramente nella narrativa in prosa. Già qui è l'atteggiarsi di questa natura che induce il poeta a evocazioni liriche trasposte in un linguaggio che consapevolmente aspira ai moduli della musica, pervaso dal senso del sogno, del mistero, della religiosità che comprende l'uomo e gli ambienti naturali in una dimensione che qualche critico ha definito di panteismo mistico.
Del resto il F. si applicò a tradurre in versi l'effetto prodotto dalla musica in quattro composizioni dal titolo Versioni dalla musica: R. Schumann (Op. 68), pubbl. in Nabab, 1885; L. van Beethoven (Op. 27), in Cronaca bizantina, VII (1885); Martini (Gavotta), in Fanfulla della domenica, 30genn. 1887, e ancora Schumann, in La Vita italiana, 10 dic. 1894. A dimostrazione esplicita di un'attitudine tenacemente coltivata e della quale sono abbondanti le tracce anche nei romanzi, come segnale di un modo peculiare di descrivere e di comunicare che fonda sull'evocazione, sull'impressione prodotta da eventi, da immagini e da emozioni riafferrate dal già trascorso. Sicché anche le figure che qui compaiono, come poi molti personaggi di contorno che popolano i romanzi, risultano ispirate dalla medesima intenzione di ritratto che orienta l'occhio sui monti, sulle vallate, sul lago, sulla natura insomma, proiezione, come gli uomini, dì Dio. Perché il F., nato e cresciuto in una famiglia sentitamente e rigorosamente cattolica, aveva attraversato negli anni universitari e poi ancora per circa un decennio, un periodo di vera e propria crisi della fede che sì realizzò in un allontanamento di fatto dalle ragioni più intime della pratica religiosa, senza però rotture traumatiche, né dilemmatiche.
Data al 1873, in coincidenza con la conclusione di Miranda, il ritorno pieno alla fede, determinato, a suo dire, dalla lettura di un libro., La philosophie du credo di Auguste-Alphonse Gratry, così come a produrre la crisi era stato un altro libro, Les contemplations di V. Hugo.
Certo è che, di là dalle dichiarazioni pubbliche ("Oh, io sono cattolico, rigido, severo, convinto. Alla mia fede non concedo dubbi od oscillazioni", intervista a U. Ojetti, in Alla scoperta dei letterati, Milano 1895, p. 39), il F. visse la fede sempre come una conquista da confermare e ribadire continuamente piuttosto che come un saldo e indiscusso punto di arrivo. tanto che traspare spesso nella sua scrittura privata e si intuisce nelle pieghe della sua scrittura pubblica il senso di colpe commesse e di estrema precarietà dello status raggiunto sul piano intellettuale e sentimentale, in una proiezione di attivismo, di produttività vissuta sempre come un dovere. In questo senso l'approdo pieno, esplicito ed esibito alla religiosità cattolica rappresenta un forte ancoraggio per il F. ansioso sempre di individuare zone di pensiero e di emotività, nonché di intervento attivo, intorno alle quali raccogliere le manifestazioni esterne della propria vita. Sicché non è per caso che la riflessione sul romanzo preceda la concreta fattualità narrativa e che questa sia accompagnata poi dalla insistente e puntigliosa ricerca di una conciliazione tra la scienza e la fede, sul piano teologico e morale. Il fatto è che le stesse considerazioni del F., come quelle citate, autorizzano a collegare anche il suo forte impegno sul versante teorico e ideologico al desiderio di rendere più solida la propria professione cattolica coll'estenderne piuttosto le aree di intervento, che con le forme diverse di interiorizzazione soggettiva.
Nel 1872 aveva pronunciato all'Accadernia olimpica di Vicenza un discorso, Dell'avvenire del romanzo in Italia (pubblicato lo stesso anno, poi in volume, a cura di P. Nardi, Vicenza 1928), nel quale riconosceva appunto il romanzo come la forma letteraria capace di raggiungere il pubblico più vasto, esercitando perciò l'influenza maggiore nel campo delle idee: "Maestro di tutte le seduzioni, possiede tutte le maschere, parla tutti i linguaggi, da quello dei gentiluomini a quello del trivio" (p. 25); dove già si leggono le opzioni linguistiche ed espressive del F. narratore. Ma proprio per le capacità sincretiche che il romanzo per sua natura possiede ("l'epica, la lirica, la satira si trovano intrecciate nel romanzo", p. 26), non è necessario e anzi è controproducente la sottomissione della narrazione a una tesi precostituita, poiché: "lo credo all'assoluta indipendenza dell'arte. L'arte non è ancella di nessuno. Non si puo imporre all'artista uno scopo espressamente educativo cui egli subordini il suo amore supremo, dolcezza e tormento dell'anima, l'arte" (p. 62). Di qui un romanzo di idee, sostanziato da ritratti d'ambiente e di caratteri che contenga "l'esame profondo di se stesso e dell'oscuro dramma che le passioni ed i casi svolgono nel mistero di ogni anima, l'esame acuto di coloro fra i quali si vive" (p. 45); ma che unisca anche comico e patetico, secondo la lezione manzoniana assimilata e riletta dal Fogazzaro.
La riflessione sull'arte accompagna l'attività letteraria del F. presentando alcune modificazioni di accento e di intenzione, soprattutto quando negli anni Ottanta e Novanta vanno affermandosi le ragioni del romanzo naturalista prima e della presenza dannunziana, sempre più invadente. Sicché il F. sposterà le sue considerazioni sempre più in direzione della responsabilità etica dell'arte ("Sento che l'arte obbedisce a un'indicazione tacita della nuova scienza e combatte veramente sul fronte della razza quando da ogni animalità inferiore trae lo spirito umano all'accesa ricerca, sia pur faticosa e dolorosa, di quella bellezza complessa che più è pura di animalità, che compenetra in una luce indissolubile la bellezza intellettuale e la bellezza morale", Per un recente raffronto delle teorie di s. Agostino e di Darwin circa la creazione, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, s. 7, 111 [1891], poi in Ascensioni umane) verso la raffigurazione, a fini edificanti, di "tipi superiori in formazione". Quello che rimane costante, tuttavia, ed è l'elemento più importante, è la sua convinzione di una sostanza spiritualmente superiore dell'arte, la quale sola può opporre idealità a materialità, se e in quanto ispirata aì sanì e nobilitanti principi della religiosità cattolica. Su questa base si costruì la sua presenza sulla scena letteraria e culturale dell'Italia postunitaria, nonché la sua fortuna quale "capo di tutta una resurrezione neomistica nell'arte e nella letteratura" (U. Ojetti, Alla scoperta..., p. 36). Scriverà Croce (1903): "Alla fama di Fogazzaro non hanno concorso ragioni puramente letterarie, perché egli si presenta, oltre che con parole di artista, con un intero sistema di idee religiose, metafisiche, etiche, politiche, estetiche" (in La letteratura della nuova Italia, IV, Bari 1964, p. 134).
Molte di queste idee ritroviamo nel primo romanzo, Malombra (Milano 1881), la cui stesura occupò il F. per circa un decennio, intrecciandosi ai versi, per lo più d'occasione (La tua nuova casa. Versi, per le nozze Piovene - Valmarana, Milano 1873; Felicissime nozze Burato - Chiarini, Vicenza 1876; In morte di Emilia Valle, ibid. 1880), a novelle (poi raccolte in Fedele e altri racconti, Milano 1887), a scritti giornalistici (Un poeta perduto: Francesco Saggini, in Il Convegno, II [1873]; Per la morte di Eugenio Napoleone. Ode di G. Carducci, in Giornale della provincia di Vicenza, 12 ag. 1879), a discorsi, come quello già citato sul romanzo.
Il Nardi ha ricostruito e documentato su carte inedite il percorso tormentato che impegnò il F. nella scrittura del romanzo, variando titolo, nomi dei personaggi, situazioni, nelle successive elaborazioni prima della definitiva; ancora più rilevante la documentazione sui risvolti autobiografici che presenta la figura del protagonista, Corrado Silla, "un autoritratto idealizzato" secondo Gallarati Scotti (p. 79) che considerava l'intero romanzo come "la storia poetica della sua giovinezza" (p. 77). Che in questo, come del resto negli altri romanzi, il F. abbia trasposto molto di sé, è indubbio, pur essendo in fondo alquanto irrilevante ai fini della valutazione di queste prove letterarie, caratterizzate piuttosto da una forte determinazione alla rappresentazione di tipologie in qualche modo esemplari, in senso psicologico e soprattutto ideologico. Qui i tre protagonisti, Corrado Silla, Marina di Malombra ed Edith sono definiti e agiti nella interdipendenza non tanto delle situazioni e delle vicende, quanto appunto di una certa tipologia astratta. Alla demoniaca, inquietante, torbida Marina fa da complemento la dolce e pura Edith alla quale Silla si sente legato senza riuscire tuttavia a sfuggire al fascino implacabile della giovane nipote del conte Cesare d'Ormengo, convinta di essere la reincarnazione di una antenata sottoposta a crudeli sofferenze in seguito ad un amore contrastato dalla famiglia. La antiteticità, che è anche complementarità, dei due personaggi femminili (che richiama certe invenzioni scapigliate, come la Fosca di I.U. Tarchetti) traspare dalle parole della prefazione all'edizione francese del romanzo (Parigi 1898, poi in Minime, Milano 1901, pp. 238 s.), dove il F. scriveva, a proposito di Marina: "Elle était pour moi la femme qui ne rassemble à aucune autre et je l'avais pétrie d'orgueil pour l'inexprimable plaisir de la dompter", mentre la fisionomia di Edith scaturisce "de la terreur d'un abime: Edith n'est qu'une réaction de la conscience et du sentiment réligieux". Questo spiega bene il carattere astratto e stilizzato di entrambi i personaggi: lati opposti ed estremi dell'immagine che il F. aveva e voleva trasmettere della donna che si ritroveranno nelle protagoniste dei romanzi successivi, ma attenuati e fusi in un solo carattere, intinti in un senso di spiritualità superiore: "Io credo al femminile eterno, a un sesso misterioso delle anime, a unioni ben diverse dalle nozze umane ma strette per lo stesso principio e forse con lo stesso fine, di una sublime generazione, di un continuo ascendere anche nel numero come nella misura verso l'Infinito. Credo e spero e sogno così", lettera alla sua corrispondente di quegli anni, Ellen Starbuck, con la quale stabilì un rapporto sentimentale e intellettuale che esercitò un'influenza profondissima sulla sua vita e sulla sua arte (8 marzo 1884, in Gallarati Scotti, p. 129). L'esito tragico del racconto, il suicidio di Marina che si inabissa nel burrone dopo aver provocato la morte dello zio e di Silla, è il suggello di una vicenda che è segnata dal gusto romantico dell'esotico, dell'anonnale, del suggestivo; un gusto che deriva fondamentalmente dal plafond di letture e di passioni letterarie che avevano animato la sua giovinezza e che qui nettamente prevale; mentre poi si affinerà, iscrivendosi sotto il segno, profondo e costante nell'ispirazione fogazzariana, del filtro della memoria che plasma e organizza la materia del racconto, proiettandola in una dimensione lontana da ogni intenzione realistica. Di là dalla scelta letteraria e culturale antinaturalistica, è la fantasia del F. che è mossa dall'evocazione, dal ricordo, dalla suggestione dei contorni sfumati dalla distanza: "... [contemplando] i colli e il lago, ho pensato ad Annibale come se i cavalli numidi e gli elefanti e la fanteria africana fosse passata [sic] di lì l'anno scorso. Il fatto è che io non riportavo la battaglia al tempo in cui avvenne; ma al tempo in cui vi leggeva con emozione il racconto da piccinetto, e di quella commozione la memoria è vicinissima a me" (inedito in Nardi, 1929, p. 43). Qui è il nocciolo dell'attitudine del F. alla scrittura letteraria, un mezzo per richiamare, rievocare le emozioni di esperienze passate; qui anche la radice di quella vena di torbida sensualità che fu avvertita dai primi critici e recensori, con riprovazione nella parte clericale e con apprezzamento dagli altri, un'inclinazione che è sottoposta a spinte contraddittorie sicché nota bene il Nardi, "la sensualità ne risulta, non intensificata per costrizione, ma impoverita per attenuazione e per sottrazione" (ibid., p. 118). Il fatto è che i dilemmi, i contrasti tra spirito e senso in cui il F. si dibatteva e che trasferiva ai suoi personaggi non sono mai stati vissuti da lui fuori dell'"immaginazione", della coscienza, non sono mai diventati esperienze realmente subite. "Ella si è spaventata leggendo quei capitoli di Malombra raffrontandoli con le ultime parole della mia lettera. Si tratta per me di lotte, di cadute puramente interiori. La mia volontà, che non ha sempre saputo dominare il pensiero, è rimasta però, dalla mia prima giovinezza in poi, padrona delle mie azioni, di quello che appartiene alla vita esteriore. Ma anche nella vita interiore come sono dolorose le sconfitte dello spirito! Come egli ne resta stupito e muto!" (lettera a E. Starbuck, 20 ag. 1883, in Gallarati Scotti, p. 80). Da questo tipo di sensibilità da "esercizio spirituale", deriva quel tanto di astratto nei caratteri e nelle situazioni che gli fu spesso rimproverato, insieme con la tonalità torbida, ambigua che pervade stati d'animo e ambienti naturali, in una corrispondenza spesso di schietto sapore romantico.
Certo è che Malombra fissa gli ingredienti di base degli intrecci fogazzariani: il contrasto amore-colpa, la follia, il divieto, la conclusione catartica, ai quali di volta in volta si aggiungono altri elementi e una varietà di figure di contorno. Perché l'altra componente, sistematicamente mescolata dal F. al corpo della narrazione principale consiste nel tratteggio di caratteri, tipi, a volte macchiette di sapore comico, che bilanciano e contornano le figure dominanti dei protagonisti. Scriveva il F. (nella Préface, cit., ora in Scene e prose varie, a cura di P. Nardi, Milano 1945, pp. 303 s.): "Il y a dans Malombra un certain nombre de personnages très réels qui ont fait souche et dont les fils e les petit-fils se promènent dans mon ceuvre, un peu partout. Ce sont des personnages comiques à la physionomie étrange et aux allures bizarres. En les reproduisant, j'ai fait surtout œuvre d'observateur, car il a été mon bonheur, ou mon malheur, selon qu'on voudra, de rencontrer dès mes premiers pas dans la vie beaucoup d'étres tout à fait singuliers et d'un comique touchant à l'invraisemblable". Idee queste già annunciate nel discorso del 1872, alle quali il F. rimase fedele, convinto assertore della mescolanza di comico e patetico, su una linea che da Manzoni conduce al bozzettismo otto-novecentesco di molta nostra letteratura minore.
Subito dopo la pubblicazione di Malombra, confortato dai giudizi raccolti, il F. iniziava la stesura di un nuovo romanzo che lo impegnò fino all'11 marzo 1884 (lettera a E. Starbuck, in Gallarati Scotti, p. 99). Nel 1885 veniva stampato Daniele Cortis (Torino), così presentato dallo stesso F.: "Io tratto in questo romanzo l'amore e la politica nel modo più impopolare del mondo; glorificando una specie d'amore che non si usa più, che si mette in ridicolo, esprimendo delle idee politiche che hanno forse fautori segreti ma che nessuno osa sostenere apertamente per paura delle fischiate" (lettera a E. Starbuck, 12 nov. 1883, ibid., p. 125). Pilastri del romanzo sono infatti la tentazione della passione amorosa e la passione politica, la volontà di lottare per l'affermazione delle proprie idee religiose e appunto politiche: entrambi i fronti calati nella figura del protagonista, Daniele Cortis, nel quale sono ravvisabili, come sempre, alcuni tratti che il F. voleva esternare di se stesso.
Il Nardi, passando in rassegna i sette protagonisti dei romanzi fogazzariani, osserva: "Certo, l'anima del F., con le sue contraddizioni e pertanto con le sue debolezze e le sue complicazioni è soffiata in questi sette involucri fantastici. E basta stabilire il parallelo tra biografia e romanzi, per accorgersi della proiezione e dei riflessi della storia interna, e bene spesso anche esterna, dell'autore in quella dell'unico eroe svariante e progrediente per entro i sette or ricordati" (p. 194).
La vicenda di Daniele Cortis si svolge tra il 28 giugno 1881 e il 18 apr. 1882, in una fase della vita italiana dominata dalla coscienza diffusa negli ambienti politici e intellettuali di un oscuramento delle ragioni ideali su cui si era retto lo slancio risorgimentale, una stagione dunque in cui cominciavano ad apparire i primi segni di quella deprecatio temporum che andrà rafforzandosi ed estendendosi fino agli anni della prima guerra mondiale, assumendo coloriture diverse, ma accomunando comunque opinioni e schieramenti anche opposti nella percezione di un inarrestabile decadimento dei costumi e delle sorti della vita civile. Benché il F. non abbia mai condiviso una visione pessimistica e anzi, come si vedrà, si sia fatto alfiere di una concezione saldamente progressista dello sviluppo storico e sociale, concordava tuttavia nella diagnosi corrente sul pesante immiserimento del clima morale e politico. Daniele Cortis è così il portatore di una posizione ideologica che, nella piena tradizione liberale cavouriana di rispetto delle autonomie reciproche della Chiesa e dello Stato, a livello istituzionale, intravede la svolta positiva nella ripresa di intervento della Chiesa, dei suoi valori, della sua carica ideale. "Io credo [sono parole di Daniele Cortis] che vi è in questo fermento democratico, qualche lievito rubato al cristianesimo: io vedo nel mio pensiero un luminoso e possibile ideale di democrazia cristiana, molto diverso da quel dispotismo di maggioranze egoiste, avide di godimento, che minaccia le libertà moderne". A cui sono da accostare queste considerazioni dello stesso F.: "Le convinzioni mie profonde dalle quali parto sono queste: che la distribuzione attuale dei beni nella società è iniqua e che quindi in fondo agli errori e agli eccessi del socialismo vi è un fondo di ragione; che senza un'azione larga, profonda, diretta del cristianesimo, la trasformazione sociale a cui andremo incontro sarà terribile, empierà il mondo di sangue e di rovina" (lettera a E. Starbuck, 16 febbr. 1884, in Gallarati Scotti, p. 151).
Si è considerato spesso questo romanzo il concentrato delle idee politiche del F., il suo "manifesto politico" lo ha definito C. Salinari che vi rintraccia i capisaldi della posizione fogazzariana pienamente interna all'area cattolico-liberale, su un versante ideologico moderato che "informa la personalità del F. in tutti gli aspetti del suo comportamento umano e informa il suo gusto di scrittore, il modo stesso in cui egli, anche senza proporselo deliberatamente, costruisce le vicende dei suoi romanzi e i suoi personaggi e il suo stile" (Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano 1960, p. 227); sicché per Salinari c'è una linea di assoluta continuità, su questo filo, tra i primi e gli ultimi romanzi, tra il Daniele Cortis fervido propagandista di una soluzione politica e il Benedetto protagonista de Il santo che abbandona la vita mondana e politica per ritrovarsi soltanto nella dimensione religiosa. La piena consonanza delle sue idee politiche e letterarie con lo spirito della borghesia italiana spiegherebbe (per primo lo ha sostenuto e argomentato analiticamente G. Trombatore) il grande successo dei suoi romanzi che inizia proprio con Daniele Cortis (tre ediz. in Italia nel 1885), traduzioni in svedese 1886, inglese '87 e '90, tedesco '88, olandese '91, francese '95, danese '99, polacco 1910). Senonché, il percorso fogazzariano appare tutt'altro che lineare e continuo; giacché se quell'ideologia sostiene una sua precisa e forte intenzione, entra però spesso in contraddizione con altre istanze e tensioni altrettanto pervasive, per lo più non sufficientemente dominate e risolte. Resta che, oggi, i motivi, se ce ne sono, dell'interesse che ancora può suscitare l'opera del F. non risiedono affatto nella sua ideologia, bensì nelle forme contrastate e frastagliate che assumono tutte le linee del suo pensare e sentire, calate in personaggi, ambienti e situazioni. Così come avviene appunto in Daniele Cortis, dove, accanto e insieme al filone ideologico e politico, si svolge il tema dell'amore come rinuncia, una delle costanti fogazzariane, qui sviluppato attraverso il legame sentimentale tra l'adolescente Daniele e sua cugina Elena, troncato bruscamente dall'infelice matrimonio di lei con il barone siciliano di Santa Giulia e destinato a riesplodere quando i due si incontreranno di nuovo, senza che si possa neppure ipotizzare qualcosa di diverso dalla rinuncia all'amore per il dovere. Nella cornice raffinata ed elegante di ville, giardini, colli e fiumi veneti, si materializza il sentimento che unisce profondamente i due protagonisti che va crescendo ed esaltandosi, tanto più in quanto destinato a sciogliersi in un più alto e spirituale connubio. E tratto dominante, qui come in genere nei suoi romanzi, è il segno della eccezionalità sotto il quale si iscrivono le vicende e i personaggi, sicché si è potuto individuare in Daniele Cortis il prototipo del superuomo, sviluppato poi ampiamente dal D'Annunzio (si veda E. Ghidetti, p. 2).
La rinuncia non volontaria, in questo caso, ma, come in Miranda, determinata dalla morte, è ancora al centro del romanzo successivo, Il mistero del poeta (uscito dapprima sulla Nuova Antologia e quindi in volume, Milano 1888), in cui è rievocato il suo legame con Ellen Starbuck, trasfigurato nell'unione fra il poeta, voce narrante del romanzo, e la dolcissima Violet. L'aspirazione del F. a rappresentare le virtù dell'amore vissuto come strumento di nobilitazione spirituale, attraverso l'unione mistica delle anime che esclude ogni carattere terrestre e materiale, aveva trovato espressione in un discorso pronunciato al Circolo filologico di Firenze il 18 marzo '87, Un'opinione di A. Manzoni (Firenze 1887, poi in Discorsi, Milano 1898), nel quale appunto il F. si proponeva di confutare l'affermazione manzoniana che ci fosse anche troppo amore nel mondo perché valesse la pena di trattarne nei libri; l'argomentazione addotta rimanda esplicitamente a quel connubio amore-morte con cui il F. voleva esprimere il senso della superiore spiritualità incarnata dai protagonisti del Mistero del poeta "Il tuo amore è la mia colonna di fuoco ... ; tu sei già nella mia mente quale sarai un giorno, superiore alle debolezze mortali e penetrata di divinità, potente e benefico spirito", 30 dic. 1887, Frammenti di un quaderno di confessioni, in Gallarati Scotti, p. 187).
Secondo un'indicazione del Gallarati Scotti, il F. cominciò a ideare nel 1885 il romanzo che è considerato il suo migliore, Piccolo mondo antico, lavorandovi per il successivo decennio (fu pubblicato nel 1895 a Milano). Un periodo che lo vide impegnato nella vita pubblica, ricoprire numerose cariche in enti municipali e religiosi (ibid., p. 163), tenere conferenze, commemorazioni, discorsi (raccolti in Discorsi, 2 ed. accr., ibid. 1905; in Minime, Milano 1901, che comprende anche liriche variamente pubblicate in rivista negli anni precedenti, 2 ed. con aggiunte, ibid. 1908; e in Utime, ibid. 1913) e scrivere ancora novelle, fiabe, racconti (dapprima su riviste, poi, in parte, raccolti in Racconti brevi, Roma 1894, rist. con ampl. col nuovo titolo Idillii spezzati - Racconti brevi, Milano 1901), pezzi critici e giornalistici; ma che lo vide intervenire soprattutto ripetutamente nel dibattito accesissimo intorno al darwinismo e all'evoluzionismo, occupando una posizione, almeno in Italia, originale e di un certo rilievo.
La prima uscita pubblica su questo tema risale al 1891, presso l'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia, con la già citata dissertazione sul tema Per un recente raffronto delle teorie di s. Agostino e di Darwin circa la creazione, cui seguì l'anno dopo Per la bellezza di un'idea, letta all'Ateneo veneto (in Rassegna nazionale, XIV [1892]), quindi (1893) L'origine dell'uomo e il sentimento religioso, letta alla Società per l'istruzione della donna (in Rassegna nazionale, XV [1893]); va aggiunto il discorso letto a Parigi nella salle des Mathurins, Le grand poéte de l'avenir (1898, in Revue bleue, s. 3, XXV [1898]) e, nello stesso anno, Il progresso in relazione alla felicità, al Collegio romano di Roma (in Rassegna nazionale, XX [1898]), Scienza e dolore al R. Ist. veneto di scienze lettere ed arti (ibid.). Tutti questi testi furono poi riuniti in Ascensioni umane, insieme a Pro libertate: lettera aperta al prof. L. M. Billia (in Nuovo Risorgimento, IV [1893], 2). Attraverso questi scritti si concretizza il tentativo fogazzariano di conciliare la teoria evoluzionista, distinta dal darwinismo, con la dottrina cattolica, secondo una prospettiva che, come ha mostrato P. Rossi (Introd. alla riediz. di Ascensioni umane, Milano 1977), apparteneva ad un'area alquanto estesa della cultura europea e americana, impegnata ad elaborare una posizione intermedia tra l'oscurantismo clericale che rifiutava pregiudizialmente ogni ipotesi evoluzionista ed il materialismo darwinista che implicitamente metteva in crisi qualunque concezione religiosa sull'origine e lo sviluppo del mondo vivente.
Il F., muovendosi all'interno di questa tendenza conciliatrice, andò elaborando un suo pensiero che, se manca indubbiamente di organicità e di rigore, è tuttavia testimonianza di una volontà di intervento attivo che non limitava il dovere dello scrittore alla produzione letteraria e artistica, ma anzi ne coglieva il valore più profondo nell'assunzione di responsabilità ideologiche e pienamente culturali. L'idea di un "evoluzionismo senza Darwin" (Rossi, p. 35) si concretizza nel F. in una visione teleologicamente progressista, governata da quello spiritualismo diffuso che gli fece attribuire "la fama di pioniere della reazione spiritualistica al positivismo" (Nardi, 1929, p. 71) e indusse M. Serao (conosciuta nel '93, in occasione della conferenza su L'origine dell'uomo) a rivolgergli l'invito di promuovere e diffondere "un senso più alto e più nobile della vita interiore". La concezione del F. che "si limita in realtà a sostituire un creazionismo evoluzionista al tradizionale creazionismo fissista" (Rossi, p. 32), scaturiva più che dalla riflessione e dalla ricerca intellettuale, dalla suggestione, anche questa volta, di letture: prima di tutto di A. Rosmini e poi di M. Blondel, di L. Laberthonnière e, soprattutto, di J. Le Conte (La evoluzione e le sue relazioni col pensiero religioso), a proposito del quale scriveva: "Le idee sorgenti dal libro si svolgevano, si compievano rapide nella mia mente, ed ecco, sul declinar della vita, una bellezza sensibile del Vero superiore al sensi, del Vero puramente intellettuale, saliva e si spiegava per la prima volta nell'anima mia"; dove va sottolineato quel nesso bellezza-verità-morale-religione che il F. considerava fondante per la propria dimensione intellettuale. Dei resto domina ogni visione fogazzariana, anche su questo terreno, il senso dell'ineffabile e del misterioso, come della rivelazione, della fede. In sostanza il modo dì sentire e di vivere i problemi teologici, ideologici e morali non è affatto distinto e dissimile dal versante direttamente letterario: sono gli stessi termini e riferimenti a operare.
Considerato all'interno di questo quadro, si comprende meglio come Piccolo mondo antico possa essere considerato il suo romanzo più riuscito; in quanto vi si amalgamano in modo più equilibrato e oggettivato quelle componenti sparse per tutti i suoi scritti, letterari e non, che, isolate e spesso esasperate di segno, non sorreggono in altri casi una sufficiente elaborazione strutturale e formale. Certo è che i due protagonisti, Franco Maironi e la moglie Luisa, risultano di gran lunga i più convincenti del panorama ritrattistico fogazzariano; e forse uno dei motivi della pienezza del personaggio di Franco consiste nell'avere qui il F. preso a modello non se stesso, e nell'aver proiettato indietro la vicenda, in una stagione non direttamente vissuta da lui, ma rievocata tutta dai libri e dai racconti familiari. Qui anche la questione linguistica ed espressiva che aveva impegnata la sua attenzione fin dal discorso sul romanzo del '72, trova, a giudizio unanime della critica, una soluzione positiva e convincente.
Nello stesso anno in cui era uscito il romanzo che doveva consolidare la sua fama anche internazionale, subì la gravissima perdita del figlio Mariano, morto di tifo; ma altri avvenimenti vanno ricordati, soprattutto per l'influenza che esercitarono sulla sua attività. Nel 1887 era morto il padre (evento richiamato nell'episodio della morte del signor Marcello in Leila); durante l'estate dello stesso anno aveva incontrato Iole Moschini Biaggini, un'altra donna di cui subirà la grande suggestione ("L'anima mia ha avuto oggi uno spasimo, un grido per la felicità terrestre. Quanta ne potremmo avere anche senza aver tutto. Ma no, bisogna rinunciare col cuore, slanciarsi al di là della vita colla immaginazione", Frammenti da un quaderno di confessioni, in Gallarati Scotti, p. 185), alla quale si ispirò per il personaggio di Jeanne Dessalle di Piccolo mondo moderno; l'anno successivo iniziò la corrispondenza con mons. G. Bonomelli (durata quasi ininterrottamente fino al 1911), che gli fu preziosa guida spirituale.
Nel 1896 fu designato senatore del Regno (ma solo quattro anni più tardi, il 14 giugno. la nomina divenne effettiva); nel 1898 si reco per la prima volta a Parigi su invito di E. Rod e F. Brunetière e l'anno seguente in Belgio. Nello stesso 1898 uscì il volume Poesie scelte, in cui aveva raccolto la sua migliore produzione in versi. Intanto lavorava a una prosecuzione di Piccolo mondo antico, nell'idea di una trilogia che si sarebbe conclusa con Il santo (Milano 1905). Dopo un'anticipazione, apparsa sul Bene di Milano (dicembre 1899), Piccolo mondo moderno fu pubblicato in volume nel 1901 (ibid.).
"I contorni irreali dati dal tono di fiaba a Piccolo mondo antico svaniscono in Piccolo mondo moderno e gli elementi dell'arte del F. ritornano a mescolarsi in forma ibrida e anche caotica" (Piromalli, 1962, p. 3015). La linea su cui si muove, infatti, come anche il successivo Il santo, lo collega piuttosto all'impianto di Daniele Cortis, al procedere della vicenda narrata sul filo di una passione amorosa vissuta dal debole e insicuro protagonista come continua tentazione dei sensi, accanto a un impegno mondano e politico che non basta a soddisfame le ansie.
Ancora una volta, dopo la parentesi di Piccolo mondo antico, si tratta di un romanzo-confessione che, in quanto tale, secondo la poetica fogazzariana, scivola sensibilmente verso il romanzo a tesi. Piero Maironi, figlio di Franco e Luisa, è legato dal matrimonio con la figlia dei suoi tutori, marchesi Scremin, caduta subito dopo le nozze in una profonda follia; Piero è anche sindaco della cittadina veneta (che allude a Vicenza) per il partito clericale, con il quale però egli non condivide sostanzialmente alcun tratto. Il nocciolo della storia consiste nell'incontro di Piero con Jeanne Dessalle che - anch'essa infelicemente sposata - lo coinvolge in un rapporto sentimentale che lo turba profondamente, giacché risveglia la sua sensualità in contrasto con l'aspirazione ad una spiritualità ascetica.
L'oscillazione tra il desiderio della donna e il richiamo del dovere e della religione (impersonata da don Giuseppe Flores in cui il F. volle ritrarre il fratello del padre, don Giuseppe) si arresta negli ultimi capitoli, quando Piero, ricondotto alla pienezza della fede della moglie morente, per l'occasione rinsavita, riesce a sfuggire al torbido legame in virtù del fatto che "la fortuna di Piero fu di non aver mai amato veramente Jeanne Dessalle. Fra loro vi era inconciliabile differenza di idee"; che è la rassicurante conclusione con cui il F. tentava di riscattare il sospetto di immoralità che la vicenda poteva suscitare, come puntualmente fu sottolineato con grande scandalo all'uscita del romanzo. Fa da cornice ai casi dei due protagonisti il consueto ritratto tra ironico e partecipe della piccola comunità cittadina, con la miriade di personaggi di contorno, ben allineati a rappresentare, in alto e in basso, nel comico e nel "sublime", la stratificazione sociale e culturale del mondo fogazzariano; nella cornice, di nuovo, sono tratteggiati i paesaggi delle colline venete, le ville, i chiostri, le chiese che sono lo sfondo perenne della fantasia e della scrittura del F., mossa e realizzata su una percezione del mondo naturale che è in perfetta sintonia con il mondo interiore, dominati entrambi da quell'estetismo di pieno gusto fin de siècle che riveste ogni azione e ogni descrizione; ed è senza dubbio qui una delle ragioni del grande successo di pubblico dei suoi romanzi, all'epoca.
Nei quattro anni che intercorrono tra questo romanzo e Il santo, il F. approfondiva e allargava il suo interesse per il movimento europeo di riforma della Chiesa e del cattolicesimo, entrando in contatto con le opere e le personalità di spicco del modernismo, cui fu spesso accomunato: da M. Blondel a L. Laberthonnière, A. Loisy, G. Tyrrel, come poi da T. Gallarati Scotti ad A. Casati. La partecipazione del F. a questo moto di rinnovamento fu intensa e profonda, com'è testimoniato anche dalle poesie religiose che andava scrivendo fino dagli anni giovanili e che riflettono il suo percorso spirituale (a parte quelle pubblicate nelle diverse raccolte già ricordate, è stata riprodotta dal Nardi, nel vol. XI delle Opere complete, la scelta di liriche che il F. andava facendo dal 1883, con il titolo Il libro dell'amore immortale).
Sul terreno sempre dell'impegno morale e propagandistico, seppure spostato in direzione più "popolare", si collocano i tentativi di scrittura drammaturgica nei quali, per incitamento dell'amico G. Giacosa, si cimentò e che si conclusero con l'insuccesso totale. Si tratta di El garofolo rosso. Spunti drammatici (su La Lettura, I [dic. 1901], rappr. il 9 febbr. 1902 al teatro Manzoni di Milano), Il ritratto mascherato (rappr. 26 febbr. 1902 al teatro Goldoni di Venezia, pubbl. su La Lettura, II [marzo 1902]), Nadejde. Azione drammatica in due parti (Almanacco italiano, Firenze 1903), tutte e tre raccolti sotto il titolo Scene (Milano 1903, che non aggiungono molto al profilo dello scrittore.
Quando comparve Il santo (Milano 1905), essendo nel frattempo succeduto Pio X a Leone XIII su una linea rigidamente conservatrice, lo scalpore che i romanzi del F. avevano sollevato si tramutò in provvedimenti punitivi dell'autorità ecclesiastica: il romanzo (come avverrà poi per Leila) fu proibito con decreto del 4 apr. 1906 della congregazione dell'Indice. Il F. fece subito e pubblicamente atto di sottomissione, pur ritenendo Il santo una sorta di manifesto del rinnovamento religioso.
Il protagonista (per la figura il F. si ispirò al gesuita G. Tyrrel), è ancora Piero Maironi, divenuto nel frattempo frate col nome di Benedetto, che vive in un convento a Subiaco, dove è attivo anche un cenacolo di riformatori, nei quali sono trasparentemente ritratte le personalità di spicco del movimento modernista. Nell'atmosfera di fervore religioso ricompare Jeanne Dessalle, orinai libera dal vincolo matrimoniale, essendo nel frattempo morto il marito; tra i due si riaccende la passione e nell'anima di Piero riesplode il contrasto tra la vocazione mondana e quella religiosa. Qui Jeanne, più di tutte le altre donne fogazzariane e diversamente che in Piccolo mondo moderno, è l'incarnazione della tentazione che induce a perdersi, ma anche a mettersi alla prova, consentendo l'accesso, attraverso il pericolo, a una superiore spiritualità. Piero resiste alla tentazione e - mentre Jeanne scompare - inizia una vita di santità, al servizio dei poveri, dei deboli, dei malati (che spesso guarisce), in un'atmosfera spirituale intrisa della nuova religiosità, osteggiata dalle gerarchie ecclesiastiche e dagli ambienti clericali. Nell'incontro del frate con il papa, che rappresenta il momento cruciale del romanzo, il F. ha voluto conciliare il contrasto delle nuove idee con la funzione e la figura papale; il pontefice si mostra infatti molto più aperto e sensibile del suo apparato che continua a intrigare contro Piero, contemporaneamente attaccato anche dal mondo politico e istituzionale. Il finale vede i due protagonisti ritrovarsi ma in una dimensione ormai tutta e solo spirituale: Piero morente è assistito e soccorso da Jeanne finalmente conquistata dalla fede.
La ricchezza dei temi e degli ambienti ritratti dà conto della volontà del F. di usare questo romanzo come luogo di coagulo di tutte le sue idee religiose e morali; un'intenzione simile nuoce alla fisionomia dei personaggi, ridotti troppo spesso a funzioni di una tesi precostituita, privi di verosimiglianza e di pienezza psicologica, tanto più in quanto immersi nel consueto clima di morbido sensualismo che dovrebbe accentuare, per contrasto, la nobiltà delle scelte spirituali.
Un segno indiretto ma non per questo meno significativo dell'influenza profonda, sul terreno specificamente letterario, esercitata sul F. dalla contemporanea narrativa naturalista e verista, sta nell'aver legato i suoi ultimi quattro romanzi in una sorta di ciclo, esplicito per i primi tre e più sfumato per Leila (Milano 1910), ma ugualmente ben visibile. Il personaggio-nesso è Massimo Alberti, un discepolo del santo, che si innamora di Leila, in una storia che richiama molto spesso la figura del santo, ma si svolge fondamentalmente in chiave di commedia ("siamo in pieno teatro borghese tardo-ottocentesco", Piromalli, 1962, p. 3014), dove torna il comico, le macchiette di contorno, in contrappunto al tono lirico ed ispirato della vicenda principale. Pensato esplicitamente per allontanarsi dal tema centrale de Il santo ("La religione vi avrà parte e vi ritornerà il nome di Benedetto, ma di modernismo non vi sarà l'ombra, non vi sarà l'ombra di questioni pericolose; di Benedetto si dirà che in argomenti teologici ha potuto errare e che ammonito si sarebbe sottomesso; le più belle figure del romanzo saranno cattolici all'antica; ma sarà glorificata la carità e stimmatizzato il fariseismo" (lettera a G. Bonomelli, in Gallarati Scotti, p. 491), il romanzo fu accolto con molta freddezza dalla critica che vi volle vedere, pure negli schieramenti ideologici diversi e opposti, una sorta di ritrattazione, una mossa dettata unicamente da opportunismo.
Ciò contribuì ad amareggiare gli ultimi mesi di vita del F. che si spense il 7 marzo 1911 a Vicenza.
Aveva mantenuto fino alla fine il suo impegno pubblico con i discorsi, le conferenze, le commemorazioni, gli interventi giornalistici; soprattutto aveva continuato a partecipare al dibattito vivissimo intorno al movimento riformatore cattolico, assumendo di fatto un ruolo di guida spirituale anche nei confronti delle proposizioni moderniste. Benché i suoi prodotti letterari risultassero ormai sempre più marginali in una temperie che vedeva trionfare D'Annunzio e un estetismo più raffinato e meditato, accanto ad istanze letterarie e culturali nuove, la sua figura rimase a rappresentare una zona di cultura dichiaratamente di tendenza e consapevolmente provinciale che si era espressa all'incrocio di forti movimenti di pensiero come anche di ampi rinnovamenti di gusto letterario e artistico, tentando di calare in quel contesto le istanze soggettive del suo modo di sentire e di vivere la letteratura e la vita della cultura.
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