GRAMSCI, Antonio
(App. II, I, p. 1075)
Uomo politico e scrittore. Nuova luce sulla sua biografia e sui contenuti della sua opera è stata gettata dagli studi compiuti negli anni più recenti. Dopo una giovinezza afflitta da infermità e angustie economiche, si trasferì nel 1911 a Torino, grazie a una borsa di studio che gli permetteva d'iscriversi all'università, nella facoltà di Lettere e Filosofia. Si appassionò inizialmente agli studi di linguistica, sotto la guida del glottologo M. Bartoli, ma si legò poi ai più vivaci movimenti letterari e politici del capoluogo piemontese. I suoi studi universitari furono però rallentati da frequenti esaurimenti nervosi, mentre rinunzierà infine a laurearsi perché impegnato sempre più nel giornalismo militante (nel dicembre 1915 iniziò a lavorare nella redazione torinese dell'Avanti!, organo del Partito socialista italiano).
La sua attività giornalistica s'impose all'attenzione generale non solo per la qualità della scrittura, ma anche per lo spessore della ricerca culturale. In questo senso rimase esemplare la preparazione di un numero unico redatto nel febbraio del 1917 per conto della Federazione giovanile socialista piemontese (La città futura), dove a originali articoli di teoria e di propaganda socialista si affiancavano scritti di Croce, Salvemini e A. Carlini. In questo periodo l'influenza di Croce e della polemica antipositivistica dell'idealismo italiano traspare anche nella valutazione entusiastica della rivoluzione russa del novembre 1917, interpretata come "rivoluzione contro il Capitale" (cioè contro la versione deterministica dell'opera di Marx). Con questi orientamenti preparò poi e diresse nel dopoguerra il periodico L'Ordine Nuovo, pubblicato tra il maggio 1919 e il dicembre 1920 con il sottotitolo di "rassegna settimanale di cultura socialista"; legandosi al movimento torinese dei consigli di fabbrica il periodico voleva essere sia strumento di ricerca culturale sia organo di lotta politica. Questa esperienza si collocava, in una prospettiva rivoluzionaria, a sinistra del movimento socialista dell'epoca, ma in consonanza con altri fermenti della cultura italiana del periodo come quelli che facevano capo al neoliberalismo di P. Gobetti, che giudicò infatti positivamente l'opera del gruppo.
Nel 1921 partecipò al Congresso di Livorno che sancì la scissione del Partito socialista e la costituzione del Partito comunista; e come organo del nuovo partito diresse, ancora a Torino, L'Ordine Nuovo, diventato quotidiano (al quale collaborò anche, come critico teatrale, Gobetti). Tuttavia nei primi anni del nuovo partito la sua attività fu condizionata dalla direzione di A. Bordiga, che avendo organizzato una frazione nazionale prima della scissione aveva acquisito una posizione di preminenza, influenzando anche gran parte dello stesso gruppo torinese de L'Ordine Nuovo.
In questo periodo, nel maggio del 1922, prima del colpo di stato fascista, partì per Mosca, dove si fermò fino al novembre 1923 come rappresentante del partito italiano nel Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista. Successivamente si spostò a Vienna per preparare una nuova serie de L'Ordine Nuovo, che cominciò a uscire, come quindicinale, dal 1° marzo 1924. Poco dopo fu eletto deputato al Parlamento e poté rientrare in Italia, impegnandosi nella lotta contro il fascismo e, all'interno del partito, nell'azione organizzativa necessaria per imporre una linea politica diversa da quella bordighiana, che per il suo estremismo era entrata in rotta di collisione con le posizioni prevalenti nell'Internazionale comunista.
La linea di G., che raccolse intorno a sé un nuovo gruppo dirigente ''centrista'', prevalse poi al 3° congresso del Partito comunista d'Italia, tenuto a Lione nel gennaio 1926. Alcuni mesi dopo però i suoi rapporti con l'Internazionale comunista subirono una prima incrinatura, con la sua iniziativa di scrivere una lettera allarmata al Comitato centrale del Partito bolscevico per le divisioni interne a quel partito. Pur dando torto all'opposizione la lettera conteneva anche riserve sui metodi della maggioranza (Stalin-Bucharin), e per questo motivo Togliatti, allora rappresentante a Mosca dei comunisti italiani, ritenne opportuno non inoltrarla ufficialmente. Ne nacque una vivace polemica personale tra G. e Togliatti, rilevante soprattutto per l'insistenza da parte del primo sulla necessità di "richiamare alla coscienza politica dei compagni russi, e richiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stavano per determinare".
Il precipitare degli eventi in Italia lo distolse però da questa polemica: l'8 novembre 1926, in seguito ai ''provvedimenti eccezionali'' del governo fascista contro gli oppositori, G. fu arrestato nonostante l'immunità parlamentare e inviato prima al confino di Ustica e poi nel carcere di Milano per essere deferito, insieme ad altri dirigenti comunisti, al Tribunale speciale per la difesa dello stato. Al processo, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1928, fu condannato a 20 anni di reclusione. Destinato, per espiare la pena, alla casa penale di Turi (Bari), vi rimase fino al dicembre 1933, quando per gravi motivi di salute fu trasferito prima all'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi, sempre in stato di detenzione, in una casa di cura privata di Formia. Solo nell'ottobre 1934 venne ammesso alla libertà condizionale, e tuttavia rimase nella stessa clinica di Formia, non essendo in grado per la salute compromessa di riprendere un'attività normale. Si spense infine nella clinica Quisisana di Roma, dove era stato trasferito, sotto sorveglianza, dalla clinica di Formia.
La sua vita in carcere era stata anche amareggiata dai difficili rapporti stabilitisi con il partito che aveva diretto prima dell'arresto. In disaccordo con la linea politica adottata alla fine del 1929 su pressione del Komintern, allora in lotta non solo con il fascismo ma anche con la socialdemocrazia (definita come ''socialfascismo''), si era trovato in aperto conflitto con la maggioranza degli altri comunisti detenuti a Turi, e ciò lo aveva indotto a fare del suo isolamento la forma esclusiva della propria esistenza. Si spiega così perché la sua situazione non sia stata allora posta in discussione negli organi dirigenti operanti in esilio, con i quali i suoi rapporti furono sempre indiretti (con la mediazione dell'amico economista P. Sraffa, che lavorava a Cambridge). Tuttavia dopo il 1934, con l'abbandono della propaganda sul ''socialfascismo'' e il prevalere della politica di unità antifascista, furono intensificate le campagne di stampa internazionali per chiedere la sua liberazione.
Al di là dei riconoscimenti provenienti dai contemporanei nel corso della sua attività (Gobetti, Prezzolini, Dorso), la sua fama è legata soprattutto alla pubblicazione, nel dopoguerra, degli scritti postumi. Nel 1947 la prima edizione delle Lettere dal carcere (una nuova e più ampia edizione fu pubblicata nel 1965) trovò un'eco vastissima negli ambienti culturali più diversi. Seguirono i volumi tratti dai ''Quaderni del carcere'', nell'edizione tematica: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948), Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura (1949), Il Risorgimento (1949), Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno (1949), Letteratura e vita nazionale (1950), Passato e presente (1951). In più volumi furono poi raccolti gli scritti giornalistici del periodo pre-carcerario. L'ordine sistematico scelto nella prima edizione dei Quaderni, con il raggruppamento redazionale delle note gramsciane per argomenti e temi omogenei, rendeva più immediatamente accessibili i contenuti dell'opera, ma non metteva in luce i suoi nessi interni e il filo conduttore seguito dall'autore nel suo lavoro.
Questo compito si è posta invece l'edizione critica dei Quaderni del carcere, pubblicata in quattro volumi nel 1975, a cura di V. Gerratana, secondo l'ordine dei manoscritti integrali così come sono stati lasciati dall'autore, ma con un ampio apparato di note e indici e con il riscontro delle fonti utilizzate. È stato così possibile seguire il ritmo di sviluppo della ricerca gramsciana attraverso la prima stesura di note appuntate in quaderni miscellanei e poi riprese e in alcuni casi sviluppate nella seconda stesura dei quaderni ''speciali'' da cui l'autore si riproponeva di ricavare dei saggi indipendenti connessi tra di loro, ma non un lavoro organico d'insieme (come sembrava suggerire la prima edizione tematica).
Punto di partenza della ricerca è l'ordine d'idee abbozzate in un saggio sulla questione meridionale scritto prima dell'arresto, con l'analisi del rapporto città-campagna e delle alleanze di classe nella società italiana dei primi decenni del secolo. L'analisi si allarga e si approfondisce nel lavoro dei Quaderni con lo studio della funzione degli intellettuali nella storia d'Italia. È una ricerca complessa e originale, perché la nozione di ''intellettuale'', nella sua funzione di coagulo della formazione di ogni blocco storico, è allargata oltre i limiti tradizionali, in una visione che estende il concetto stesso di Stato inteso non più solo come ''società politica'', organo di coercizione giuridica, ma come intreccio di società politica e ''società civile'', dove l'egemonia di un gruppo sociale si esercita attraverso le organizzazioni cosiddette private come Chiesa, sindacati, scuole e altri strumenti di direzione culturale.
Questo impianto teorico, che ha al centro il concetto di ''egemonia'', porta anche a una nuova interpretazione della caduta dei Comuni medievali e della loro incapacità di superare la fase economico-corporativa dello stato, per il carattere cosmopolita degli intellettuali italiani e per l'assenza in essi di una funzione popolare-nazionale. Nello stato moderno invece l'esercizio dell'egemonia consente alle classi dominanti di ottenere il consenso delle classi subalterne, sia con l'energia delle rivoluzioni di tipo giacobino sia attraverso diverse forme di ''rivoluzione passiva'': con questo termine mutuato da V. Cuoco viene indicato un processo di rivoluzione-restaurazione o di ''rivoluzione senza rivoluzione'', come quello illustrato nella storia italiana del Risorgimento dove i moderati riescono a esercitare la loro egemonia sul Partito d'Azione.
Una particolare forma di rivoluzione passiva è considerato in questa analisi anche il fascismo, visto non solo nei suoi aspetti repressivi ma anche nei suoi sforzi economico-sociali di modernizzazione in rapporto al fenomeno dell'americanismo e del fordismo, altro filone indagato con costanza analitica nei Quaderni. In questo quadro storiografico trova posto la visione politica di una strategia rivoluzionaria fondata sul passaggio dalla ''guerra manovrata'' e dall'attacco frontale alla ''guerra di posizione'' idonea alle condizioni dell'Occidente, dove l'esercizio dell'egemonia è affidato alla conquista del consenso in tutte le principali articolazioni della società civile.
Legata a simile strategia è la riflessione su due temi ricorrenti nei Quaderni: il problema del rapporto tra Machiavelli e Marx (e sorge da questa riflessione l'idea di un partito come moderno Principe) e la prospettiva di uno sviluppo del marxismo come filosofia della prassi nei suoi rapporti con il senso comune e con le correnti culturali del mondo moderno. La stretta connessione di questi temi risulta ancora più evidente nella successione dei manoscritti originali come sono riprodotti nell'edizione critica, nella ricchezza delle sue implicazioni e dei problemi lasciati aperti dallo stesso autore. Per questo si tratta di temi che potevano servire da stimolo a nuove ricerche e sono stati infatti discussi a lungo, anche in altri paesi.
Traduzioni dell'edizione critica dei Quaderni si sono avute in Francia (Parigi, Gallimard), America latina (Messico, Ediciones Era), Germania (Amburgo, Argument), Stati Uniti (New York, Columbia University Press). Una puntuale testimonianza della diffusione del pensiero di G. nel mondo è nella Bibliografia gramsciana presentata al Congresso internazionale di Formia nell'ottobre 1989: vi sono registrati più di 7000 titoli in 27 lingue.
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