GLIELMO, Antonio
Nacque a Magliano Vetere, nel Salernitano, il 29 ott. 1596 da Pompeo, dottore in legge, e Giovanna Falese. Di salute cagionevole, ebbe un'infanzia travagliata da malattie (persino il suo nome di battesimo sarebbe legato a un voto fatto dalla madre al santo padovano in occasione della sua nascita) e da continui spostamenti nelle province del Regno di Napoli, ai quali era soggetta la famiglia a causa dei frequenti incarichi amministrativi svolti da Pompeo per conto del governo.
Nel 1605 lo G. si trovava in Puglia, dove perse il padre. Ritornò a Napoli insieme con la madre, che si preoccupò della sua educazione solo per pochi anni, in quanto "diversi affari domestici" - secondo la testimonianza di Lorenzo Crasso - ebbero il sopravvento e costrinsero il ragazzo, appena dodicenne, a interrompere gli studi. Nel 1614 lo G. compì un viaggio in Calabria per dare sistemazione e ordine a "negozi importanti" della sua casa, lasciati a metà dal padre a causa della sua prematura scomparsa. Assolti così i suoi doveri di primogenito, poté finalmente scegliere la sua strada e, inaugurando un nuovo corso della sua vita, entrò a far parte dell'Ordine di S. Filippo Neri.
L'ammissione dello G. nell'Ordine dei padri dell'Oratorio, fondato a Napoli nel 1586, durante il pontificato di Clemente VIII per opera di F.M. Tarugi, non fu né semplice né immediata. La decisione, maturata con molta probabilità prima del viaggio in Calabria, si scontrò con la scarsa preparazione scolastica dello Glielmo. Pare che all'esame, non sapendo spiegare un'orazione, fosse rimandato a casa. Lo G. divenne allora un diligentissimo allievo dei gesuiti di Napoli e, migliorata la sua cultura, il 16 febbr. 1616 fu finalmente accolto tra i padri della chiesa dei gerolamini.
Continuati gli studi, si addottorò in utroque iure e divenne anche lettore di filosofia e di teologia presso la Congregazione dell'Oratorio. Come sacerdote, rimediato ampiamente alle giovanili lacune, "venne da' superiori destinato ai sermoni, i quali erano così fioriti e salutevoli che numerosissimo era sempre il concorso degli uditori" (Crasso, p. 286). Il Toppi insiste sulle sue doti oratorie: "fu dotato da Dio di gratia tale nel sermoneggiare che due giorni della settimana ne' quali predicava, vedeasi la chiesa piena d'uditori d'ogni condizione: acquistò gran credito appresso i signori viceré et udito molte volte con gran sodisfazione nella Cappella" (Toppi, p. 27). Definito dal Marciano dux verbi (p. 285), lo G. alternò i sermoni presso la chiesa dei gerolamini con quelli pronunciati, in privato, nella cappella del palazzo reale; il viceré Filippo Ramiro Nuñez de Guzman duca di Medina de Las Torres e Anna Carafa erano tra i frequentatori assidui delle sue prediche.
Come teologo, lo G. fu autore di impegnativi trattati dedicati alle forme e ai modi in cui si esplicita il dogma della Trinità: Le grandezze della Ss.ma Trinità (Napoli 1639) e, postumo, Li riflessi della Ss.ma Trinità (ibid. 1646): opere stese in uno stile piano, di grande chiarezza espositiva, che riscossero un certo successo anche al di fuori degli ambienti ecclesiastici, furono stampate più volte e persino tradotte in altre lingue. Le grandezze della Ss.ma Trinità, opera giunta nel 1647 alla terza edizione per i tipi dei veneziani Giunti e F. Baba, circolò unita a un poema sacro in ottave dello G., Il diluvio del mondo, trasposizione poetica in cinque canti del racconto biblico, culminante, dopo la costruzione della salvifica arca e la sommersione delle terre, nel trionfo dell'innocenza e del bene. Un secondo poema sacro, Il calvario laureato, arrivò alle stampe incompiuto per la morte dell'autore. Per una sorta di simmetria editoriale con le Le grandezze della Ss.ma Trinità, fu pubblicato insieme con i Riflessi della Ss.ma Trinità (3a ed., Napoli 1656); nella dedica ai lettori dell'opera, scritta da un Cesare Glielmo, parente prossimo dell'autore, è l'annuncio della pubblicazione di altre composizioni in ottave sotto il titolo di Sacri allori. Composto, come Il diluvio, in ottave, Il calvario avrebbe dovuto articolarsi in venti canti, di cui ne rimangono solo cinque, l'ultimo dei quali sprovvisto di argomento. Argomento del poema è la passione di Cristo, vissuta con particolare intensità dallo G., specializzato in questo tema, già prima esercitato in una larga produzione di rime sacre, molte delle quali rimaste inedite.
Come drammaturgo, assecondando una prassi specifica degli oratoriani napoletani, presso i quali era in uso, oltre alla musica, anche il teatro, lo G. impiegò le sue capacità in senso didattico, dedicandosi all'educazione e alla formazione dei giovani, per i quali compose nel chiuso del collegio dell'Oratorio i suoi drammi spirituali e forse fu attivo anche come allestitore delle rappresentazioni. Lo G. fu il responsabile per ben quattordici anni dell'oratorio vespertino, per il quale compose "rappresentazioni spirituali così in prosa, come in versi, che esprimevano varie attioni e vite de' santi, conversioni stravaganti e maravigliose de' peccatori, trionfi di molte virtù" (Marciano, p. 286). Da perfetto discepolo di s. Filippo, fu anche autore di canzoni in musica "che da musici si cantavano nell'istesso oratorio vespertino per essere anch'esse composte dal medesimo padre" (ibid.). Per il Crasso lo G. fu il fondatore di una congregazione, che Marciano individua nella Congregazione de' giovanetti sotto il titolo di S. Giuseppe, per la quale pure compose sacre rappresentazioni e operette spirituali.
L'opera principale a cui lo G. deve la sua fama di drammaturgo è L'incendio del monte Vesuvio, uscito nel 1632 a Napoli, dopo la terribile eruzione del dicembre 1631. È una rappresentazione spirituale pubblicata con il nome dello G. solo nella seconda edizione, che vide la luce due anni dopo la prima, sempre a Napoli, presso lo stampatore Domenico Montanaro. Entrambe le edizioni sono in dodicesimo, ma la seconda, oltre a dichiarare la paternità dell'opera, taciuta dalla prima, è rivista dall'autore, che dovette affidare allo Scoriggio in gran fretta L'incendio, accolto assai favorevolmente dal pubblico napoletano. Nella dedica dello stampatore a Carlo Tappia, marchese di Belmonte e reggente decano del Consiglio collaterale, datata 26 luglio 1632, si legge: "essendomi venuto alle mani questo [frutto] presente, maturato co 'l calore della divotione (per essere spirituale) et addolcito con l'applauso di tutta la città, ho giudicato di farlo comparire alla sua tavola". Si giustifica in tal modo la pubblicazione di un'opera "spirituale", rappresentata con successo probabilmente nei teatri pubblici napoletani oltre che allestita dalla Congregazione de' giovanetti dell'Oratorio filippino.
La princeps contiene, a testimonianza e ricordo delle precedenti messinscene, cinque paginette di Avertimenti per recitare bene l'opera presente, consistenti in una serie numerata di ben diciassette disposizioni talora con valore di didascalia rispetto al testo, talaltra con fini dichiaratamente registici. Simili avvertenze, che rivelano una sensibilità musicale caratteristica del prete oratoriano ma anche una pratica di palcoscenico, testimoniano l'abitudine a scrivere per il teatro e a seguire da vicino le messinscene delle opere, ma altresì la preoccupazione che la stampa possa compromettere la riuscita scenica del suo dramma spirituale.
L'incendio del monte Vesuvio conta un numero esorbitante di personaggi, tra il Padreterno, la Vergine, il Figlio, divinità pagane, diavoli, anime di beati e di dannati, santi, allegorie di virtù e delle città distrutte, protagonisti umani. La rappresentazione, in cinque atti, articolata in scene divine e scene infernali e, come si addice al titolo, caratterizzata da terremoti, fumo e fiamme, esplosioni improvvise e torrenti di cenere e lapilli, fu concepita dallo G. come una metafora moralizzatrice, che riconduce la catastrofe del 1631 a un disegno divino. Il pubblico, colpito dalla furia distruttrice del Vesuvio e stordito ancora dal suo orribile rombo, riviveva sul palcoscenico la sua esperienza, esorcizzando la paura collettiva grazie all'intervento misericordioso di Maria Vergine, come prevedeva il suo culto, propagandato negli stessi anni a Napoli presso le classi popolari soprattutto dai domenicani.
Oltre all'Incendio, lo G. è autore di altre rappresentazioni sacre rimaste manoscritte: La concettione della beata Vergine e L'annuntiatione della beata Vergine, rappresentate nel palazzo reale rispettivamente nel 1642 e nel 1643; Il schiavo del demonio, Il peccator pentito e L'elemosina, nella quale compare lo storpio devoto Quaquarchio, che si esprime in dialetto napoletano. Ma la produzione drammaturgica dello G. dovette essere di sicuro più ricca di esperienze e non limitarsi unicamente al teatro religioso. Croce lo dice autore di una farsetta, La ridicola morale, sugli ultimi giorni del carnevale. Il suo teatro lasciò una traccia importantissima tra i gerolamini napoletani: il naturale erede del G. fu Francesco Gizzio, mentre a testimoniare le sue abilità oratorie rimase il suo allievo Francesco D'Andrea.
Lo G. morì a Napoli il 19 nov. 1644.
Un mese prima era succeduto a Camillo Ragona nella carica di protonotario apostolico. I suoi funerali ebbero luogo nell'oratorio della Visitazione e l'orazione funebre fu tenuta da Antonio Di Gaeta, destinato a divenire reggente del Consiglio collaterale del Regno di Napoli. Un'incisione, stampata negli Elogi di Lorenzo Crasso, conserva il ritratto dello G., vestito da oratoriano, con un volto lungo e scarno e lo sguardo vivace.
Fonti e Bibl.: Napoli, Arch. della Congregazione dell'Oratorio di Napoli, Decreti napoletani, VI, 1, c. 157r; Libro dei defunti, n. 32, c. 13r; Ibid., Bibl. nazionale, Mss., Branc., II.A.8: C. Tutini, Cronica, c. 84v; S. Martino, I.40, cc. 1-26; I.43, cc. n.n.; I.44, cc. n.n. (contengono sacre rappresentazioni dello G. inedite); L. Allacci, Drammaturgia, Roma 1666, col. 444; L. Crasso, Elogi d'huomini letterati, II, Venezia 1666, pp. 285-288; N. Toppi, Biblioteca napolitana, Napoli 1778, pp. 27 s.; G. Marciano, Memorie historiche della Congregatione dell'Oratorio, Napoli 1693-1702, II, pp. 277-298; C. de Rosa, marchese di Villarosa, Memorie degli scrittori filippini, Napoli 1837, pp. 142 s.; B. Croce, I teatri di Napoli. Secolo XV-XVIII, Napoli 1891, pp. 130 s. e n. (la ristampa Bari 1992 reca un estratto dell'Incendio in appendice, pp. 323-328); G.B. Ceriello, Comedias de santos a Napoli nel '600, in Bulletin hispanique, XXII (1920), pp. 77-100; R. De Maio, Pittura e controriforma a Napoli, Bari 1983, pp. 13, 16, 21, 29, 63, 73, 91, 166, 192, 203 s., 212, 227-229, 233; A. Cistellini, S. Filippo Neri: l'Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, III, Brescia 1989, pp. 2227 s. e nn., 2248 n., 2303.