Antonio Graziadei
Antonio Graziadei è stato, all’inizio del Novecento, il massimo esponente del ‘revisionismo marxista’ in Italia, con la sua proposta di sostituire alla teoria del valore-lavoro una considerazione aggregata del sovrappiù/profitto in termini fisici. È stata questa una proposta che potrebbe addirittura collegarsi (ma la questione è controversa) alla successiva impostazione di Piero Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci (1960). Ma Graziadei ha pure dato un deciso contributo alla formazione del prezzo in caso di ‘sindacato industriale’, anticipando tematiche, poi sviluppate nella teoria dei ‘mercati imperfetti’, che solo le vicissitudini della sua biografia politica hanno impedito che venissero adeguatamente riconosciute.
Antonio Graziadei nasce a Imola il 5 gennaio 1873 da antica famiglia ferrarese, elevata a nobiltà nel Settecento dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Laureatosi in legge a Bologna nel 1894 con una tesi su Il capitale tecnico e la teoria classico-socialista del valore, discussa con Tullio Martello, nel 1899 pubblica La produzione capitalistica, che è il risultato degli studi compiuti presso il Laboratorio di economia politica di Torino, in cui si critica la teoria marxiana del valore-lavoro, da sostituirsi con un calcolo economico nei termini materiali di «prodotto necessario» (salario) e «sovraprodotto» (profitto).
Una monografia sul mercato internazionale del nitrato sodico (Saggio di una indagine sui prezzi in regime di libertà e di sindacato: l’industria del nitrato sodico dal 1880 al 1902, 1902) gli vale nel 1903 la nomina a docente di economia politica presso l’Università di Cagliari, con passaggio a Parma nel 1910 per l’insegnamento di scienza delle finanze.
Iscritto al Partito socialista dal 1893, è da posizioni riformiste che si oppone alle tesi del ‘sindacalismo rivoluzionario’, entrando nel 1910 in Parlamento per il collegio di Ravenna, quello che era stato di Andrea Costa. Tra 1910 e 1912 svolge un ruolo preminente nelle lotte tra braccianti e mezzadri per la gestione delle macchine trebbiatrici, sostenendo la tesi della proprietà cooperativa mista in La questione agraria in Romagna. Mezzadria e bracciantato (1913).
Se ambiguo tra neutralismo e interventismo è il suo atteggiamento durante la Prima guerra mondiale, sposa invece con passione la causa della Rivoluzione sovietica partecipando nel 1921, insieme ad Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, alla fondazione del Partito comunista d’Italia. È quindi da deputato comunista che si oppone al fascismo, ma nel 1924 viene ‘scomunicato’ dalla Terza Internazionale per le tesi espresse in Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica: critica alla teoria del valore di Carlo Marx (1923), in cui delinea la possibilità di uno sfruttamento capitalistico anche a danno dei consumatori, e nel 1928 è espulso dal PCd’I per «viltà e tradimento della causa del proletariato» (Galassi 1986, p. 625).
Privato dal fascismo del mandato parlamentare e della cattedra universitaria, si chiude in un isolamento politico e trova consolazione soltanto nello studio, che resta intensissimo (La rente et la propriété de la terre, 1931; Le capital et la valeur. Critiques des théories de Marx, 1936, trad. it. 1947; Le crisi del capitalismo e le variazioni del profitto, 1940). Nel settembre del 1945 è riammesso nel neonato Partito comunista italiano, ed entra a far parte della Consulta nazionale, ma senza essere eletto nella successiva Assemblea costituente. Reintegrato anche nell’insegnamento, per la cattedra di economia agraria dell’Università di Roma, continua a divulgare le proprie idee (attraverso Le capital et la valeur, cit.; Pluslavoro e plusvalore. Economia marxista e realtà capitalistica, 1952) fino alla morte, che lo coglie a Nervi il 10 febbraio 1953.
Non era ancora uscito il terzo volume di Das Kapital (1894), in cui Friedrich Engels doveva offrire la soluzione marxiana (comunque errata) della contraddizione tra lo scambio teorico ai valori-lavoro rispetto allo scambio di fatto ai prezzi di produzione, che Achille Loria dimostrava nella sua Analisi della proprietà capitalista (1889) l’impossibilità di misurare il valore delle merci secondo il lavoro contenuto quando nella produzione sono impiegati anche beni-capitali. Se in questo caso, a detta di Karl Marx, si sarebbe dovuto aggiungere al lavoro ‘vivo’ dei salariati il lavoro ‘morto’ che in precedenza aveva prodotto quel «capitale tecnico» (giusta la denominazione loriana), per Loria ciò non era esatto, perché al valore λt della quantità Qt della generica merce t-esima doveva imputarsi, oltre al lavoro ‘di oggi’ Lt, il lavoro ‘di ieri’ LKt capitalizzato al saggio del profitto r per il periodo di produzione del capitale tecnico (diciamo un anno), così che Qtλt=Lt+LKt(1+r).
Ne seguivano le spiacevoli conseguenze che il valore della merce prodotta superava la somma del lavoro ‘vivo’ e ‘morto’ (a dimostrazione che il lavoro non era più l’unica fonte del valore) e che il saggio del profitto, invece di farsi determinare dal valore, contribuiva a determinarlo, richiedendo di essere conosciuto in via preventiva con un’analisi che non poteva avere più alcun collegamento con il valore-lavoro. Al riguardo, Loria adottava la teoria del costo di produzione, per cui ogni merce vale la somma anticipata del salario (quantità di lavoro Lt per salario unitario w) e del capitale tecnico Kt capitalizzata al saggio del profitto per il periodo d’anticipazione (diciamo un anno): Qtλt=(Ltw+Kt)(1+r)=Ltw(1+r)+Kt(1+r).
Ma da questo semplice svolgimento non risultavano forse due distinti fattori di profitto, il lavoro salariato, per il quale si poteva ancora parlare di sfruttamento, e il capitale tecnico, che si presentava dotato di virtù propria di valorizzazione?
Era su quest’ultimo punto che il giovane Graziadei non concordava. E così,
ciò che noi abbiamo tentato di fare e che segna il nostro punto di separazione dal Loria è stato di svolgere le virtuosità rinchiuse nella sua intuizione e di dimostrare con l’esperienza che l’analisi del profitto può e deve realmente compiersi all’infuori del valore (La produzione capitalistica, 1899, p. IX)
senza tuttavia abbandonare l’idea che il profitto è conseguenza dello sfruttamento dei lavoratori. Allo scopo, si richiedeva però una precisa scelta del punto d’osservazione: se lo sfruttamento è di classe, il problema va considerato a livello di sistema economico nel suo complesso, e non per singola impresa, come alle volte anche Marx aveva scorrettamente indicato. Soltanto un approccio per totalità d’imprese è infatti capace di mettere in luce le relazioni materiali che legano fra di loro i grandi aggregati economici, e quindi le classi sociali. Come sarà detto ne Le capital et la valeur,
quando non solo ci si voglia formare una idea più completa di certi problemi della vita delle singole aziende, ma si desideri esaminare gli aspetti più generali dei fenomeni economici, bisogna considerare l’attività complessiva e simultanea di tutte le imprese, riportare gli individui alle classi a cui appartengono, e le classi alla società; ricorrere insomma a quella che chiameremo la concezione per totalità di imprese ... (colla quale) il concetto stesso di vita economica si trasferisce dalle singole famiglie alle classi e all’intera società, vista come un sol tutto. (trad. it. 1947, p. 153)
A livello di totalità di imprese cadono però le considerazioni d’ordine singolare, come i prezzi o i valori di scambio, e resta il fatto materiale evidente che dal processo di produzione scaturiscono
solide masse di prodotti che, se non hanno ancora l’investitura di un valore, hanno in compenso la qualità positiva di soddisfare a concreti bisogni umani (La produzione capitalistica, cit., p. 20).
È questa quantità complessiva di merci che le classi sociali si distribuiscono, e siccome «la classe lavoratrice consuma una parte sola di ciò che produce» (p. 223), allora quel prodotto complessivo va a dividersi
in due parti principali: quella destinata alla stessa classe lavoratrice e quella destinata alla classe che è proprietaria dei mezzi di produzione, con cui l’altra lavora. La prima di tali parti va a costituire il fondo di consumo della classe lavoratrice e forma il prodotto necessario collettivo, o l’insieme dei prodotti necessari; la seconda va a costituire il fondo di consumo della classe capitalistica propriamente detta e forma il sovraprodotto collettivo, o l’insieme dei sovraprodotti (Le capital et la valeur, cit., pp. 51-52).
È da questa visione della «economia grandiosa delle due classi sociali» (La produzione capitalistica, cit., p. 13) che Graziadei arriva quindi a ricavare una relazione distributiva complessa tra salari e profitti che sfuggiva al marxismo. Egli ipotizza per semplicità che non ci siano beni-capitali:
l’analisi completa dei fenomeni che ci interessano dovrebbe contenere lo studio del processo produttivo e del profitto sulla base del capitale-salari e poi lo studio del processo produttivo (e del profitto o meno) sulla base del capitale tecnico; [tuttavia] il presente volume non si occupa che del primo problema: considera cioè la genesi del profitto dal solo capitale-salari (p. IX).
Il prodotto complessivo Q non può comunque spettare integralmente ai lavoratori, che ne debbono lasciare una parte ai capitalisti, così che nei termini del prezzo di produzione di tutte le merci, si avrà: Qp=Lw(1+r).
Ricordando poi che w/p=ω è il salario reale unitario e Q/L=π è la produttività del lavoro, ne deriva la formula del saggio del profitto r=(π/ω)−1 che giustifica il conflitto distributivo che oppone la classe dei lavoratori a quella dei capitalisti, dato che gli uni ci guadagnano solo se gli altri ci rimettono.
Però qui si va ben oltre quel marxismo ‘miserabilista’ per cui il proletariato è condannato al livello salariale della sopravvivenza, perché intanto il salario dipende «dalla maggiore o minore preponderanza della classe capitalista sulla proletaria» (p. 4), che può essere ridotta quando i lavoratori si presentano organizzati in partito e sindacato, ma poi anche perché nella formula è presente la variabile della produttività del lavoro, che dimostra come incrementi del salario reale possono essere sopportati dal profitto quando compensati dall’incremento della produttività. E siccome la produttività del lavoro è stimolata dall’aumento del salario reale, ecco apparire quel circolo virtuoso che dava ragione alla politica degli alti salari che le statistiche documentavano in atto nei Paesi capitalistici più sviluppati e che invece il marxismo ‘miserabilista’ non arrivava a comprendere. Infatti gli alti salari possono essere convenienti ai capitalisti se diventano l’occasione per un lavoro più produttivo, perché meglio pagato, con ricaduta economica nell’aumento (e non nella diminuzione) del saggio del profitto:
Quando si riconosca che la produzione sociale è una quantità variabile e che, in un dato stadio dell’evoluzione economica, se ne può ottenere un aumento col mezzo di una intensificazione del lavoro – intensificazione che si raggiunge alla sua volta mediante un elevamento dei salari – riesce ovvio, allora, che tale elevamento, accrescendo l’intera massa dei prodotti, e perciò anche la parte di questa che forma il consumo dei capitalisti, diventa conciliabile coll’interesse dei medesimi in quanto rappresenti la causa di un aumento del profitto (p. 122).
E così Graziadei, all’alba del Novecento, pur dall’osservatorio arretrato dell’Italia pregiolittiana intravedeva la cifra di sviluppo della successiva belle époque nella quale il movimento operaio avrebbe dovuto entrare ideologicamente attrezzato, senza più pessimismi da valore-lavoro, ma con l’ottimismo della produttività.
Però non è paradossale che, con simili idee ‘revisioniste’, Graziadei sia poi finito tra i fondatori del Partito comunista d’Italia? Niente affatto, se la sua visione economica viene applicata a un diverso momento storico che giustificava quel suo passaggio all’estremismo politico più radicale. Tutto sta nel distinguere la formulazione teorica, che è generale, dall’applicazione concreta, che invece è sempre specifica, come peraltro precisato fin dal 1899: se vi è una possibilità di convergenza tra capitalisti e lavoratori,
noi ci guardiamo bene dal negare l’esistenza di un antagonismo tra salario e profitto, nel senso che il profitto sia qualcosa di diverso da una parte del prodotto dell’operaio. Neghiamo soltanto che siffatto antagonismo presenti sempre una tale forma aritmetica per cui un aumento del termine salario non possa mai verificarsi che con una corrispondente diminuzione del termine profitto (La produzione capitalistica, cit., pp. 122-23).
L’armonia è quindi possibile, ma solo in presenza di una produttività capace di bilanciare la crescita dei salari, e comunque
un giorno la classe operaia, nella sua lenta ma continua ascensione, esigerà un tale elevamento economico che non potrà essere compensato da un aumento ulteriore della sua produttività, e che quindi non potrà più conciliarsi coll’interesse dei capitalisti (pp. 128-29).
Ora un simile momento era giunto, ma non per effetto della pacifica ascesa del mondo del lavoro (che avrebbe potuto essere ‘digerita’ da una società civile più matura), bensì come conseguenza traumatica della Grande guerra del 1914-18. I lavoratori, che vi si erano sacrificati, uscivano dalle trincee rivendicando, a partire dalla Russia sovietica, le fabbriche agli operai e la terra ai contadini, ma non essendoci nella stretta congiuntura del dopoguerra alcun margine di produttività per soddisfarli, cessavano le compatibilità distributive e si apriva l’unico spazio dell’antagonismo più duro, quello del Manifest der Kommunistischen Partei (1848), che «contiene l’unica parte vitale oggi, più vitale che mai, della dottrina politica e sociale di Carlo Marx» (cit. in Maurandi 1999, p. 58), quella per cui il salario può crescere soltanto schiacciando il profitto.
Ma se in Europa si era aperto un periodo rivoluzionario, nel quale le rivendicazioni operaie colpivano «fatalmente ed immediatamente il profitto e la rendita del proprietario o dell’industriale» (p. 58), questi ultimi non potevano che reagire applicando a proprio vantaggio quella stessa relazione distributiva
con la disoccupazione, con la diminuzione del salario monetario, con l’aumento della giornata di lavoro, con la rottura dei concordati solennemente stipulati a suo tempo (p. 60).
Lo scopo era quello di ridurre il salario a «funzione del profitto» (p. 60), come stava selvaggiamente praticando in Italia il fascismo, a cui solo si opponeva il movimento socialista e comunista.
Eppure la repressione salariale avrebbe potuto non bastare se non vi si fosse aggiunta un’altra variabile ben più subdola, al cui disvelamento analitico Graziadei doveva dedicare Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica: critica alla teoria del valore di Carlo Marx (1923) e Il prezzo ed il sovraprezzo in rapporto ai consumatori ed ai lavoratori (1925), i due libri che, incompresi a sinistra, gli costarono la condanna da parte della Terza Internazionale e la cacciata dal Partito comunista.
Ovviamente la produzione capitalistica non ha termine con lo sfruttamento materiale di classe, perché le merci prodotte devono poi venire vendute sul mercato. E qui subentra la visione per singola impresa, perché soltanto dall’incontro delle domande e delle offerte individuali si perfeziona quel prezzo che conclude il rapporto di sfruttamento. A questo proposito, l’analisi di Marx era rimasta carente, sebbene non si potesse
pretendere che Marx, la cui attività come economista va dal 1846 al 1883, avesse quelle idee che dovevano rappresentare il risultato di uno sviluppo scientifico successivo (Le capital et la valeur, cit., p. 285).
Però di questo sviluppo Graziadei era ben consapevole, essendosene interessato fin dall’alba del Novecento per giungere a conclusioni assolutamente sconvolgenti.
Quando sul mercato imprenditori e consumatori si confrontano nella compravendita delle merci, la convenienza a produrre è data dal cosiddetto margine d’impresa, ossia dal sovraprezzo monetario che risulta
dalla differenza che si apre tra un certo prezzo più grande (prezzo di vendita) ed un certo prezzo più piccolo (prezzo di costo) (Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica, cit., p. 206).
Ora, la teoria economica ortodossa aveva stabilito che sul mercato perfettamente concorrenziale quel margine finiva per annullarsi a seguito della progressiva caduta del prezzo di vendita fino al prezzo di costo. Graziadei però dubitava che si raggiungesse mai tanto limite, perché un margine minimo l’imprenditore lo deve pur guadagnare per restare sul mercato. Ma se nel prezzo di costo va computato anche un saggio ‘normale’ del profitto per il capitale (proprio o di prestito) impiegato, il prezzo di mercato concorrenziale di lungo periodo ptm finisce per livellarsi al prezzo di produzione pt, per cui Qtptm=Qtpt=(Ltw+Kt)(1+r), ed è quindi su quel margine, pari al saggio del profitto, che incombe la minaccia di diminuzione per la libertà d’ingresso di altre imprese che, accrescendo l’offerta di merci, possono ridurre il prezzo di mercato addirittura al di sotto del prezzo di produzione.
Come reagirebbero allora gli imprenditori? A Graziadei sembrava difficile che essi potessero rialzare il margine riducendo i costi, perché
la discesa dei prezzi di vendita tende in generale a procedere con un ritmo e una misura che sono più che proporzionali a quelli secondo cui procede la diminuzione dei costi (Le crisi del capitalismo e le variazioni del profitto, cit., p. 98),
sicché a loro non restava altro rimedio che sopprimere la concorrenza dal mercato mediante la costituzione di sindacati industriali (cartelli, trust ecc.) che sono le
organizzazioni mediante le quali un numero più o meno grande di imprenditori, sostituendo alla mancanza di una reciproca intesa una unità di azione più o meno completa, controllano, in un momento e sopra un mercato determinati, una parte più o meno grande della produzione e dell’offerta relativa [...] allo scopo di aumentare in definitiva il proprio margine (Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica, cit., p. 181).
In che modo? Portando «i prezzi di vendita ad un livello assai più alto che non in condizioni di libera concorrenza» (Il prezzo ed il sovraprezzo in rapporto ai consumatori ed ai lavoratori, cit., p. 47) così che per Qtptm>Qtpt sia Qtptm=(Ltw+Kt)(1+mt), con mt>r.
Ma di quel margine, superiore a quello concorrenziale e diverso per ogni imprenditore a seconda del grado di monopolio che può esercitare sul proprio mercato, chi finisce per fare le spese se non il consumatore, «qualunque sia la classe sociale alla quale esso compratore appartiene» (p. 25)? Sono infatti costoro le vittime finali del capitalismo, così che lo sfruttamento complessivo viene a dipendere
non soltanto dal trattamento che l’imprenditore fa agli operai e agli impiegati (cercando naturalmente di tenere basso il salario e di prolungare la giornata), ma anche e contemporaneamente dal trattamento che le condizioni di mercato gli permettono di fare al consumatore (vendendogli più o meno cara la merce) (Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica, cit., p. 221).
E se il primo è lo sfruttamento materiale di classe, il secondo costituisce uno sfruttamento mercantile aggiuntivo, e
soltanto l’abitudine di non vedere, attraverso a teorie parzialmente errate, se non uno dei due fatti, e precisamente quello che si riferisce ai rapporti fra gli imprenditori e gli operai, può produrre l’illusione ottica per la quale l’accertamento del secondo sembrerebbe annullare o compromettere il riconoscimento dell’altro (Il prezzo ed il sovraprezzo in rapporto ai consumatori ed ai lavoratori, cit., p. 38).
Ma qui la questione si faceva politica, perché il riconoscimento dello sfruttamento dei consumatori,
anziché indebolire la critica socialista o comunista, non potrà non giovare ad esse, in quanto tenderà a far solidarizzare con talune delle loro tesi anche quelle medesime classi medie (Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica, cit., p. 233)
che il fascismo era stato così abile ad attrarre sulle sue posizioni reazionarie. La Rivoluzione sovietica aveva vinto nella Russia arretrata per l’alleanza strategica degli operai con i contadini, ma in una società più complessa come quella italiana il movimento operaio aveva perso la partita perché era mancata l’unione con quei ceti sociali
i quali, vendendo la propria merce lavoro sotto condizioni particolari e ad un imprenditore speciale (impiegati dello Stato) oppure vivendo di un lavoro per il quale non dipendono direttamente da alcun imprenditore (piccoli proprietari, artigiani, ecc.) avvertono la realtà economica assai più sotto l’aspetto della compera delle merci propriamente dette che non sotto quella della vendita – da essi non effettuata – della loro merce lavoro (Il prezzo ed il sovraprezzo in rapporto ai consumatori ed ai lavoratori, cit., p. 39).
Come fare allora per riconquistarli alla causa del movimento operaio? Se
una delle caratteristiche del Comunismo come scuola politica è proprio quella di riconoscere l’importanza anche dei ceti medi che lavorano, e di cercare, sotto condizioni determinate, di dare soddisfazione anche ai loro interessi ed ai loro sentimenti (p. 39),
allora alle consuete parole d’ordine proletarie a sostegno del salario dovevano aggiungersi anche quelle della difesa dei consumatori dai rincari di monopolio imposti dai sindacati industriali.
Restava inevasa la questione delle macchine e del loro effetto sulle classi sociali? All’argomento Graziadei si era interessato fin dalla tesi di laurea, prendendo le distanze dalla teoria valore-lavoro perché inconcludente proprio al loro riguardo: se le macchine come lavoro ‘morto’ non producono plusvalore, perché i capitalisti le introducono sostituendo il lavoro ‘vivo’ che invece il plusvalore lo crea? La stessa esistenza del capitale tecnico non è forse «la prova migliore che esso non contraddice agli interessi di coloro che lo applicano, che non li priva, cioè, di un profitto» (cit. in Gallegati 1982, p. 159)? Se materialmente
la macchina è uno strumento che produce una quantità di merci molto maggiore di quella che è necessaria alla sua creazione e al suo mantenimento [ciò è la prova che] il capitale tecnico viene a produrre, non meno del capitale salari, un profitto (p. 160).
La dimostrazione è banale: a fronte di un prezzo di produzione della merce t-esima senza macchine Qtpt=Ltw(1+r), se con l’impiego del capitale tecnico K risulta una produzione materialmente superiore Q΄tpt=(Ltw+Kt)(1+r), con Q΄>Q, allora l’incremento di valore della produzione è tutta conseguenza di quel capitale tecnico, perché (Q΄t−Qt)pt=Ltw(1+r)+
+Kt(1+r)−Ltw(1+r)=Kt(1+r).
Risulta questa la conclusione che Graziadei riprende nel 1926, in La teoria del valore ed il problema del capitale ‘costante’ (tecnico), a conferma che
il capitale tecnico si adotta solo in quanto il suo concorso permetta di ricavare un prodotto maggiore – anzi, in generale, incomparabilmente maggiore – che col solo capitale salari (p. 67).
Però egli adesso ne enfatizza la conseguenza sociale estrema. Se l’aumento della produttività non è più motivato dalla crescita dei salari (come quando si produce senza beni-capitali), ma dalla sostituzione di macchine a lavoro, l’effetto è una disoccupazione tecnologica che potrebbe portare un giorno al risultato aberrante, già sollevato nell’articolo Le teorie del valore di Carlo Marx e Achille Loria («Critica sociale», 16 novembre 1894, pp. 347-49), in cui
[se] tutto il lavoro compiuto ora dall’uomo fosse surrogato dall’opera delle macchine, queste, con una quantità di merci relativamente piccola, ne produrrebbero una quantità enormemente maggiore» e la classe capitalistica arriverebbe a godere «per sé sola» dell’intera «differenza tra il prodotto e il consumo delle macchine (La teoria del valore, cit., p. 84).
Ora, non si capisce come mai Benedetto Croce, replicando all’articolo del 1894, abbia potuto deridere questa estrapolazione come la «semplice ipotesi del Paese di Cuccagna» (Materialismo storico ed economia marxista, 1900; rist. 1968, p. 136), quando tutto vi gira invece all’incontrario. Una società in cui non ci sia più occupazione, perché tutte le merci vengono prodotte dalle macchine, è piuttosto una società della barbarie in cui, afferma Graziadei,
i re del capitalismo manterrebbero i loro diritti con una sicurezza resa tanto maggiore dalla radicale scomparsa di ogni pretendente alla successione e la civiltà capitalistica segnerebbe veramente il suo definitivo trionfo (La teoria del valore, cit., p. 84).
Tuttavia resterebbero in vita quei lavoratori condannati dalle macchine a un’inazione senza riscatto, e quindi «resterebbe la lotta fra gli uomini per la ripartizione di quei prodotti» (p. 41). Ma questa non sarebbe più la lotta tra le classi sociali alla maniera di Marx, bensì la lotta senza remissione tra chi ha e chi non ha.
La produzione capitalistica, Torino 1899.
Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica: critica alla teoria del valore di Carlo Marx, Milano 1923, 2a ed. ampliata sulla 1a ed. tedesca (Berlin 1923) Torino 1924.
Il prezzo ed il sovraprezzo in rapporto ai consumatori ed ai lavoratori, Roma 1925.
La teoria del valore ed il problema del capitale ‘costante’ (tecnico), Roma 1926.
Le capital et la valeur. Critiques des théories de Marx, Paris-Lausanne 1936 (trad. it. Firenze 1947).
Le crisi del capitalismo e le variazioni del profitto, Milano 1940.
Pluslavoro e plusvalore. Economia marxista e realtà capitalistica, Genova 1952.
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P. Favilli, Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1892-1902), Napoli 1980, passim.
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M. Gallegati, Capitale tecnico e teoria del valore. La tesi di laurea di Antonio Graziadei, «Quaderni di storia dell’economia politica», 1983, 2, pp. 151-62.
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