GIOLITTI, Antonio
Nacque a Roma il 12 febbraio 1915 da Maria Tami, figlia del senatore Antonio Tami, già presidente della Corte dei conti e da Giuseppe, magistrato, poi direttore della Gazzetta Ufficiale, a sua volta figlio dello statista Giovanni Giolitti. Fu primogenito di altri due fratelli, Giovanni e Ugo.
Fin dall’infanzia ebbe un’educazione severa, propria della sua cerchia familiare. La trascorse fra la casa paterna di Roma, a pochi passi da quella del nonno Giovanni, e la residenza estiva di Cavour. Lasciarono un’impronta indelebile sulla sua persona l’ambiente domestico e l’atmosfera familiare, densa di figure che richiamavano gli ideali risorgimentali e conforme a consuetudini austere, che concedevano al costume di vita l’essenziale, ma non il superfluo, proprie di una borghesia piemontese divenuta classe dirigente nazionale.
Fece gli studi al Collegio S. Giuseppe de Merode di Roma, dove la famiglia lo iscrisse per sollevarlo dagli obblighi di partecipazione che il regime fascista imponeva nella scuola pubblica, sfuggendo così agli arruolamenti nei balilla e negli avanguardisti. Malgrado la difficoltà di adattarsi alle prassi di un insegnamento rigidamente cattolico, doveva così presto maturare in lui la consapevolezza della diversità irriducibile fra le memorie domestiche e il regime che lo circondava. Portò con se questo sentimento nei suoi studi universitari: iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, nel suo ricordo non vi trovò «nessuno stimolo, nessun nutrimento, nessun maestro» (Giolitti, 1992, p. 16). Si laureò nel 1937 in diritto civile, relatore Filippo Vassalli, con una tesi ‘sulla revoca della rinuncia all’eredità’, ma il predominante interesse di studio in quegli anni era stato per la filosofia del diritto.
Furono le amicizie e le letture a divenire i principali riferimenti della sua formazione intellettuale e civile. Le amicizie erano innanzitutto quelle della cerchia famigliare, poi altre maturate durante l’università e nelle villeggiature a Castiglioncello, dove frequentava i d’Amico, i Baldini, i Cecchi, i Frateili e tra queste ebbero particolare rilevanza quelle con Fedele d’Amico, Paolo Milano e Furio Diaz. Nella biblioteca del nonno lesse, oltre ai libri di Benedetto Croce – tra cui la nuova edizione, curata da quest’ultimo,del saggio La concezione materialistica della storia di Antonio Labriola (Bari 1938), che conteneva il testo del Manifesto dei comunisti – , anche La mia vita (Milano 1930) e Storia della rivoluzione russa (I-III, Milano 1936-38) di Lev Davidovič Trockij, volumi pubblicati rispettivamente nella collana «Le scie» di Arnoldo Mondadori e per i tipi dei fratelli Treves; più tardi si dedicò alla lettura del primo libro del Capitale di Karl Marx nell'edizione promossa da Gerolamo Boccardo presso l'Unione Tipografico-Editrice (Torino 1886) e si confrontò con Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899) di Eduard Bernstein in traduzione francese (Socialisme théorique et social-démocratie pratique, Paris 1900). Si era abbonato alla Nouvelle Revue Française e al New Statesman and Nation; dall’Inghiltera si fece inviare la prima edizione dei due volumi sul Soviet Communism dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, il cui sottotitolo declinava A new civilisation? (London 1935); lesse l’edizione laterziana, curata da Alessandro Schiavi, della Democrazia in crisi di Harold Laski (Bari 1935). Tra il 1935 e il 1937 soggiornò in Germania, Inghilterra e Francia; a Parigi aveva ascoltato un comizio di Léon Blum «e il grido appassionato, quasi furente dell’immensa folla: des avions pour l’Espagne!» (Giolitti, 1992, p. 28).
Nel 1939, sposatosi con Elena d’Amico, con la quale avrebbe avuto le due figlie Anna e Rosa e il figlio Stefano, si trasferì a Torino per lavorare nella fabbrica di lime (la FIL) dello zio Federico Giolitti, chimico di valore e titolare di importanti brevetti, fervente ammiratore dell’industria tedesca e tendenzialmente filonazista. I rapporti non facili con quest’ultimo lo trattennero poco più di un anno in quella città, non senza che stringesse nuove amicizie in particolare con Ludovico Geymonat e, attraverso di lui, con Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Augusto Del Noce e Giulio Einaudi. Tornato a Roma frequentò il gruppo di Giustizia e Libertà che faceva capo a Guido Calogero. Nell’estate del 1941, tramite Paolo Bufalini che teneva per il Partito comunista d'Italia (PCd'I) i rapporti con i liberalsocialisti, entrò in contatto col gruppo romano dei giovani comunisti, tra cui Antonello Trombadori, Antonio Amendola, Mario Alicata, Pietro Ingrao.
L’adesione al Partito comunista di Giolitti fu solo in parte il frutto di una maturata convinzione ideologica ma, come in altri giovani di famiglie liberali, piuttosto di un meditato impulso. Come avrebbe spiegato lui stesso, «allora non mi interessava tanto sapere cosa accadeva nella Unione Sovietica; mi interessava ed esaltava l'esistenza della Unione Sovietica. Avevo letto, sì, i due libri di André Gide e altri sui processi di Mosca e tuttavia il vero anti-Hitler e anti-Mussolini sembrava essere Stalin» (ibid., p. 29). L’opposizione liberale non usciva da strette cerchie elitarie, era un’attesa senza azione, ciò che appunto si presentava ai più giovani come necessaria. A riguardo, l’Unione Sovietica e l’organizzazione comunista costituivano da questo punto di vista uno sperimentato riferimento. La guerra di Spagna e Monaco testimoniavano l’inerzia delle democrazie europee. Lo scontro pareva così radicalizzarsi tra nazifascismo e comunismo.
A Roma aveva trovato un impiego al ministero dell’Educazione nazionale come ‘salariato temporaneo’, dividendo la stanza con Vasco Pratolini. Su consiglio di Geymonat e di Bobbio, che lo avevano sollecitato a riprendere gli studi di filosofia del diritto, aveva allora intrapreso la traduzione per la casa editrice Einaudi del volume Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie giusnaturalistiche di Otto von Gierke, uscito nel 1943 (avrebbe poi tradotto nel 1945, sempre per Einaudi, l’opera di Julius Binder, La fondazione della filosofia del diritto). Ma, nell’ottobre 1942, fu arrestato e tradotto al carcere di Regina Coeli, dove rimase fino al febbraio dell’anno seguente, quando venne messo in libertà dal Tribunale speciale. Perduto così il suo salario ministeriale, entrò nello studio di avvocato del suocero Domenico d’Amico. Tramite Vidmar Cesarini Sforza, che aveva come assistente Valentino Gerratana, pubblicò sulla rivista di Giacomo Perticone, Archivio della cultura italiana [n.s., IV (1942), I, pp. 97-101] una recensione al libro di Aldo Mautino su La formazione della filosofia di Benedetto Croce (Torino 1941), che documentava il suo distacco definitivo dall’approccio teoretico di quest’ultimo al tema della libertà e una chiara opzione per la filosofia della prassi di derivazione marxista. Seguì un’altra recensione sulla stessa rivista [ibid., n.s., V (1943), I, pp. 98-102]), parimente significativa per la sua polemica antiliberista, al libro di Wilhelm Röpke, Die Gesselschaftskrisis der Gegenwart (Erlenbach- Zurich 1942), che nel 1946 sarebbe stato pubblicato presso Einaudi con il titolo La crisi sociale del nostro tempo.
Nel 1943 strinse legami più stretti con la casa editrice Einaudi che aveva aperta la sua sede a Roma, divenendo luogo di riunioni sempre più accese tra azionisti e comunisti e dove ebbe per interlocutori Mario Alicata, Carlo Muscetta, Giaime Pintor e, dopo il 25 luglio, Franco Venturi e Manlio Rossi Doria. Fu nei mesi che precedettero la caduta del fascismo che Giolitti incominciò ad assumere un ruolo militante nel Partito comunista italiano (PCI) incaricato di tenere i rapporti con i liberali, Alessandro Casati, Alberto Bergamini e Manlio Lupinacci, avendo come referenti Giorgio Amendola e Celeste Negarville.
L’8 settembre lo colse a Cavour. Qui aveva già stabilito accordi con Pompeo Colajanni per costituire una formazione partigiana (poi brigata e divisione «Garibaldi», dislocata tra la Val Pellice e la valle Varaita), formata prevalentemente di soldati, sottoufficiali e ufficiali di stanza a Pinerolo, che egli raggiunse nei giorni seguenti sul vicino Monte Bracco, venendone in seguito nominato dal PCI commissario politico. Nel maggio 1944, con lo stesso incarico, fu trasferito alla brigata «Garibaldi» sita nelle valli di Lanzo. Come già con la precedente brigata partecipò a numerose azioni di guerriglia partigiana. Nel settembre dello stesso anno si ferì alla gamba in valle di Viù. Trasportato in Francia e ricoverato nell’ospedale di Aix-les-Bains, da poco liberata dalle Forces françaises de l’intérieur (FFI), solo, nel giugno del 1945, si ricongiunse alla famiglia in Roma.
Nella capitale la sua militanza comunista assunse dimensioni nuove. Palmiro Togliatti lo incaricò del ‘rapporto con gli intellettuali’, nell’ambito dell’ufficio propaganda della direzione del partito diretto da Ruggiero Grieco, con Fabrizio Onofri, Antonello Trombadori e Mario Spinella. Ma poco dopo nel giugno 1946 fu candidato all'Assemblea costituente nel collegio di Cuneo-Asti-Alessandria, riuscendo eletto. Non fu nominato nella commissione per la redazione del progetto di costituzione, ma in aula prese l’iniziativa su alcuni temi rilevanti: presentò un ordine del giorno per l’introduzione della proporzionale nel testo costituzionale; si dichiarò contro l’emendamento all’articolo 49 di Costantino Mortati sulla democrazia interna ai partiti e contro la formulazione del ‘dovere di voto’ nelle elezioni politiche, nonché su altri aspetti, seguendo l’impostazione del gruppo comunista nella revisione del testo del progetto di costituzione. Alle elezioni dell'aprile 1948 fu rieletto e il gruppo parlamentare lo nominò suo segretario, incarico che gli valse il compito di sostenere alla Camera dei deputati la posizione del PCI contro il piano Marshall, «allineato sulla posizione ufficiale di rifiuto implacabile, di contrapposizione globale» (Giolitti, 1992, p. 83). Praticava un’ortodossia pedissequa ma non cieca, portandolo l’istinto spesso da un’altra parte, come suggeriscono molti spunti della sua attività intellettuale ed editoriale che, in quel periodo continuò con intensità e che non può propriamente definirsi come ‘organica’ rispetto al PCI.
Giolitti aveva, infatti, mantenuto i rapporti con la casa editrice Einaudi e faceva parte del suo comitato di redazione. Nel 1949 divenne l’anello di congiunzione tra la casa editrice e il PCI, ovvero Togliatti e Felice Platone, nel delicato processo di pubblicazione dei Quaderni di Antonio Gramsci. Divenne così consapevole delle limature e dei tagli che il segretario comunista apportò al testo gramsciano, mosso soprattutto dalla preoccupazione di non provocare un rigetto dell’opera da parte sovietica e intenzionato a italianizzarne il più possibile il significato. Furono del resto quelli gli anni, dal dopoguerra fino a dopo la morte di Stalin, in cui la politica culturale del PCI si mostrò schiacciata dall’ortodossia zdanoviana e stalinista. Nel 1948 a Giolitti toccò una sferzante ammonizione dal presidente della commissione culturale del partito, Emilio Sereni, per aver accennato, nella sede dell’Einaudi, in occasione della pubblicazione da parte della casa editrice del volume di Stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, all’opportunità di essere «molto cauti nel portare a noi le esperienze sovietiche» (Vittoria, 1990, pp. 139). Lo stesso Sereni l’aveva già duramente criticato per il saggio Osservazioni alla politica di Ferdinando Lassalle che aveva scritto su Società [I (1945), 4, pp. 124-147]. Ma nel 1949, avendo Giolitti prefato il libro di Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata, pubblicato da Einaudi, era stato Rodolfo Banfi su l’Unità del 1° febbraio 1949 a farsene severo censore. Giolitti patrocinò poi l’edizione del volume di Fernand Braudel, Civiltà ed imperi del mediterraneo nell’età di Filippo II, che sarebbe stato pubblicato da Einaudi nel 1953 e che Franco Rodano e Felice Balbo avevano avversato, considerandolo una versione materialistica della storia, tendente al superamento del marxismo. Non sfuggì del resto a Giolitti la fine del Politecnico e fu personalmente toccato dalla condanna, pronunciata da Togliatti [Marx e il leopardo, in Rinascita, VII (1950), 6, p. 332] di Cultura e realtà, a cui avevano collaborato persone a lui legate come Fedele d’Amico, Pavese, Italo Calvino e Natalia Ginzburg.
Nel 1948 aveva tradotto i due saggi di Max Weber, La politica come professione e La scienza come professione, raccolti in un volume da Einaudi di cui divennne anche il redattore delle collane di storia e di economia. Per la prima era stato in stretto rapporto soprattutto con Federico Chabod e Delio Cantimori, membri del comitato di direzione. Per la collana economica aveva lui stesso curato l’edizione del Saggio sulla natura del commercio in generale di Richard Cantillon, consigliato da Luigi Einaudi, e poi edito nel 1955; nel 1954 aveva tradotto, con Elio Conti, le Theorien über den Mehrwert di Marx, pubblicate da Einaudi in tre volumi fra 1954 e 1958 col titolo Storia delle teorie economiche. Lo consigliava soprattutto Piero Sraffa, ma gli erano pure vicini Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Sergio Steve e Federico Caffè, anch’essi nel comitato di direzione della collana einaudiana. Giolitti aveva ampliato le sue originarie letture, prevalentemente marxiste, alla letteratura economica americana del new deal e alla teoria economica di John Maynard Keynes e della scuola di Cambridge, approfondendo i temi della programmazione economica e del welfare, che si affacciavano nei dibattiti politici verso la metà degli anni Cinquanta.
Questi temi, anche se contrastati, attraversavano anche i dibattiti del PCI. Lasciata la segreteria del gruppo parlamentare, nel 1950 Giolitti era stato nominato segretario del Movimento dei consigli di gestione; istituti questi di controllo operaio nelle aziende industriali, nati con la Liberazione e già dopo il 1947 ridottisi a mera struttura organizzativa del PCI. L’incarico gli diede comunque occasione di affrontare le tematiche economiche legate alle lotte sindacali: seguì da vicino la preparazione del ‘piano della CGIL’, fatto elaborare da Giuseppe Di Vittorio nel 1952, in cui erano emerse le prime elaborazioni keynesiane e che subì la netta ripulsa di Togliatti. L’altro tema, a cui pure attese, fu quello, assai negletto nel dibattito politico e sindacale, sugli effetti del progresso tecnologico nella organizzazione del lavoro industriale che, oltre a Vittorio Foa, allora uno dei segretari confederali socialisti della CGIL, aveva nel partito tra i maggiori esperti, Ruggero Cominotti e Silvio Leonardi. Quel lavoro di ricerca portò poi al convegno su Lavoratori e progresso tecnico, pubblicato presso Feltrinelli a cura dell’Istituto Gramsci (Milano 1953).
Nel giugno 1953 era stato rieletto alla Camera ed era diventato membro attivo della commissione Finanze. Nel 1956 durante il dibattito parlamentare sulla legge, allora in discussione, che prevedeva la nazionalizzazione delle fonti di energia, su sua iniziativa era stato approvato un ordine del giorno del gruppo comunista che portò a un ampio voto favorevole a quel provvedimento, intorno al quale lo scontro tra l’ENI e le società petrolifere internazionali, appoggiate anche dall’interno della Democrazia cristiana (DC), era stato assai accanito (A. Giolitti, Una lotta contro i monopoli, in l’Unità, 17 luglio 1956). Ma il 4 giugno di quello stesso anno era stato pubblicato sul New York Times il testo del ‘rapporto segreto’ di Nikita Sergeevič Chruščëv al XX congresso del PCUSS, la cui traduzione sarebbe subito comparsa su Il Punto e L’Espresso. Si aprì allora un convulso dibattito nel PCI in cui Giolitti più apertamente si segnalò, provocando già allora su di lui il controllo del partito. Togliatti sul rapporto Chruščëv inizialmente tergiversò, ma le dimostrazioni operaie di Poznam e l’insurrezione ungherese di ottobre ebbero come conseguenza la chiusura perentoria di ogni possibile discussione. Il dissenso nel partito prese forma nella ‘lettera dei 101 intellettuali’ che Giolitti non firmò, avendo scelto di mantenere fino in fondo il suo dissenso all’interno degli organi del partito. Fu convocato da Giancarlo Pajetta alle Botteghe Oscure, con Aldo Natoli, perché desse informazioni su chi aveva promosso la lettera degli intellettuali: fu anche un tentativo intimidatorio, a cui partecipò con singolare durezza Giorgio Amendola. Giolitti si preparò per il dibattito dell'VIII congresso del PCI che si sarebbe tenuto il novembre seguente. Vi pronunciò un discorso breve ma chiaro, in cui respinse la definizione della rivolta ungherese come «controrivoluzione» e affermò che «non si può costruire il socialismo senza libertà e senza democrazia» (Giolitti, 1992, p. 102) , rifiutando così il ‘modello sovietico’ e rifacendosi all’originario dissenso di Gramsci con Stalin. Nel corso del dibattito seguirono le repliche di Amendola, Longo e di altri, mentre Togliatti, senza fare il suo nome, pronunziò solo il perentorio avvertimento, dicendo: «non scherziamo con Gramsci» (ibid., p. 98); sulla citazione di Gramsci da parte di Giolitti sarebbe ritornato con asprezza Valentino Gerratana (Una deformazione del pensiero di Gramsci e della politica del partito comunista, in l’Unità, 19 maggio 1957). Nella elezione congressuale del comitato centrale Giolitti risultò poi primo dei non eletti con 25 voti su 1000. Dopo il congresso fu invitato a rivedere la sua posizione e consegnò, a una riunione del gennaio 1957, a cui era stato convocato da Luigi Longo, presenti Bufalini e Alicata, un memoriale che illustrava la sua posizione, che poi avrebbe sviluppato nel libretto Riforme e rivoluzione, pubblicato da Einaudi quello stesso anno. A questo scritto avrebbe replicato poi lo stesso Longo (Revisionismo vecchio e nuovo, Torino 1957).
Nella linea di Giolitti si riconosceva una parte non marginale del PCI. Secondo la significativa testimonianza di Gianni Rocca, «ciò che noi pensavamo da mesi (alcuni da anni) si rispecchiava in quella sua confessione di non essere d’accordo. Più che un atto d’accusa, era il tentativo di riaprire una speranza» (Ajello, 1979, p. 425). La reazione del partito fu in un primo tempo tesa a recuperare questa dissidenza e a ciò si adoperò personalmente Togliatti, inviando una lettera a Giolitti che non gli fu recapitata per un disguido postale, e fu pubblicata poi molti anni dopo (Caro Giolitti, vorrei chiederti un favore, in l’Unità, 16 aprile 1989). Una riunione della direzione del PCI dell’8 maggio 1957 portava come un punto all’ordine del giorno la discussione «sul libro pubblicato da Giolitti»; il dibattito fu concluso da Togliatti, che espresse la preoccupazione che si volesse «mantenere uno stato di lotta interna e continua nel partito» e sottolineò come fosse «probabile che Giolitti mantenesse rapporti con Onofri e altri. Dovremo essere molto chiari e aspri nella lotta ideologica… Prudenza invece nelle misure di ordine disciplinare per costringere Giolitti a scoprirsi. Qualche sua posizione ha ancora delle radici nel partito» (Roma, Fondazione Istituto Antonio Gramsci, Archivio del PCI, Verbali della Direzione, 8 maggio 1957).
Il 19 luglio Giolitti presentò le sue dimissioni dal PCI con una lettera al comitato federale di Cuneo, che venne pubblicata su l’Unità del 23 luglio col titolo Antonio Giolitti abbandona le fila del PCI, seguita il 23 da un articolo di Pietro Ingrao, Il cedimento di Giolitti. Il trattamento riservato a Giolitti, quello di accogliere le sue dimissioni senza procedere all’espulsione, non aveva precedenti nella prassi comunista. Quando nel 1960 Giolitti pubblicò a Milano da Garzanti un’antologia di testi su Il comunismo in Europa da Stalin a Krusciov, Togliatti lo recensì duramente ricorrendo alla pseudonimo di Roderigo di Castiglia, di nuovo senza pronunziarne il nome [A ciascuno il suo, in Rinascita, XVII (1960), 6, pp. 437-439].
Giolitti fece seguire alle sue dimissioni dal partito quelle da deputato, respinte dalla Camera a larga maggioranza; così passò al gruppo misto. Naturale fu per lui l’approdo al Partito socialista italiano (PSI). La sua adesione al gruppo parlamentare socialista era ostacolata dalla sinistra del partito e poté avvenire solo nei primi mesi del 1958. Si presentò poi nel suo collegio di Cuneo-Asti-Alessandria, come indipendente nella lista del PSI, alle elezioni del maggio di quello stesso anno, conseguendovi un notevole successo personale, al quale contribuì una parte rilevante dei militanti comunisti del cuneese. Si impegnò subito nel dibattito politico e culturale di quegli anni sulla svolta di centro-sinistra. Sul piano parlamentare furono significativi due suoi interventi: il primo pronunciato in occasione del dibattito sul Mezzogiorno svoltosi alla Camera nel 1959 (e pubblicato con il titolo La questione meridionale e il socialismo in Italia, in Il sud nella storia d’Italia. Antologia della questione meridionale, a cura di R. Villari, Bari 1961, pp. 735-754); il secondo svolto durante la discussione relativa alla Nota aggiuntiva alla relazione generale sulla situazione economica del paese nel 1961 presentata da Ugo La Malfa nella primavera del 1962. Attiva fu la sua partecipazione ai dibattiti, soprattutto di politica economica, che accompagnarono quella svolta e di cui Giolitti divenne uno dei protagonisti: tavole rotonde (come quella pubblicata su Italia domani del 29 marzo e 4 aprile 1959, a cui partecipò con Riccardo Lombardi, Foa, La Malfa ed Ernesto Rossi), articoli su riviste, in particolare quelle del PSI, come Mondo Operaio, dove pubblicò L’operaio, la grade fabbrica e il monopolio [XIIII (1960), 3, pp. 23-26], partecipazione a convegni, tra l’altro a quello dedicato alle Prospettive di una nuova politica economica e patrocinato da Il Mondo e altre riviste nell’ottobre 1961.
Dopo il 1958, Giolitti si iscrisse al PSI. Attenta si era fatta la sua riflessione ideologica e politica intorno alla differenza che avrebbe dovuto intercorrere tra ‘un partito riformatore’, quale pretendeva essere il PCI, e un ‘partito riformista’, quale avrebbe dovuto diventare il PSI. Questione che in termini generali rimase per tutto l’ulteriore corso della sua vita un tema dominante. In quelle prime considerazioni erano coinvolti tutti i nodi classici, da quasi un secolo propri della cultura socialista, sui quali bisognava operare il definitivo innesto, in Italia ancora tardivo, dei problemi dell’economia del benessere e della piena occupazione, elaborati fin dagli anni Trenta dal pensiero politico-economico liberal-democratico. Queste riflessioni vennnero soprattutto svolte sulla rivista Passato e presente, fondata e diretta da Giolitti con un gruppo si intellettuali anch’essi usciti dal PCI (come Alberto Caracciolo, Luciano Cafagna, Carlo Ripa di Meana, a cui doveva aggiungersi il gruppo di area socialista della rivista milanese Ragionamenti con Roberto Guiducci, Alessandro Pizzorno e Franco Momigliano), che fu pubblicata dal gennaio 1958 al dicembre 1960.
Il punto di innesto dei diversi strumenti teorico-politici ed economici, fu, su Passato e presente, il tema della programmazione, le cui implicazioni andarono precisandosi col tempo. La prima impostazione rimaneva legata al tema classico della ‘transizione al socialismo’, attraverso il volano delle così dette ‘riforme di struttura’, così l’idea che la programmazione dovesse «investire la struttura sociale, il sistema nel suo complesso, non semplicemente il ‘monopolio’» [A. Giolitti, Alcune osservazioni sulle ‘riforme di struttura’, in Passato e presente, I, (1958), 6, p. 690], e costituiva, rispetto all’impostazione comunista, un passo avanti, reso meno netto da una troppo accentuata sopravalutazione del ruolo strategico dell’industria pubblica e da un’idea ancora implicita della funzione anticapitalistica che le riforme di struttura avrebbero dovuto svolgere.
Questa impostazione dovette stemperarsi nel corso della vicenda politica che portò alla costituzione, alla fine del 1963, del primo governo di centro-sinistra organico. Giolitti fu, al fianco di Lombardi, il responsabile della politica economica del PSI. Al congresso di Milano era entrato nel comitato centrale e nella direzione del partito; nel luglio 1963 fu, con Lombardi, protagonista della cosiddetta ‘notte di S. Gregorio’, nel corso della quale si verificò la rottura delle trattative per la costituzione del primo governo Moro con i socialisti, avvenuta principalmente su temi di politica economica.
Nel dicembre seguente, trovato l’accordo, Giolitti entrò come ministro del Bilancio nel primo dicastero Moro. Fu una navigazione difficile, sviluppandosi proprio in quei mesi la manovra deflazionistica con cui la Banca d’Italia aveva inteso arginare l’inflazione, determinatasi in seguito al forte aumento dei salari contrattuali del biennio precedente, che aveva contribuito a determinare un grave squilibrio della bilancia dei pagamenti. Giolitti lavorò alla stesura di un piano quinquennale, di cui riuscì a mettere a punto una prima completa stesura, con la collaborazione dei migliori economisti di quegli anni, tra i quali Sylos Labini e Fuà. Il piano aveva il merito di non trascurare i problemi congiunturali che l’economia stava attraversando, individuando anche le cause strutturali che li generavano e indicando una terapia che delineava un programma di ripresa e di sviluppo. Dopo il primo trimestre dell’anno successivo, nonostante apparisse migliorato il quadro congiunturale, non si erano realizzati i due presupposti necessari per una politica di programmazione. Nella Nota aggiuntiva, La Malfa aveva messo l’accento sulla ‘politica dei redditi’, condizione preliminare per una programmazione del sistema economico. Giolitti era duramente contrastato dalla Confindustria e dalla destra economica, ma non riusciva a trovare neppure l’intesa con i sindacati, soprattutto con la CGIL per l’opposizione dei comunisti. Questo fu il nodo politico, che non sfuggì alla riflessione di Giolitti, e su cui anzi si impegnò, consapevole di non poter acquisire un risultato concreto, oltre l’attivazione di un dialogo costante, come mostra lo scambio incrociato di lettere con La Malfa, Aldo Moro e Pietro Nenni. Su queste riflessioni Giolitti tornò nell'autunno 1964 in una tavola rotonda promossa dalla rivista Tempi moderni dell'economia, della politica e della cultura (VII, 19, pp. 25-32), introducendo il tema di ‘una grande sinistra’ (l'intervento fu ripubblicato con il titolo Fini e mezzi dell’azione socialista in Italia: alcune osservazioni preliminari, in Costituente aperta. Le nuove frontiere del socialismo in Italia, a cura di R. Guiducci - F. Onofri, Firenze 1966, pp. 35-47.). Il tema istituzionale, invece, era già in parte enunciato nel piano, che indicava gli strumenti legislativi e amministrativi necessari per attuarlo, preconizzando una modifica strutturale dell’assetto di governo dell’economia. Da ciò principalmente nacque l’opposizione del ministro del Tesoro, Emilio Colombo, con il sostegno del governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, che si palesò nel maggio 1964. Essa fu non solo il presupposto della crisi del primo governo Moro, ma anche la definitiva imposizione della linea ‘dorotea’, divenuta dominante nella DC, decisa a non discostarsi dai tradizionali strumenti di politica monetaria e finanziaria, senza sostanzialmente modificare la politica economica del governo, con cui si andava esaurendo la ragione stessa del centro-sinistra.
Si trattava di un netto rigetto della programmazione come metodo di governo che, insieme alla legge urbanistica, fu l’oggetto principale della difficile trattativa per un nuovo governo del luglio 1964, conclusasi con il sostanziale ridimensionamento di ambedue questi originari obbiettivi del centro-sinistra nel programma del secondo dicastero presieduto da Moro. Giolitti non prese parte alle trattative conclusive per la formazione del nuovo ministero e, malgrado le sollecitazioni di Nenni e Francesco De Martino, rifiutò di farne parte, collocandosi con Lombardi all’opposizione nel partito. Dal 1965, fino alla fine della legislatura, divenne presidente della commissione Industria della Camera dei deputati, che con lui inaugurò la prassi delle audizioni conoscitive. Contrastò poi il processo di unificazione socialista che portò alla fusione tra il PSI e il Partito socialista democratico italiano (PSDI), in cui vedeva il coronamento di una svolta moderata del socialismo italiano, rilevando che i contenuti programmatici del centro-sinistra e la battaglia per una politica riformatrice a livello di governo erano così definitivamente perduti, con l’ormai stabilizzata egemonia del gruppo doroteo nella gestione del potere politico in Italia.
Nella polemica di Giolitti sull’unificazione socialista emergeva un tratto della sua personalità. La sua riflessione intellettuale infatti valicava i termini effettivi del dibattito politico, senza poi riuscire a incidere su di essi. Egli già allora si proiettava oltre le diverse stratificazioni della cultura politica italiana, che erano oltremodo datate. Uscendo da una riunione per la stesura della Carta dell’unificazione socialista, rilasciò una dichiarazione apparsa sui quotidiani del 30 luglio 1966, nella quale deplorò che in quel documento, in cui vi erano superficiali richiami alla tradizione marxista del socialismo, già propri della II Internazionale, ci si preoccupasse «troppo di mettere in salvo alcune suppellettili del cosiddetto patrimonio ideale e troppo poco di fornire un’analisi corretta e aggiornata della situazione storica a supporto di un’analisi socialista efficace» (Giolitti, 1992, p. 158). Il termine «suppellettili» fece scandalo, ed era tuttavia un’efficace metafora dei lacci che avvolgevano il dibattito politico sullo sviluppo economico italiano, anche al di là della peculiare vicenda socialista. A questo rinnovamento della cultura politica Giolitti si dedicò allora con passione e onestà intellettuale. Nel 1966 inaugurò presso Einaudi una collana – Serie di politica economica – che avrebbe diretto fino al 1983. Nel 1967, nella collana dei Saggi dello stesso editore, pubblicò Il socialismo possibile, un lavoro che rispecchiava già il clima di riflessioni fra utopia e pratica politica proprie del socialismo europeo, e che era anche un’appassionata riproposizione del tema della programmazione, in cui il problema della politica riformatrice non era più visto fra ‘riforma e rivoluzione’, ma tutto all’interno delle questioni politiche, istituzionali ed economiche della società contemporanea. Vi era anche nella sua analisi una percezione chiara di quale fosse l’evoluzione della società capitalistiche, che nulla più concedeva alle polemiche ‘anti-neocapitalistiche’.
L’Italia, a differenza di quanto era avvenuto, prima in Gran Bretagna, poi in Germania e in quegli anni stava avvenendo in Francia, non ha mai prodotto, da parte di alcun partito della sua sinistra, una riflessione corale e compiuta sui fondamenti economici e istituzionali dell’azione politica, volta a stabilire il passaggio tra passato e presente. Sono sempre state scelte politiche a muovere le forze politiche della sinistra, con gli adattamenti che queste comportavano, non accompagnate da una più netta determinazione del mutamento dei principi e degli strumenti politico-istituzionali conseguenti. La vicenda politica e la ricerca intellettuale di Giolitti l’avevano posto, invece, su questa strada. Si può dire che il suo fu un raro, anzi forse l’unico dichiarato approccio di tipo ‘socialdemocratico’, intendendosi per ciò la determinazione di un metodo democratico per garantire, come obbiettivo politico primario, una coesione egualitaria della società, piegando a ciò gli sviluppi di un’economia di mercato di tipo capitalistico. Da parte di Giolitti l’attribuirsi la definizione di ‘socialdemocratico’ fu acquisizione più tardiva, ostandovi l’esistenza in Italia di un partito che si designava tale e la damnatio del termine da parte comunista. La ricerca intellettuale di Giolitti lo portava, tuttavia, a questa opzione di fondo, mentre la sua azione di uomo politico non sarebbe riuscita a rompere alcuna delle sedimentazioni politiche e culturali proprie del caso italiano.
Giolitti non si fece prendere dalle suggestioni emerse nel 1968, che pure attraversarono il mondo socialista: con una lucida percezione osservò che quel rivolgimento, pure così evidente sotto l’aspetto socio-antropologico, in termini politici, almeno in Italia, seguiva strade convenzionali. Ritenne ‘possibile’ invece riprendere il filo interrotto della originaria prospettiva del centro-sinistra sulla base della più chiara visione intellettuale che aveva maturato in quegli anni. All’indomani delle elezioni politiche del maggio 1968, così disastrose per i socialisti, di contro alle tesi che sostenevano il loro ‘disimpegno’ dal governo, affermò vigorosamente la tesi di un rinnovato impegno, distaccandosi da Lombardi. Ne nacque una più attiva immedesimazione nell’attività di partito e la costituzione della corrente di ‘Impegno socialista’, tra gli altri con Guiducci, Bobbio, Rossi Doria, Loris Fortuna ed Eugenio Scalfari, in vista del primo congresso del Partito socialista unificato (PSU) che si tenne a Roma dal 23 al 27 ottobre di quell’anno. Il partito era diviso sul problema della continuazione della politica di centro-sinistra fra chi vi si opponeva, come Lombardi, considerando la formula completamente esaurita; chi pensava a un disimpegno tattico secondo il vecchio modulo praticato durante il centrismo dalla socialdemocrazia di Giuseppe Saragat; vi era invece chi voleva rinnovare l’‘impegno’, ma ad altre condizioni con la DC, come Giacomo Mancini, e altri i rapporti col PCI, come De Martino. La posizione di Giolitti si collocò tra questi due ultimi, più attenta del primo verso i problemi del programma, più cauta del secondo nel dibattito verso i comunisti. La somma delle tre posizioni doveva esprimersi nel comitato centrale del luglio 1969 dove la mozione di Mancini, De Martino, Giolitti e Italo Viglianesi mise in minoranza la segreteria di Mauro Ferri e aprì la strada alla nuova scissione socialdemocratica.
Giolitti assunse allora la presidenza del gruppo parlamentare socialista nella difficile navigazione dei due primi governi presieduti da Mariano Rumor, avendo come omologo democristiano Giulio Andreotti. Tornò a ricoprire la carica di ministro del Bilancio fra il marzo 1970 e il gennaio 1972 nel III governo Rumor e nel governo diretto da Emilio Colombo. Si trovò nel mezzo di un triennio aspro e difficile, l’‘autunno caldo’ del 1969 avendo aperto uno scontro sociale che aveva determinato una catena di fratture politiche e istituzionali. L’iniziativa di governo dei socialisti portò all’approvazione di provvedimenti come la riforma pensionistica, lo statuto dei lavoratori, la realizzazione dell’ordinamento regionale, anche se, soprattutto gli ultimi due, assieme alla riforma dei regolamenti parlamentari, non rappresentarono tanto un rilancio della politica riformatrice del centro-sinistra, quanto l’avvio di un nuovo equilibrio di carattere ‘consociativo’. La politica economica, di fronte alla nuova crescita dei salari, si trovò di nuovo stretta nella tenaglia tra stabilizzazione, attraverso provvedimenti congiunturali, e rilancio produttivo. Giolitti tentò in quei frangenti una riproposizione della politica di programmazione con il Documento preliminare di programmazione, che ebbe il merito di riscontrare i mutamenti avvenuti nell’economia italiana dell’ultimo decennio, rinnovandone gli strumenti istituzionali e individuando procedure più realistiche di ‘programmazione contrattata’. Ma si riproduceva allora, in termini ancora più drammatici, una situazione politica ed economica assai peggiore di quella già sperimentata nel 1963-64.
Una politica di programmazione richiedeva il pieno operare di uno Stato democratico. Questa non era la condizione della democrazia italiana. Lo Stato, inteso come pubblica amministrazione, non era passato attraverso il necessario processo di riforma della sua struttura interna e dei suoi obbiettivi, veniva anzi sempre meno la stessa sua funzione, nella gestione ordinaria di controllo e di programmazione dei suoi interventi. Dal punto di vista dell’ordinamento politico era poi diviso dalla preclusione verso il PCI, in linea di principio non superabile, mentre all’interno della maggioranza di governo una destra economica e politica, strettamente connessa a settori dell’apparato dello Stato, era avversa allo stesso precario equilibrio politico vigente e cercava di destabilizzarlo con quella che fu chiamata la ‘strategia della tensione’, caratterizzata da connotati eversivi. Lo scontro sociale allora in atto e le sue conseguenze economiche accentuarono queste fratture e le loro linee di scontro. La capacità di azione del governo si trovò così impedita e in bilico tra opzioni contrastanti.
Con l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica, nel dicembre 1971, il quadro politico inclinò a destra con due governi presieduti da Andreotti, il secondo con il liberale Giovanni Malagodi al Tesoro. Neppure con essi si riuscì a impostare quella politica deflattiva che gli altri paesi europei praticavano dal 1970 per fronteggiare analoghe spinte salariali e la crescita dell’inflazione che ne derivava, sebbene meno accentuata di quella italiana. Con la fine della convertibilità del dollaro nel 1971, che determinò poi anche quella del sistema di cambi fissi operante dal secondo dopoguerra, e dopo il primo shock petrolifero del 1973, la lira venne sganciata dal serpente europeo, appena costituito, e lasciata fluttuare sul mercato dei cambi, subendo in breve una svalutazione del 15% e facendo ulteriormente crescere il saggio di inflazione.
Occorreva riparare all’inerzia del centro-destra e porre un freno alla svalutazione della lira. Nella VI legislatura, da poco iniziata, ritornò un equilibrio precario, ristabilendosi una maggioranza parlamentare di centro-sinistra col IV governo Rumor entrato in carica il 7 luglio 1973, che vide il ritorno di Giolitti al Bilancio, con La Malfa al Tesoro e Colombo alle Finanze. Il nuovo ministero provò a porre rimedio non solo con strumenti monetari e creditizi, ma anche con la manovra di bilancio e il controllo dei prezzi; esperimento che ebbe come fulcro proprio il ministero del Bilancio. La stabilizzazione trovò allora non solo ostacoli politico-sociali, ma anche la sfiducia dei mercati esteri. Giolitti si preoccupò del primo aspetto. La Malfa si volse a rafforzare il cambio della moneta nazionale, incaricando Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, di contrarre un primo prestito con la Deutsche Bank, poi un secondo con il Fondo monetario internazionale. Le trattative per quest’ultimo avvennero senza informare il ministro del Bilancio e comportarono condizioni assai dure, con l’inasprimento dei provvedimenti deflattivi. Giolitti si oppose in Consiglio dei ministri, chiedendo una modifica dell’accordo e La Malfa diede le dimissioni dal governo, non volendo assumersi responsabilità che politicamente non potevano essergli attribuite e che andavano ben oltre le clausole di quella bozza di accordo. Si era nel gennaio 1974 e il governo superò lo scoglio con un rimpasto interno, mentre Giolitti si accordava con Carli, al fine di dilazionare, in un lasso di tempo maggiore, i provvedimenti previsti dalle clausole fissate dal Fondo monetario. Ma erano espedienti transitori di un equilibrio politico, quello di centro-sinistra, che ormai era giunto alla fine e portava con se anche l’‘impegno socialista’ che Giolitti aveva creduto potesse essere assunto. Il governo avrebbe dato le dimissioni nel novembre dello stesso anno. Col 1975 deflagrava per l’Italia la più grave crisi economica del dopoguerra.
Da questa situazione di stallo, politica ed economica, si sarebbe usciti con le elezioni politiche del giugno 1976 in cui la DC, conseguito il 38,7%, ristabilì la sua centralità nel sistema politico e il PCI raggiunse il 34,4% ponendosi come interlocutore indispensabile per una maggioranza di governo, mentre il PSI cadeva, con il 9,6%, al suo minimo storico. Il Partito socialista, dopo le elezioni, navigò senza bussola, o meglio si attestò su due posizioni, una assai precaria, quella degli ‘equilibri più avanzati’, che rimetteva interamente l’iniziativa politica nelle mani del PCI, sostenuta dal segretario De Martino, e quella dell’alternativa di sinistra, che faceva principalmente capo alla sinistra di Lombardi. Moro nel frattempo era riuscito a ricostituire un equilibrio assai diverso, con il terzo governo Andreotti, un monocolore, che mantenne ferma la centralità democristiana nel sistema politico, con l’astensione parlamentare di tutti i partiti dell’arco costituzionale, compresi i comunisti. Fu l’ipotesi dell’alternativa di sinistra che, a cominciare da allora, Giolitti andò approfondendo. Al comitato centrale, che si tenne all’Hotel Midas di Roma nel luglio 1976 e che portò alla segreteria del PSI Bettino Craxi, Giolitti era stato considerato un possibile candidato ma, come egli stesso avrebbe testimoniato, nulla fece per conseguire questo obbiettivo (Giolitti, 1992, p. 195). Era consapevole che la scelta dell’alternativa era di lungo corso e richiedeva un diverso dislocarsi di tutte le forze politiche, incominciando dai comunisti. Proprio per questo si pronunciò avverso all’equilibrio consociativo che si era creato, per gli equivoci che trascinava con sé. Considerava le difficoltà e le responsabilità che per i socialisti quella fase della vita politica nazionale comportavano e vedeva la discrasia, di contenuti e di tempi necessari, che la scelta di alternanza costituiva, rispetto alla realtà della lotta politica in atto. Fiancheggiò dunque la nuova maggioranza del partito e nel maggio del 1977 accettò la designazione del governo italiano, prospettatagli da Craxi, a membro della Commissione della Comunità economica europea (CEE), per sostituirvi Altiero Spinelli, il cui mandato era allora scaduto, e si stabilì a Bruxelles.
Nella primavera 1978 al XLI congresso di Torino del PSI svolse una compiuta analisi sulla necessità e le prospettive di un’alternativa di sinistra. Questa sua posizione ebbe probabilmente un peso negativo quando nel luglio seguente Craxi propose e sostenne la sua candidatura per le elezioni a presidente della Repubblica. Fu La Malfa per primo a intralciarne il corso, proponendo invece Sandro Pertini che venne allora eletto, trovando riscontro nella DC e ascolto nel PCI, come mostra la lettera di rammarico che Napolitano scrisse in quella occasione a Giolitti, in cui tuttavia non nascondeva la preoccupazione del suo partito, per «la forzatura e l’aggressività di una polemica che sembra essere rivolta a ripescare nel passato possibile motivo di contraddizione e a ricercare nel presente la differenziazione per la differenziazione» (Amato, 2012, p. 167).
A Bruxelles Giolitti prese progressivamente le distanze dalla scena politica italiana e dal suo partito. Manifestò la sua posizione contraria alla tendenza implicita nell’azione politica di Craxi per riannodare l’alleanza dei socialisti con la DC, che dopo la morte di Moro si era fatta più evidente, criticando in particolare il modo in cui questi aveva gestito, nell’agosto del 1979, l’incarico di formare un nuovo governo, affidatogli da Pertini. La resa dei conti nel PSI, per l’inserimento del partito in quella che sarebbe diventata la nuova maggioranza del pentapartito, avvenne al comitato centrale del gennaio 1980, a cui Giolitti partecipò, assumendo senza convinzione i panni di un’alternativa a Craxi per la segreteria del partito, che non si sarebbe realizzata, dopo il passaggio di Gianni De Michelis e con lui di una parte della sinistra dalla parte di Craxi.
Giolitti svolse l’incarico di commissario della CEE fino al 1984, ed ebbe come capogabinetto, prima Luciano Cafagna, poi Riccardo Peresich con l’importante delega alla politica regionale e al coordinamento dei fondi strutturali: oltre il Fondo regionale, quello sociale e il FEOGA (Fondo europeo di orientamento e garanzia per l'agricoltura). Durante la sua gestione venne accresciuta la dotazione del Fondo regionale e nel 1984 si procedette alla modifica del regolamento, con il ridimensionamento delle quote fisse nazionali e il rafforzamento dei poteri comunitari, il che permise di programmarne la scelta e l’esecuzione, e ciò in linea con l’allargamento della Comunità agli altri paesi mediterranei, oltre la Grecia, la Spagna e il Portogallo.
Dopo il XLII congresso del PSI svoltosi a Palermo nell'aprile 1981, in cui Craxi aveva preso interamente nelle sue mani il partito, chiudendo ogni possibile spazio alternativo, il dissenso di Giolitti si fece più profondo. Giudicò negativamente anche l’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio, perché vedeva che l’alleanza con la DC era ‘veramente d’acciaio’ e riteneva non lasciasse spazio per impostare una politica che fosse effettivamente riformatrice. Il suo giudizio negativo su Craxi si fece sempre più determinato, fino alla pubblicazione sulla Repubblica del 20 dicembre 1992 dell'articolo-intervista a cura di Giovanni Valentini dal titolo Antonio Giolitti: vi racconto cos’è il craxismo. L’incarico comunitario gli diede modo di avere frequenti contatti e stringere amicizie con i leaders del socialismo europeo, in particolare con François Mitterrand e Felipe González Márquez, e di approfondire il tema dell’alternativa di sinistra, concepita sempre più esplicitamente di tipo ‘socialdemocratico’. Non mancò, com’era sua consuetudine, di accompagnare questa riflessione con un gran numero di letture. Prese tra l’altro impulso dalle coeve tesi del ‘neocontrattualismo’ di John Rawls per collocare il ruolo delle sinistre in un sistema che garantisse le libertà degli individui e fosse ancorato all’alternanza politica.
Quando nel 1984 lasciò Bruxelles la sua visione andava ormai oltre il PSI e prendeva in considerazione anche la necessaria evoluzione del PCI. Continuò a usare toni duri contro i ritardi di questo partito (Il percorso e la meta, in Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra, a cura di L. Balbo - V. Foa, Torino 1986, pp. 52-69), criticando in particolare il suo rifiuto di uscire dallo schema dell’‘unità nazionale’ a favore di quello dell’alternanza (La morale è un detto, la politica un fatto, in La questione socialista. Per una possibile reinvenzione della sinistra, a cura di A. Giolitti - V. Foa, Torino 1987, pp. 95-109). Con Gaetano Arfé e Giorgio Ruffolo aveva preso stretti contatti con Giorgio Napolitano per introdurre in Italia gli argomenti sostanziali della ‘sinistra europea’. Ormai idealmente fuori dal PSI (come documentato da una sua intervista a l’Unità dell'11 settembre 1985), alle elezioni politiche del giugno 1987 fu eletto senatore come indipendente nelle liste del PCI, continuando a perseguire le sue idee e le sue critiche. Non rinnovò la candidatura nel 1992, ma proseguì a battersi, anche negli anni seguenti, per un rinnovamento della sinistra e un suo approdo ‘socialdemocratico’, con partecipazione a dibattiti e scritti di cui il contributo più compiuto e meditato si trova nell’ultimo capitolo della sue Lettere a Marta pubblicate a Bologna dalla casa editrice il Mulino nel 1992.
Antonio Giolitti morì a Roma l'8 febbraio del 2010.
L'Archivio Giolitti è depositato presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco di Roma, mentre numerose sue carte sono conservate presso l'Archivio di Stato di Torino, Archivio Einaudi, s. Corrispondenze, f. Antonio Giolitti. Lettere, documenti, interventi sono altresì rinvenibili nei seguenti archivi: Roma, Fondazione Istituto Antonio Gramsci, Archivio del PCI; Ibid., Fondazione Pietro Nenni, Archivio Mauro Ferri; Archivio Nenni; Ibid., Archivio centrale dello Stato, Fondo Aldo Moro; Archivio Vittorio Foa; Ibid., Senato della Repubblica, Fondo Francesco De Martino; Ibid., Fondazione Ugo La Malfa, Fondo Ugo La Malfa; Cosenza, Fondazione Giacomo Mancini, Fondo Giacomo Mancini; Milano, Fondazione Bettino Carxi, Fondo Bettino Craxi; Ibid., Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Carte Guiducci; Firenze, Fondazione di studi storici FIlippo Turati, Fondo Riccardo Lombardi. Oltre all’autobiografia (Lettere a Marta. Ricordi e riflessioni, Bologna 1992), fondamentali per la ricostruzione della sua vicenda personale e politica sono i quaderni del periodo resistanziale, di recente pubblicati: Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-1945), a cura di R. Giolitti - M. Salvati, Roma 2015. Inoltre: Catalogo generale delle edizioni Einaudi dalla fondazione della casa editrice al 1° gennaio 1956. Catalogo ragionato delle collezioni e dei volumi con cenni storici e programmatici,Torino 1956, ad ind.; VIII Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma 1957, pp. 229-234; G. D’Amelio, La lotta politica del 1956 fra gli universitari e gli intellettuali comunisti, in Passato e presente, III (1960), 13, pp. 1704-1739; Il governo dell’industria in Italia. Testi e documenti, a cura di G. Amato, Bologna 1974, ad ind.; U. La Malfa, Intervista sul non-governo, a cura di A. Ronchey, Roma-Bari 1977, pp. 93 s.; P. Craveri, Istituzioni e sindacato nel dopoguerra, Bologna 1977, ad ind.; M. Carabba, Un ventennio di programmazione, 1954-1974, Roma-Bari 1977, ad ind.; N. Ajello, Intellettuali e PCI, 1944-1958, Roma-Bari 1979, pp. 41, 66, 83 s., 100, 383, 388, 403, 406, 425 s., 434, 436-438, 440, 442, 445, 447 s.;B. Olivi, Il tentativo Europa. Storia politica della Comunità europea, prefazione di A. Giolitti, Milano 1979, ad ind.; Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i Congressi del Partito comunista italiano, 1921-1984, a cura di F. Benvenuti, III, Venezia 1985, ad ind.; S. Dalmastro, Il caso Giolitti e la sinistra cuneese, Alba 1987; A. Vittoria, La commissione culturale del PCI dal 1948 al 1956, in Studi storici, XXXI (1990), 1, p. 139; F. Barbagallo, Il PCI dal Cominform al '56: i casi Terracini, Magnani, Giolitti, ibid., pp. 110-114; S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicna. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia 1992, pp. 67, 90, 298, 312, 335, 395 s., 411; A. Vittoria, Togliatti e gli intellettuali. 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