Antonio Genovesi
In Genovesi si verifica un originale incrocio tra la crisi degli Stati d’antico regime quale concreta occasione riformatrice e un nuovo orientamento cattolico in termini di teologia morale e religione civile, che accoglie le sfide del pensiero moderno. Alla metafisica egli diede inclinazione di indagine critica intorno al mondo dei fenomeni spirituali, morali e fisici con cui si confronta l’uomo, e offrì il maggior contributo all’apertura del Regno di Napoli all’Illuminismo, al pensiero economico e alle esperienze di altri Paesi. Il suo pensiero ebbe eco internazionale, ed egli formò vasta scuola, che originò indirizzi sia riformatori, sia radicali, tra il ministero di Bernardo Tanucci e la Repubblica napoletana del 1799.
Nacque il 1° novembre 1713 a Castiglione (l’attuale Castiglione del Genovesi, Salerno), primogenito di Salvatore e di Adriana Alfenito. Tra i suoi fratelli, Pietro, formato dai gesuiti, lo affiancò nell’attività filosofica. Destinato al sacerdozio, ricevette gli ordini minori, ma un innamoramento spinse il padre a trasferirlo nella vicina Buccino, dove proseguì gli studi. Ordinato suddiacono nel 1734, insegnò retorica nel seminario di Salerno. Sacerdote nel 1737, l’anno seguente si stabilì a Napoli, dove nel 1739 aprì una scuola privata. Arricchì la sua formazione cartesiana con la maggiore filosofia napoletana e l’erudizione muratoriana, e con il pensiero teologico, filosofico e scientifico europeo. Condivise il progetto innovatore del circolo newtoniano di Celestino Galiani, ma la familiarità con correnti eterodosse gli costò un’accusa di eresia, subito caduta.
Professore di metafisica (1741-45) e di etica (1745-53) nell’Università di Napoli, ebbe problemi di censura già con il primo tomo degli Elementa metaphysicae (1743). I tomi successivi apparvero nel 1747 (Psychesophia), nel 1751 (Theosophia) e nel 1752 (De principiis legis naturalis). L’opera, accolta da vasto successo, conobbe, lui vivente, fino a una quarta edizione ampliata (1760-1763). Propose una riforma della logica con l’Ars logico-critica e promosse lo studio storico delle scienze nella Disputatio physico-historica (entrambe 1745). Nel 1748 partecipò al concorso per la cattedra di teologia, in vista del quale compose gli Universae theologiae elementa, editi solo postumi (1771) a causa dell’opposizione della censura. Ambienti del governo e della Compagnia di Gesù lo sostennero nel confronto con la curia napoletana, ma dovette desistere sia dal concorso che dalla stampa dell’opera. Nell’autobiografia (di cui sono note due versioni: una del 1750 e l’altra del 1756) dichiara di non aver più voluto dedicarsi da allora alla teologia in forma professionale.
Fra il 1755 e il 1764 un lungo ma poco concludente procedimento censorio riguardò di nuovo la Metaphysica. Bartolomeo Intieri lo attrasse a un disegno inteso a favorire la diffusione del pensiero riformatore, dalla cui adesione risultarono il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1754) e lo studio dei problemi economici. Nel 1754 inaugurò la prima cattedra europea di meccanica e commercio, finanziata da Intieri. La prolusione fu sviluppata nel Ragionamento sul commercio in generale, che con altri saggi accompagnò una raccolta di traduzioni italiane di scritti di economisti europei (1757). Stese gli Elementi del commercio (1757-1758) e le Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-1767 e 1768), e proseguì la riflessione teologico-morale con le Meditazioni filosofiche sulla religione e la morale (1758). Collaborò con Tanucci, ampliando il suo impegno pedagogico nella Logica per gli giovanetti (1766), nella Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto (1766), nel Delle scienze metafisiche (1767). I Dialoghi morali (composti nel 1766) e le note a una nuova traduzione italiana dell’Esprit des lois di Montesquieu (1777) testimoniano l’assiduo confronto con Jean-Jacques Rousseau e la cultura delle lumières, aperto con le Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl’ignoranti (1764). Morì a Napoli il 12 settembre 1769.
«È la prima volta che ci è permesso di legger la Bibbia in italiano» (A. Genovesi, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, 1962, p. 95). Così Genovesi accoglieva, il 12 aprile 1755, la lettura delle Scritture nelle lingue nazionali accordata da Benedetto XIV, interrompendosi l’obbligo alla sola Vulgata. Il rilievo si accompagna alla riprovazione «delle piccole cerimonie e delle superstizioni» che fanno la morale «non più di cuore, ma di buccia». Nel 1763 avrebbe però scritto di detestare coloro «che, predicando la simplicità e la severità dell’Evangelio, il vestono alla foggia del mondo, rendendolo con ciò inutile alla correzione del costume» (p. 147). La ricerca del nuovo senso che si sarebbe dovuto imprimere alla fede cattolica oltre la Controriforma, ormai esaurita, tendeva a rifondare il rigore cristiano con inusitata ampiezza culturale. Al richiamo dei Padri e di maestri tridentini si allineava il riferimento ai giansenisti, ma soprattutto quello ai teologi protestanti moderni, ‘platonici’, arminiani o ‘latitudinari’, leibniziani e wolffiani, che componevano la sua biblioteca interconfessionale.
Sulla teologia egli fissò una preoccupazione ‘antimetafisica’ e ‘pastorale’. Disciplina criticata sino all’ironia, quando astrusa, o se intralcia la scienza; amata quando aiuta il ben operare: «la religione e la morale sono cose semplicissime: i loro principi sono chiari e facili […] il formar dunque sistemi è volerle oscurare» (Vita di Antonio Genovese, 1750, in Zambelli 1972, pp. 844 e seg.). Simpatizzante per la visione gesuitica della grazia, vicino ai giansenisti in morale, egli avverte però: «Il cristiano è discepolo dell’Evangelio e della Chiesa: non è né giansenista né molinista». Il cristianesimo è religione di virtù, più che di contemplazione speculativa:
se la virtù è amare il prossimo, adoro l’Evangelio, la cui sostanza non è che amore. […] se questo han predicato gli apostoli, se questo è il gran precetto di Cristo, il Cristianesimo è divino: perché l’Esser primo non può non esser buono, non amare che ci amiamo (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., pp. 64, 183).
All’abito talare vestito per volontà paterna Genovesi diede stile di seria vocazione. Per secoli la tonaca aveva elevato sopra l’incultura: eccetto i preti, «tutti gli altri erano un branco di bestie» (cit. in Zambelli 1972, p. 437). Ma doveva diventare strumento, in un secolo «più umano», di incivilimento (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 88). Il prete deve «difendere la religione» da «panteismo, deismo, libertinaggio» (p. 95), in un tempo «caliginoso e guasto» (p. 108), abitato da «epicurei pratici» che inseguono il «lusso» (pp. 130 e seg.). Ma deve anche fuggire l’ozio del suo ceto, «più ricco e ignorante, che dotto» (pp. 148 e seg.). Gli «ecclesiastici», «avendo più tempo, possono più di tutti» studiare (p. 158), e rendere «un grande utile alla comune patria», educando uomini «virtuosi» (p. 173). Il suo patriottismo napoletano – «cominciamo ancora noi ad avere una patria», dice nel 1754 in proposito di Carlo III di Borbone – si colorava di italianità. Nelle Annotazioni alla Storia del commercio della Gran Brettagna di John Cary s’addolora che «l’Italia, comune madre nostra», benché destinata dalla natura e dall’ingegno a «dominare», sia «rimasta tanto addietro all’altre nazioni, e […] smembrata»; ma vorranno i suoi «tanti principati, deposta ormai la non necessaria gelosia», in «qualche forma di concordia e di unità ridursi» (Scritti economici, a cura di M.L. Perna, 1984, t. 1, pp. 479 e seg.).
Presi gli ordini minori, nel servir messa ricambiò, di là della balaustra che segnava il confine del presbiterio, lo sguardo d’una fanciulla. Spedito a Buccino affinché dimenticasse, preti e monaci lo perfezionarono in varie discipline. Ma grazie a uno dei suoi primi maestri, Nicola Genovesi, si era già calato tanto nella filosofia «peripatetica della setta de’ Gesuiti», che «nella cartesiana». Melchior Cano, domenicano del Cinquecento, gli diede «gusto per la teologia»; ma subito aggiunge che Nicolas de Malebranche e Bernard Lamy glielo avevano suscitato «per la metafisica e geometria» (Vita di Antonio Genovese, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., pp. 8-10, 12). Su Malebranche, rispetto al quale esprimerà divergenze, ma anche un duraturo interesse, erano piombati divieti dell’Indice nel 1690 e nel 1714. Il congiunto richiamo a Lamy, seguace non acritico del primo, è eloquente, per il tentativo della cultura oratoriana di inserire temi moderni e il metodo critico nel campo ecclesiastico. Quanto al Cano, il tomismo non gli aveva impedito di attaccare gli abusi peripatetici. Genovesi ricorderà la lettura del De locis theologicis «con gran felicità»; e che gli ispirò «altra idea della teologia, e grand’odio alli barbari scolastici» (Vita di Antonio Genovese, 1750, in Zambelli 1972, p. 806).
Scoprì le Riflessioni sopra il buon gusto di Ludovico Antonio Muratori, che avrebbe con lui corrisposto e lo avrebbe stimato. Genovesi ne derivò la ‘moderata’ libertà di pensiero, il superamento della teologia speculativa e il nesso fra studi e pubblica felicità. Lesse la Scienza nuova, che insieme all’ascolto dell’ultimo Giambattista Vico gli lasciò l’attrazione per i corsi storici di nazioni, religioni e leggi; che voleva dire anche tensione fra utopia e realtà. Si profilava in lui un che di ‘platonico’, che voleva dire ‘vichiano’, a suo modo ‘politico’. Conobbe l’ultimo Paolo Mattia Doria, ammirandone il corrosivo idealismo politico, non la critica di René Descartes e John Locke. Gliene restò il progetto di comporre una Repubblica divina. Scriverà di quel tempo: «Vinse l’affetto per Platone, avegnaché per le osservazioni del Loke in molto avesse moderato l’entusiasmo de’ platonici» (Vita di Antonio Genovese, 1750, in Zambelli 1972, pp. 819 e seg.). Singolare composto di tendenze diverse, la sua cultura teologica e metafisica, di uomo formato nella Chiesa, ma nell’effervescenza della Napoli ‘moderna’ del primo Settecento, conserverà tratti di ‘concretezza’ e di apertura critica, capaci di renderlo fecondo maestro della filosofia civile meridionale e, più ampiamente, italiana.
A Napoli Genovesi frequentò anche i newtoniani Nicola Antonio e Pietro De Martino, e la biblioteca dei Girolamini, con i fondi ‘moderni’ appartenuti a Giuseppe Valletta, del quale avrebbe rinnovato l’impegno per la philosophandi libertas, soggetto squisitamente civile, annodato alla tradizione anticuriale. L’intreccio tra questo impegno e l’apertura al newtonismo e al lockismo professati nell’accademia di Celestino Galiani caratterizzò la sua prima stagione di studioso. Nella scuola privata insegnava la Logique di Port-Royal e quella lockiana di Jean Le Clerc. Lesse la versione francese di Pierre Coste dell’Essay concerning human understanding. La distorsione di ciò che insegnava alimentò nel 1741 un’accusa di eresia, ma si dimostrò innocente in una comparizione spontanea. Attraverso Locke, Le Clerc e Pierre Bayle si aprì la via alla teologia protestante. Concordava con Philippus van Limborch sul fine pratico della teologia; ma entrambi rimarcavano che la ragione è strumento, non regola della Scrittura e della fede.
La nomina alla cattedra di metafisica giunse nell’ambito della riforma intrapresa da Galiani, cappellano maggiore del Regno e rettore dell’università. Nel 1742 voltò in italiano, dalla traduzione francese del Coste, la Reasonableness of christianity di Locke, vietata dal Sant’Uffizio nel 1737. Gli costò «strana fatiga», procedendo accanto alla stesura della sua Theologia: rifiutava tuttavia la riduzione lockiana del necessario per la salvezza alla fede nella messianicità del Cristo (Vita di Antonio Genovese, 1750, in Zambelli 1972, pp. 833 e seg.). Nel 1743, incoraggiato da Galiani, pubblicò il primo tomo, Ontosophia, degli Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, in cui dava conto della rivoluzione cartesiana e dei suoi limiti, del successo della gnoseologia lockiana e della scienza newtoniana, dei contributi della metafisica tedesca, dimostrando un intento confutatorio di eterodossi e libertini, ma anche un liberale eclettismo che adottava tendenze empiristiche.
Il suo eclettismo dipendeva da Johann Franz Budde, vietato dall’Indice nel 1724, e da Johann Jacob Brucker, la cui Historia critica philosophiae del 1742-44 sarà proibita nel 1755; e anticipava il Denis Diderot della voce Éclectisme dell’Encyclopédie. La philosophandi libertas non nuoce alla fede. È piuttosto l’alleanza fra aristotelismo e teologia a nuocerle. La metafisica ha meglio proceduto in Inghilterra, grazie alla libertà filosofica, che gioverebbe all’Italia, se le fosse concessa, modesta tamen, nec Religioni injuria («tuttavia moderata, e senza offesa per la religione»), benché nessuno come certi inglesi ne abusarono, cujus rei magnum exemplum extat Tolandus omnium Atheorum impudentissimus («di cui costituisce grave esempio Toland, il più impudente di tutti gli atei»: Elementa metaphysicae, 1743-1752, t. 1, pp. 1 e seg., 8). Segnale di una dimestichezza con il libero pensiero tale da provocare i «teologi napoletani, molti de’ quali caratterizzavano il mio libro per empio» (Vita di Antonio Genovese, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., pp. 16 e seg.), imputandogli la «libertà di filosofare non convenevole ad un cattolico», «l’uso troppo frequente di […] autori dalla Chiesa Romana dannati» (Vita di Antonio Genovese, 1750, in Zambelli 1972, pp. 840 e seg.).
Nell’Appendix (1744) Genovesi precisò che la philosophandi libertas auspicata in Italia è solo quella ab auctoritate humana: verificare una dottrina filosofica senza aver per guida se non la ragione. L’atteggiamento dell’Indice, più mite verso la filosofia e le scienze, denotava allora sostanziale immunità per gassendismo e atomismo, sebbene fossero vigilati i rischi dell’atomismo per la dottrina eucaristica. Con l’eccezione del Neutonianismo per le dame di Francesco Algarotti, vietato nel 1739, e della perdurante proibizione dell’eliocentrismo come dottrina realistica, rimossa solo nel 1758, Isaac Newton si diffondeva in Italia, e proprio in questo risulterà fondamentale il contributo di scienziati gesuiti e di altri ordini. Ma la maggior parte dei filosofi moderni era ancora proibita nell’Indice del 1744. Genovesi distinse fra i libri apertamente pericolosi e quelli di materia non religiosa che, sebbene fossero di autori non cattolici, oppure di cattolici erranti, erano utili o necessari. Egli argomentò per questi il libero studio, condizione di un ‘rischiaramento’ dal benefico effetto civile.
Nel 1745 curò con il frate celestino e censore regio Giuseppe Orlandi una nuova edizione del manuale newtoniano di Pieter van Musschenbroek, Elementa physicae conscripta (1734), introducendola con la Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione. Della scienza vi celebrò l’autonomia da metafisica e teologia, perseguita da Galileo Galilei e da Francesco Bacone, assicurata da Newton. Un tema prezioso, stante la fragilità della tradizione galileiana a Napoli, anche per effetto delle offensive inquisitoriali di fine Seicento. Nella lettura del newtonismo, contro le ‘qualità occulte’, incontrò Antonio Conti, con il quale dialogò in tema tra il 1745 e il 1746. La prossimità al ministro riformatore José Joaquín marchese di Montealegre consentì nel 1746 la sua nomina alla cattedra di etica. Nello stesso anno divampò il conflitto fra il re e il cardinale Giuseppe Spinelli, che cercava di introdurre il Sant’Uffizio, «il quale è contra la legge di natura e contra l’Evangelio». Carlo III soppresse «tutte le memorie o reliquie di codesto sanguinario Tribunale» (Vita di Antonio Genovese, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 26).
In questo clima di conflitto tra corona e curia, Genovesi dedicò il secondo tomo della Metaphysica a Benedetto XIV, avvertito come pontefice innovatore, in vista del concorso alla cattedra di teologia, intanto pur essa liberatasi, alla quale si candidò, auspice Galiani, forse pensando alla carriera episcopale. Dal papa fu incoraggiato, essendone stato apprezzato. La circolazione dei suoi manoscritti teologici offrì tuttavia il destro all’abate Innocenzo Molinari, avversario di Galiani, per accusarlo, davanti al segretario di Stato del papa, Silvio Valenti Gonzaga, di negare fra l’altro l’istituzione divina o apostolica e il carattere sacramentale della confessione auricolare, e di citare con larghezza autori vietati. Il concorso fu sospeso. Nonostante l’appoggio di Galiani e del delegato alla Regia giurisdizione Niccolò Fraggianni, e nella Compagnia di Gesù, i cui vertici provinciali avversavano Spinelli, e mentre il gesuita Giuseppe Barba, interpellato dal re, diceva emendabili ma pubblicabili i manoscritti, la curia suggestionava Gaetano Maria Brancone, segretario di Stato all’Ecclesiastico, che impose a Genovesi di rinunciare al concorso.
Egli tentò tuttavia di pubblicare la Theologia, dove, sommario nella dogmatica, quasi del tutto astenendosi dalla sacramentale e dalla liturgica, si diffondeva invece nella teologia naturale, insistendo sulla sua destinazione pratica, e rifiutando la scolastica. Vi adoperava anche autori di tendenza deistica, da Richard Simon fino ai teologi-cosmologi newtoniani, Thomas Burnet, William Whiston, John Keill; e citava ampiamente, per discuterli, Baruch Spinoza e altri scrittori proibiti. Egli mostrava inoltre accenti antitemporalistici e giurisdizionalistici, e sottolineava la distanza delle dispute tra gesuiti e giansenisti dalla teologia paolina e apostolica. Lo sforzo autocensorio prodotto nella speranza di stampare l’opera non rese tuttavia il testo accettabile secondo i censori. Il caso si giocava sul crinale fra le contestate improprietà terminologiche e il suo metodo ‘temerario’, e certa pretestuosità di quelli. Spinelli gli chiese di desistere. Nel 1771 Domenico Forges Davanzati avrebbe pubblicato il trattato, che era già circolato manoscritto fra gli scolari, come Universae christianae theologiae elementa dogmatica, historica, critica, sulla base di un manoscritto non rivenuto, ma databile al 1745-46.
Provato dagli «intrighi teologici», Genovesi avrebbe deciso di mai più pensare «a queste materie» (Vita di Antonio Genovese, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 22). Pur se continuò a occuparsi di teologia anche dopo l’incidente del 1748, l’asprezza di questo, e la nuova inclinazione verso l’economia passarono fra i discepoli come «disgusto» provocato da «crudele persecuzione», e insieme grande «vantaggio del pubblico» (Galanti 1772, pp. 91 e seg.). Il fatto è stato recepito da una parte della storiografia come frattura antiteologica nel suo percorso, altri interpreti ravvisando invece continuità, in modificata prospettiva, nella sua evoluzione. Già nel 1751, fuggito Spinelli a Roma, egli rifuse parti della Theologia nel terzo tomo della Metaphysica. Nel Lectori philosopho, declinando la qualifica di teologo, resagli orrido suono, affermò di dover tuttavia istruire gli studenti anche nei rudimenti delle divine scienze, e denunciò la machinatio ordita contro di lui in curia.
Il 1751 è l’anno in cui scoppiò a Napoli, sullo sfondo dell’allarme internazionale e interreligioso (finanche presso il gran sultano) contro la massoneria, lo scandalo attorno a Raimondo di Sangro principe di Sansevero, che guidava il maggior nucleo massonico d’Italia. Egli era amico personale del re. Genovesi lo stimava filosofo, ma di forte fantasia, portato a credere cose poco verisimili. Allievo dei gesuiti, curioso tecnologo, personalità estrosa, aveva compreso la potenzialità politica della massoneria, attiva nel Regno soprattutto come luogo di sociabilité nobiliare e di tutela di interessi clientelari, capace di sedurre, per nebuloso sincretismo, anche personalità del clero.
Qui si verificò – di là da comuni letture e della personale amicizia – la divaricazione tra Genovesi e di Sangro. Il primo tentava una teologia naturale con accentuazione etico-civile, che ridesse respiro, per intellettuali e popolo, alla pietà cattolica, in una società riformata dal principe assoluto, chiudendo lo scontro fra clericalismo e libero pensiero. Il secondo lavorava al rilancio dei corpi aristocratici attraverso la massoneria, ‘partito’ lealista ma includente il principio monarchico nella sua organizzazione (il re come gran maestro); nutrito di cultura libertina, e che intendeva perpetuare i valori aristocratici, al di là di vaghi richiami egalitari. L’impegno del di Sangro corrispondeva al fermento della massoneria europea, e offriva una versione secolarizzata del vecchio esoterismo magico. Accogliendo panteismo vitalistico e freethinking tolandiano, superava l’alleanza newtoniana fra scienza e teismo, e andava lontano da Genovesi, che le restava vicino, pur attento a quei filoni. La Lettera apologetica del di Sangro, «scritta con più libertà di quello che i teologi avrebbero voluto» (Vita di Antonio Genovese, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., pp. 36 e seg.), stampata nel 1751 con l’imprimatur dei comuni amici Giuseppe Orlandi e Giovanni Maria Della Torre, fu attaccata dallo stesso Molinari che aveva denunciato Genovesi, e messa all’Indice nel 1752. Il 18 maggio 1751 Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum pontificum, rinnovò la condanna della massoneria emanata da Clemente XII. Carlo III non recepì la bolla, ma, diffidente verso il segreto massonico, firmò un editto che costrinse di Sangro a dimettersi da gran maestro e disponeva l’abiura dei ‘settari’.
Nel 1765 Genovesi riconoscerà che era stato «giusto» vietare «i Francmassoni», poiché una riunione «occulta al legislatore, è un delitto per tutte le buone leggi» (Delle lezioni di commercio, a cura di M.L. Perna, 2005, pp. 623 e seg.). Ne contò fra i nemici: si sospettò massone finanche il cardinal Spinelli, ma certo lo fu uno dei censori di Genovesi e di Doria, monsignor Benedetto Latilla, che diventerà vescovo e confessore del re; come fra gli amici: nella massoneria la cultura deistica e libertina che egli discuteva era costitutiva, e molti suoi allievi passeranno attraverso l’esperienza liberomuratoria, intanto profondamente mutata, in Italia e in Europa, rispetto ai tempi del Sansevero, come esperienza politico-morale.
Genovesi completò nel 1752 la stampa del suo manuale di metafisica con il quarto tomo. Vi affrontava la fondazione delle leggi politiche in quelle naturali nel momento in cui Carlo III combatteva per un lato le pretese ecclesiastiche, e per un altro spegneva società segrete e disegni utopistici, condannando al rogo nel 1753 (su censura del Latilla) la postuma Idea di una perfetta repubblica di Doria. Fu attratto nel circolo di Bartolomeo Intieri, matematico e imprenditore toscano, nel quale il programma era incentrato sul
progresso della ragione umana, delle arti, del commercio, della economia dello stato, della meccanica, della fisica, perciocché il sig. Intieri era nemico così delle inutili astrazioni, come de’ pedanteschi studii delle parole, de’ quali gli uomini niun vero frutto possono ritrarre (Vita di Antonio Genovese, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 32).
Intieri si offrì di stabilire a sue spese nell’Università di Napoli una cattedra di «commercio e di meccanica» in lingua italiana, designando fra qualche sorpresa a ricoprirla proprio Genovesi, che economista non era. Ma nella sua visione critica e ‘civile’ del lavoro filosofico e teologico erano tutte le condizioni per un’inedita apertura. In villeggiatura a Massa Equana in casa Intieri, compose il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che accompagnò nel 1754 la ristampa del volume di Ubaldo Montelatici, Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura. Da metafisico diventava «mercatante» (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 78). Il suo appello alla nobiltà, al clero e alla gioventù, affinché coltivassero studi utili ai bisogni, presentava il conto ai filosofi che «per sette e più secoli […] fecero a gara a chi potesse essere più ferace in inutili immaginazioni ed astrazioni»; a quei «cento e cento altri dialettici e metafisici», che lungi dal fornire ai popoli «rischiaramento e aiuto»,
nel tempo medesimo che de’ frutti della loro industria godevano, pare che si ridessero delle loro fatighe o che gli riguardassero come animali di altra specie, fatti da Dio in forma umana per servire a’ loro piaceri (Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, in Scritti economici, cit., t. 1, p. 19).
L’osservazione dei problemi sociali non gli nasceva in quell’anno, ma la preparazione comportata dallo «sbalzo» dalla filosofia all’economia (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., pp. 143 e seg.) dovette formarsela, in un momento di intenso dibattito, in Italia, sulla valuta, le finanze e i commerci, segnato dal Della moneta (1751) di Ferdinando Galiani, animato da Carlo Antonio Broggia, Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli, nella generale stagnazione dell’economia peninsulare. Genovesi studiò i neomercantilisti spagnoli, Jerónimo de Uztáriz e Bernardo de Ulloa, e gli scritti economici di Locke e David Hume, e Thomas Mun, Joshua Gee e John Cary, François Véron de Forbonnais e Plumard de Dangeul. Il progetto della cattedra intieriana rischiava tuttavia di perdersi, resistendovi il marchese Brancone, che dubitava sull’ortodossia del candidato. Fu prezioso il sempre influente di Sangro, che arrivò fino al re.
Il 5 novembre 1754 Genovesi poté inaugurare il corso, cominciando a esercitare, anche nei carteggi con allievi e amici, lo stimolo all’irradiazione di quei saperi utili all’economia di cui parlava dalla cattedra. Lo «straordinario concorso» alla prolusione, tenuta a braccio – ma che diventerà il Ragionamento sul commercio in generale (1757) –, l’«applauso» immediato, lo stupirono: «Gran moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domandano de’ libri di economia» (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., pp. 89 e seg.). Eppure, «Dio mi salvi da qualche burasca» (p. 101). Questa sopraggiunse, obbligando Genovesi a confrontarsi con una vecchia accusa: il «panteismo». La denuncia all’Indice della Metaphysica e dell’Ars logico-critica, presentata nel 1755, forse dal frate Ignazio Denisi della Croce, provocò una lunga e logorante inchiesta, ma infine si risolse quasi in un benevolo insabbiamento.
Nel Ragionamento sul commercio del 1757 egli affrontò il problema dello sviluppo di popolazione, «comodi», ricchezza e potenza. Tuttavia il tema della potenza non poteva essere disgiunto da quello della capacità morale, poiché un Paese corrotto non può restare ricco a lungo. Nel Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze, sempre del 1757, si considera che l’uomo, fascio di nervi e vasi, fluidi e correnti elettriche, è il prodotto della sua «natura animale», e la «concupiscenza» induce a estendere illimitatamente i desideri (Scritti economici, cit., t. 1, pp. 504 e seg.). La ragione deve regolare, istanza fondamentale anche per le comunità politiche. Pertanto, si dovrà distinguere tra la «forza» degli Stati e la loro «felicità». Questa è fondata nella «virtù de’ cittadini», nella «sicurtà dalle vicine nazioni», e «finalmente, nell’abbondanza di tutto ciò che può soddisfare i desideri animali e degli uomini, relativamente ad esso Stato». Genovesi non ritiene che quella felicità dipenda dalle «ricchezze secondarie o di convenzione», «le pietre preziose, le perle, l’oro» (p. 508), ma piuttosto dalle ricchezze
primitive, come derrate, animali, olio, vino, lana, canape, legna ecc., arti; e [dal fatto] che abbia [lo Stato] savie leggi che si mantengano nel suo vigore […] che la virtù e l’industria abbia il suo premio e presta e rigida pena la malvagità (p. 508).
Nelle Annotazioni al Cary insiste sulla decadenza dell’Inghilterra che, giunta a una certa potenza, lascia prevalere gli interessi privati, smarrendo la virtù civile. E però la «cupidigia» non va estirpata, ma trasformata in «industria» (p. 524). L’intesa tra economia e religione è esemplificata nell’elogio di Benedetto XIV, che ha abolito 19 giornate festive, ‘regalandole’ alla vita produttiva; ciò «che in nulla scema il culto che a Dio e ai suoi santi servi dobbiamo» (p. 527).
La teologia non era esclusa, ma restava intrecciata alla «filosofia reale e delle cose» (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 148), e veniva infine affrontata in forma colloquiale, purtroppo in lingua e stile italiani acerbi nel genere. Nelle Meditazioni filosofiche sulla morale, e la religione (1758) tentò un compendio di teocosmologia newtoniana, e di etica, contro le inclinazioni oziose, con un modello di operosa vita felice. Il tomismo aveva messo in valore la felicità naturale, illuminata non annientata dalla grazia. Ne era stata interprete l’etica aristotelica, adattata al cristianesimo. Ma nel nuovo secolo la felicità umana non è più problema a proiezione dianoetica, a sfondo ascetico e da modulare rispetto alla superiore felicità eterna. Individui e masse chiedono di esser felici, o meno infelici, qui, ora, ma grazie a sempre più larghi comodi materiali, che riparino dai mali naturali e sociali. La felicità in questa vita diventa un problema politico. E un problema religioso: la domanda della prima rischia di oscurare la via per la celeste.
Nel maggio del 1764, sullo sfondo della carestia, della guerra dei Sette anni e di avvisaglie di nuovi incendi sociali, Genovesi intrattenne con Giuseppe Torallo una breve discussione epistolare sulla felicità, che rasentava il tema che nel 1750 aveva reso celebre Rousseau: se il progresso delle arti e delle scienze avesse migliorato o corrotto i costumi e reso meno felici gli uomini. Nel giro di poco dedicò all’argomento una delle sue opere più note in Europa, dove fu subito accostata a Rousseau: le Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati (1764).
Fin dalle prime lettere ‘finte’ tra un «abate» e un «canonico», egli contrappone solo in apparenza posizioni irriducibili: in realtà nelle repliche del secondo semina argomenti contra anche da lui sentiti. Un uomo felice (ovvero non tanto infelice, o non tanto misero) è un uomo che la cultura e la scienza mettono in grado di prevenire o temperare o superare i mali naturali e sociali, che provengono dal corpo, dal mondo fisico, dall’errore, dalla malvagità. Sì che l’ignorante prende presto i tratti del «selvaggio», sprovvisto di cognizioni adeguate e di civili costumi; ma il dotto, se vuol esser felice, deve diventare «vero savio», capace di scienze concrete; non è il «letterato» o «filosofante alla moda» (Lettere accademiche, in Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 374). E immediato è lo sbarramento a un’interpretazione reazionaria di Rousseau, che «ha svillaneggiato le lettere e i letterati […] ma non perciò il sapere» (p. 377). Reazione coerente con quasi tutta la ricezione italiana di Rousseau, che respingeva il primitivismo egalitaristico in nome dell’alleanza tra cultura e illuminato governo. Ma l’ironia sul «Rossò», che piace se «dichiara guerra aperta al vizio» (p. 511), e che però induce Genovesi a scappare quando lo vede
lacerarsi gli abiti, correr nudo, e con una fiaccola in mano metter fuoco a’ palazzi, alle regge, a’ templi, alle città, gridando furiosamente ‘Boschi, boschi, boschi’ (p. 512)
si dipana davanti al fatto che l’istanza rousseauiana viene in parte accolta nell’imputare il vizio a inadeguata legislazione.
Molto sicuro è il respingimento di qualunque infatuazione per i ‘selvaggi’, i cui modi di vita Genovesi apprendeva dalla letteratura geografica, esibita per dimostrare quanto avesse torto Rousseau nel dire i selvaggi «più liberi» dei popoli civili, per «religione e governo» (p. 214). Quelli son popoli sicuramente infelici, e ne propone caustica rassegna, dall’Africa alle Americhe, dalla Russia alla Mongolia: «selvaggio e infelice son per me termini sinonimi». Essi non praticano altra arte che «di ammazzare o disumanare i nostri fratelli» (p. 405). Ma la replica del «canonico» passatista mette avanti ciò che l’«abate» progressista non avrebbe arrischiato: che la guerra dei Sette anni, combattuta fra civili nazioni, ha fatto più morti delle vendette tribali in sette secoli; che quelle nazioni hanno escogitato mezzi di sterminio e di oppressione. A non dire degli effetti deleteri del «raffinamento della ragione» sulla religione: un moto che dai riformatori religiosi del 16° sec. ai deisti e ai libertini, senza soluzione di continuità, prelude a un cataloghetto di illuministi materialisti che non può dubitarsi poco piacessero a Genovesi:
un uomo pianta, un uomo macchina: un alveare d’api che fa il giuoco de’ vizi. Un ottimismo che declama per l’epicureismo […] un filosofo ignorante che col zelo dell’Ecclesiastico cerca di farci ateisti stolti e pirronici (p. 416).
Dove si decrittano Claude-Adrien Helvétius, La Mettrie, Mandeville, Voltaire – tenuto nel carteggio per colui che la natura umana «dopo averla scardassata senza niuna compassione al mondo, la deride e svillaneggia» (p. 183). Le scienze moderne sono allora compatibili con «la vera religione, la religione di amore»? (p. 417). L’«abate» tiene ovvia difesa del legame antico tra filosofia e teologia cristiana, e se per un lato esorta questa a rendersi utile al genere umano, ricorrendo alle fonti della fede, rammenta con san Paolo l’opportunità degli scandali, non perdendo l’occasione per dire che il castigo di questi con «l’Inquisizione» ha piuttosto «irritato» che guarito (p. 428). Quel che al «canonico» non si concede è di fare il gioco della «poltroneria»; di ignorare che il lusso, regolato, è motore di commerci; che la miseria è piuttosto un difetto della «politica». La natura umana non è «una cosaccia» (p. 476) ferina e feroce, bensì sviluppo di bisogni indirizzabili al bene, già inclinato al socievole scambio.
Il tono si fa cupo nella previsione della rabbia di popoli che fossero abbandonati a fame e ignoranza: saranno inondate
le campagne e le città di animali voraci e furiosi, che metteranno tutto a sconquasso. Le fruste, le carceri, le galee, l’esilio, le forche, il fuoco medesimo parranno sempre piccolo dolore a petto di quello che lor dà il ventricolo e le budella (p. 488).
Genovesi corregge Montesquieu, che lega la virtù alle sole repubbliche: anche le grandi monarchie ne hanno bisogno; e riprova l’egoismo avido che altri affama, presentato come ‘pubblica virtù’ da filosofie materialistiche: migliaia di persone
restano a secco per l’altrui ingordigia […]. Diranno […] che le persone dedite a’ lavori non vogliono aversi che il puro fisico; che il di più le fa spensierate e poltrone. Predica del signor Mandeville (pp. 491 e seg.).
E si chiude il discorso sul presupposto di fondo, nell’edizione del 1769: che la «felicità naturale e civile, cioè della minor miseria di questa vita, la quale, non altrimenti che la virtù filosofica, è naturale», come dice san Tommaso, è un campo di urgente aratura, che la «grazia» lavora, non annienta (p. 556). Giuseppe Maria Galanti, nella sua radicalizzazione del pensiero del maestro, chioserà: «La vita è un benefizio del Supremo Ente, il quale evidentemente vuole, che abbia da esser conservata, e che sia felice», e che gli uomini lo adorino, ma «nella lor felicità» (Galanti 1772, pp. 59, 61). Il primo dovere è di tendere alla felicità, ma attraverso la «fatica». Genovesi voleva che
fra le prime massime del Catechismo della Religione nelle Città e nelle campagne s’insegnasse a’ ragazzi d’ogni condizione, che l’Uomo è nato per faticare (p. 63 nota).
Alla conciliazione della materia economica con una teologia riportata a funzione etico-civile, vivificata da una religione del lavoro, corrisponde un notevole empirismo filosofico. Genovesi – che ha commentato tutti i sistemi – non crede che alcuno sia uscito dal «romanzo della Metafisica» (Galanti 1772, p. 30), almeno non del tutto; ma il «metafisico di 24 carati» – al pari del teologo – non può che essere «fisiologo, storico, politico», studioso del mondo dell’uomo, che è ‘fenomenico’ (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 217). Nel Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze insiste sul carattere di «fantasma» della realtà per l’uomo, conosciuta «per fenomeni» (Scritti economici, cit., t. 2, p. 10); e in una lettera del 1767 scrive:
il mondo non è per noi che un ordine di fenomeni. Questo mondo comincia dalla coscienza di noi medesimi, ch’è un fenomeno; quindi si spazia per la coscienza delle sensazioni che ci vengon di fuori, che non sono che fenomeni […]. Chi levò alto la gonna della Natura, per guardar quel ch’ὑπάρχει, subest, direbbe Aristotele? (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 204).
Nelle Lezioni di commercio i problemi teorici del valore e della moneta sono preceduti da un programma di politica economica. Respinto Mandeville, Genovesi rinvia piuttosto al Rousseau del Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes; e pur consapevole del ruolo del lusso e del progresso nelle arti, che contro il Rousseau del discorso digionese ha difeso nelle Lettere accademiche, ammette che maggior felicità gli uomini avrebbero ricavato dal restare entro le arti primitive e in alcune delle miglioratrici, contentandosi di comodi più semplici, ma anche risparmiando fatica: nel senso che vi sarebbero stati meno ceti sottratti al lavoro, e tutti lavoranti con minor gravame. Lungi dall’auspicare il ‘ritorno ai boschi’, egli intende che il progresso che vede ancora stentato nel Regno di Napoli, se compiuto, ma lasciato senza controllo, che è missione della monarchia esercitare, getterebbe i sudditi nelle spire di nuove avidità. Il sostegno al riformismo significava sprone critico al superamento dei suoi limiti: la cultura di Genovesi e quella di Tanucci non convenivano che in parte, e la collaborazione non mise capo a un’organica politica. Il progetto genovesiano era centrato sull’azione governativa, ma faceva conto sul ruolo produttivo di un’aristocrazia ammodernata, e su quello della classe media, ceto ‘mezzano’, che sarebbe dovuto diventare capace di educazione sociale. Convinto del valore dell’ineguaglianza come fattore di interesse, Genovesi perorava tuttavia la sua riduzione nel possesso fondiario, il contrasto dei privilegi fiscali, della proprietà ecclesiastica e del feudalesimo, intorno alla cui eversione si agiterà nel secondo Settecento un dibattito nel quale il suo insegnamento sarà fondamentale, sollecitando nella seconda edizione delle Lezioni l’abolizione della feudalità. Non ‘legge agraria’, tuttavia, ma creazione di un libero mercato, in grado di diffondere fra i contadini la «politezza» che libera da «poltroneria», e di scongiurare il «guasto» distruttivo. Prima che una «chrisi» insorga, bisogna che si realizzi «una grande rivoluzione nelle menti e ne’ cuori degli italiani» (Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, 1° vol., 1768-1770, p. 398); che diventerà, fra gli allievi, la «felice rivoluzione nelle leggi e ne’ costumi» attribuita proprio all’efficacia della sua lezione (Galanti 1772, p. 25).
Le Lezioni furono pubblicate a Napoli dapprima nel 1765-67 e di nuovo nel 1768-70, lette preventivamente da Tanucci, e poi, in meno corretta ma fortunata edizione, a Milano, nel 1768, a cura del discepolo Troiano Odazi. L’opera, al pari della postuma Theologia e dell’Elogio storico stampato anonimo da Galanti nel 1772, fu attaccata dai clericali, ma finì all’Indice solo nel 1817. Fuori di Napoli, le Lezioni ebbero vasta fortuna, non senza suscitare qualche riserva, soprattutto negli illuministi del Nord Italia, da Cesare Beccaria a Giambattista Vasco a Pietro Verri. Ma anche il discorso innovatore che Genovesi avrebbe offerto nelle ultime opere filosofiche era destinato ad ampia circolazione in Italia fino ai primi decenni dell’Ottocento. La proiezione europea del Genovesi economista sarà larga: la prima edizione tedesca delle Lezioni uscì a Lipsia nel 1772-74, acquistando significativa attenzione, fino a Johann Gottfried von Herder. Nel 1775, durante il suo viaggio a Napoli, Gotthold Ephraïm Lessing volle procurarsi le Lezioni di commercio e le Lettere accademiche. Fallito il progetto di una traduzione francese, le Lezioni apparvero però in castigliano nel 1785-86, traduzione che fu tramite della loro circolazione nell’America Meridionale.
Delle ultime opere stampate da Genovesi in vita, o di poco postume, ovvero del corso di filosofia in lingua italiana destinato alla gioventù nazionale, una logica, un’etica e una metafisica, fu proprio la Logica per gli giovanetti nelle diverse edizioni del 1766 e del 1769 a segnare l’episodio più notevole della fama dell’autore: la diffusione in traduzione latina nel mondo di lingua portoghese, in numerose edizioni, dal 1773 fino a metà Ottocento.
In quella Logica si trova ribadita la centralità della metafisica come scienza «delle leggi generali del mondo tanto fisiche quanto morali; dell’origine del bene e del male, del fine di ciascheduna cosa»; anzi, la sua parte più importante costituisce «la ricerca dell’origine del bene e del male», e quindi «la prima sorgente della teologia» (La logica per gli giovanetti, 1766, p. 194). Si conferma il rilievo politico annesso alla teologia naturale:
L’idee d’una prima cagione d’ogni essere, della cura ch’egli ha del mondo, dell’amore e timore che le dobbiamo, delle leggi con cui governa l’universo e ogni sua parte, delle pene e de’ premi de’ buoni e de’ malvagi, che costituiscono il fondo della metafisica e della teologia, fate quanto volete, sono e saranno sempre l’idee che più d’ogni altra occupano e occuperanno sempre le menti di tutti gli uomini, selvaggi, barbari, culti, ignoranti, dotti (pp. 190 e seg.).
Genovesi si sarebbe guardato dal negare, come avrebbe fatto Immanuel Kant, teologia e metafisica come scienze; anzi, è convinto della loro longevità, ma anche che quelle scienze si sarebbero dovute misurare con le istanze dell’utilità e della virtù dell’uomo, e della sua felicità in questa vita, e che avrebbero dovuto meritare in questa luce «maggiore attenzione de’ grandi uomini amanti del ben pubblico, che non pare che oggi si faccia» (La logica per gli giovanetti, 1769, p. 300); laddove si avverte la polemica contro i philosophes, quando rimuovono il fatto religioso. L’Italia è in ritardo in questo tipo di teologia semplice e chiara, che salvaguarda dal rischio di un mondo governato da irreligiosi e popolato da superstiziosi, e custodisce invece la teologia scolastica.
Questo atteggiamento traluce, dopo la soppressione della Compagnia di Gesù (1767), anche dal programma per la nuova scuola statale di lettere e scienze, detta Casa del Salvatore, nell’ex collegio del Gesù vecchio, presentato al re fra il 1767 e il 1768, e attuato fra polemiche e ripiegamenti. Un ammodernamento radicale di discipline e strutture, dal quale resta fuori la teologia scolastica; essa non solo è per Genovesi una perdita di tempo, ma guasta i cervelli; se il re vuole l’insegnamento teologico, si riduca questo al catechismo, e propone quello del giansenista François-Aimé Pouget, all’Indice dal 1721. L’ordinamento progettato prevede l’insegnamento in italiano, come richiesto, accanto all’uso della lingua nazionale nella scienza, anche nella liturgia ecclesiastica, nel dialogo Studi, successivo al 1763, di chiaro senso anticurialistico, e insieme appello per una riforma dell’istruzione. Questa si colloca nel disegno di edificazione di una vera comunità politica e morale, possibile solo a condizione che, pur nella conservazione della religione cattolica di Stato, e nella fedeltà al papa come capo spirituale, il Regno si liberi dell’influenza chiesastica in campo temporale. Nel 1766, nel parere di regia censura concesso a un libro dedicato al problema dei beni ecclesiastici, egli si spingeva a definire il re «custode de’ canoni e difensore dello spirito dell’Evangelio, e vescovo generale esterno della disciplina ecclesiastica», e come tale titolato a rimuovere ciò che danneggia sia il bene pubblico, che quello della Chiesa, nel temporale (Dialoghi e altri scritti, a cura di E. Pii, 2008, p. 446).
Intorno al 1768 rivendicò, nel contesto del dibattito provocato da Clemente XIII, che aveva annullato in nome del suo potere temporale un atto del duca di Parma, la soppressione della cattedra delle Decretali nell’Università di Napoli: prima in lettere private, poi in due memorie al ministro per l’Ecclesiastico Carlo De Marco, e infine in due irriverenti dialoghi non pubblicati, Sulla causa delle Decretali. Nella prima memoria al De Marco denunciò con durezza le conseguenze del prepotere chiesastico, esercitato attraverso il diritto canonico, e respinse la monarchia temporale dei papi alludendo alla ‘pelle’ che i papi pretendevano di aver ereditato da Roma antica, ‘bestia’ apocalittica:
Io chiamava le Decretali il cuoio della grande bestia, che si doveva bruciare, e spargerne le ceneri al vento, poiché non cagionasse più quei mali che hanno infelicitato i popoli europei in circa sei secoli. […] Io non solo rispetto, ma adoro il primato di san Pietro nella S. Sede. Ma che ha che far egli la religione e la S. Sede, colla monarchia profanamente architettata dalla Curia romana, monarchia che da lungo tempo rende odiosa la S. Sede medesima […] e tende a discreditare iniquamente il Cristianesimo? (Dialoghi e altri scritti, cit., pp. 459 e seg., 482).
La lotta anticuriale incontrava a Napoli resistenze, e dovunque si avvertivano i segni della crisi del riformismo. Dell’etica e del diritto come «filosofia del giusto e dell’onesto» Genovesi fornì il compendio nella Diceosina del 1766, riproposta nelle edizioni postume del 1771 e del 1777, e in seguito molte volte ripubblicata, in cui si rinnovano l’esposizione del giusnaturalismo e del contrattualismo, e una riflessione che si connette alla materia del De iure et officiis del 1764, e dei Dialoghi morali composti nel 1766 e non pubblicati. Qui, seguendo Samuel Pufendorf e Locke, Genovesi indaga il radicamento nella natura umana della spinta alla socialità, che fa avanzare per stadi la civiltà, ed è soggetta a inclinazioni contrastanti, che trovano nella cultura, nelle istituzioni politiche, nello scambio con finalità sociale e nella disciplina contrattualistica i necessari correttivi. Gli stadi ‘inferiori’ della civiltà nei popoli selvaggi sono ineludibili, e le storture innegabili negli stadi ‘superiori’ non sono effetti di bisogni inaccettabili, ma conseguenze di prassi politiche inadeguate. L’accoglimento del tema dei diritti naturali è portato alle sue conseguenze politiche, e con esso la protesta contro ordinamenti che non li tengano in alcun conto:
Vi sono de’ paesi, dove i sovrani guardano i sudditi siccome pecore, e questo gli rende poveri e piccoli. Vi ha degl’altri, dov’ogn’uomo è riguardato com’uomo, dove ritiene tutti i diritti dell’umanità, e i sovrani sì son ricchi, grandi, gloriosi (La logica per gli giovanetti, 1769, p. 319).
Il Delle scienze metafisiche, pubblicato nel 1767, reca finale testimonianza dell’originale posizione teologica e religiosa di Genovesi. Il richiamo alla semplicità apostolica e il rifiuto delle devianze sanguinarie perpetrate in nome della fede si intrecciano alla consapevolezza del ruolo civile del cristianesimo, e della necessità che il suddito sia fedele alla religione dello Stato. Ma l’obbedienza alla Chiesa e al papa e il riconoscimento in essi della istituzione divina non attenuano l’antitemporalismo. Inoltre, l’essere il cristianesimo favorevole alla pace degli Stati dipende da quanto la sua teologia si accordi con la ragione naturale, e riduca al minimo la speculazione astratta: degli attributi divini, «quelli sono più da essere da noi ricercati e studiati, i quali maggior rapporto hanno con la nostra vita e felicità» (Delle scienze metafisiche per li giovanetti, 1791, p. 95). Non stupisce che l’ultimo capitolo di un’opera che si apre con la dimostrazione dell’esistenza di Dio s’intitoli L’arte di esser felici, e ammetta: «quando tra noi quaggiù in terra si parla di felicità ci soddisfa più un Fisico, o un Meccanico, che un Metafisico, o un Algebrista» (p. 432); sì che è prova di debolezza aver per secoli disputato «su l’origine de’ mali più tosto, che di come soffrirli, dove non sieno per la prudenza e per l’arti evitabili» (p. 450 nota).
L’andamento che il discorso prende nell’esame delle costituzioni politiche e delle diverse virtù, religiose e morali, che in esse si sviluppano, dimostra tuttavia un realismo quasi pessimistico. «Nelle Repubbliche dunque popolari è molto facile di esservi di molti virtuosi», poiché «la costituzione è di esser tutti liberi. La libertà non si mantiene senza molta virtù» (p. 464); «ma non è sì agevole nella maggior parte delle Monarchie», e pertanto se si volesse introdurre in una monarchia tendente
più all’Aristocrazia, che alla Democrazia una virtù Repubblicana, dico francamente, che o la Monarchia vi debba pendere alla libertà popolare, o non duri quel fervore. […] e o desolerà la nazione, o introdurrà la tirannide (p. 465).
Qui si rappresenta il limite estremo del dispotismo illuminato e della sua possibilità di costruire la felicità per l’uomo; laddove non riuscendovi, o si passa a repubblica, o insensatamente si richiede a un monarca una politica ‘repubblicana’, provocandone la reazione. Sarà il terreno storico e politico concreto dei suoi scolari e seguaci, ‘utopisti’ o ‘riformatori’, da Francesco Longano a Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano, da Giovanni Andrea Serrao a Francescantonio Grimaldi e Melchiorre Delfico. In Italia come in Europa il periodo delle riforme si avviava a sboccare nella «chrisi» che egli aveva temuto.
Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, 4 tt., Napoli 1743-1752, 1752, 1756, 5 tt., 1760-1763.
Appendix ad priorem metaphysicae partem. Qua quaedam paullo obscuriora clarius explicantur, et argumenta Scepticorum fusius diluuntur, Napoli 1744.
Elementorum artis logico-criticae libri V, Napoli 1745, 1749, 1753.
Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine, et constitutione, in P. van Musschenbroek, Elementa physicae conscripta in usus academicos, Napoli 1745.
Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl’ignoranti, Napoli 1764, 1769.
Meditazioni filosofiche sulla religione, e sulla morale, Napoli 1758, Venezia 1783.
De jure et officiis, Napoli 1764.
Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile da leggersi nella Cattedra Interiana, Napoli, 1765-1767, 1768-1770, Milano 1768.
La logica per gli giovanetti, Napoli 1766, 1769.
Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto, 3 tt., Napoli 1766, 1771, 1777, 1789.
Delle scienze metafisiche per li giovanetti, Napoli 1767, 1791.
Universae christianae theologiae elementa dogmatica, critica, historica, a cura di D. Forges Davanzati, 2 voll., Venezia 1771, 1776, 1787.
Vita di Antonio Genovese [1756], in A. Genovesi, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano 1962, pp. 7-42.
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