GREPPI, Antonio
Nacque il 4 febbr. 1722 da Gabriele e da Elena Piatti. Il luogo di nascita non è documentato con certezza. La famiglia, appartenente dal XV secolo al ceto dei cittadini di Bergamo, risiedeva a Cazzano Sant'Andrea in Val Gandino, dove possedeva beni, cosicché è plausibile che il G. vi abbia avuto i natali, ma l'atto di battesimo non è stato reperito. I Greppi avevano stretto legami matrimoniali con famiglie nobili della zona, quali i Giovannelli e i Palazzolo di Brescia. Il G. sposò nel 1743 Laura Cotta, di famiglia ascritta al consilierato della città di Bergamo; tra 1744 e 1749 nacquero dal matrimonio sei figli maschi (Giuseppe, Marco, Giacomo, Alessandro, Paolo e Pietro) dei quali solo l'ultimo, detto Pierino, morì in giovane età. Pur godendo dei proventi di proprietà fondiarie la famiglia, che si qualificava come mercantile, era impegnata nel commercio all'ingrosso di lane e tessuti; nella prima metà del XVIII secolo intratteneva rapporti di affari con le più importanti case della Val Gandino e del Bergamasco, operava in tutto il territorio della Repubblica Veneta (in particolare a Brescia, Verona e Venezia) e in Lombardia.
Entrato poco più che ventenne nella ditta paterna, il G. si distinse per intraprendenza e intuito, divenendo in breve procuratore generale e curatore dei rapporti con i clienti esteri. Accrebbe notevolmente il giro d'affari, facendo del padre un fornitore e finanziatore dell'esercito asburgico.
In quegli anni si combatteva la guerra di successione austriaca e Gian Luca Pallavicini, dal 1745 ministro plenipotenziario in Lombardia e poi governatore (1750-53), giunto a Milano col compito di reperire fondi per l'esercito, si scontrava con una realtà segnata da speculazioni e abusi. La conclusione del conflitto permise al governo di Vienna di avviare in Lombardia una grande stagione di riforme amministrative ed economiche; primo obiettivo era il risanamento della finanza pubblica, razionalizzandola per liberare la Camera dal peso dei debiti contratti durante la guerra e consentire la progressiva redenzione delle regalie alienate.
L'affidamento delle principali gabelle in un'unica compagnia fu la soluzione ideata dal Pallavicini: per formare una società capace di rilevare l'appalto della ferma generale dello Stato di Milano egli si rivolse al G., forte della dinamicità e delle molteplici relazioni della ditta paterna ma soprattutto dell'estraneità alla realtà milanese dove radicati interessi economici e pregiudizi di ceto ostacolavano l'operato dei riformatori.
Sostenuto, anche finanziariamente, dal plenipotenziario il G. riuscì a formare la nuova compagnia, che il 5 maggio 1750 firmò una prima scrittura sociale grazie alla quale la Camera si assicurava un terzo degli utili e un prestito di due milioni di fiorini per liquidare i vecchi impresari. Una nuova sovvenzione richiesta alla compagnia mutò tuttavia i termini del contratto, di durata novennale, che nella scrittura definitiva del 9 genn. 1751 vedeva l'interessenza camerale ridotta a un ottavo e la rinuncia dell'amministrazione a ogni ingerenza nella conduzione dell'impresa. Firmatari insieme con il G. - che, come rappresentante regio con funzioni di controllo sulle attività della ferma stessa, assunse fin dall'inizio una posizione preminente - furono R. Rottigni e G. Pezzoli, titolari di ditte commerciali della Val Gandino, A. Bettinelli, ricco mercante cremonese, e G. Mellerio, provveditore del Rimplazo durante la guerra, originario della Val Vigezzo. Nel 1757 il contratto venne anticipatamente prorogato per i sei anni successivi alla scadenza, in cambio di un vistoso anticipo richiesto da Vienna, dove v'era necessità urgente di nuovi fondi a causa della guerra dei Sette anni (1756-63). Nel 1761 il G., il Mellerio e il Pezzoli si aggiudicarono anche la gestione della ferma di Mantova e Bozzolo. Nel 1764 la corte nominò una giunta incaricata di stilare i nuovi capitoli per la ferma mista, in cui la Camera avrebbe goduto del terzo di interessenza cui aveva dovuto rinunciare nel 1750; l'appalto venne vinto ancora dai tre, con un nuovo socio, P. Venini, la cui compagnia venne preferita per l'affidabilità dimostrata in precedenza e per la benevolenza con cui a corte si guardava ai fermieri, anche grazie a favori, sovvenzioni e regali di cui erano stati prodighi. Rappresentò la Camera nella amministrazione della nuova società Pietro Verri. Nel 1770 i tempi parvero maturi per il definitivo passaggio dell'amministrazione dei dazi alla conduzione regia; si decise quindi di sciogliere anticipatamente il contratto con i fermieri. Questi accondiscesero, sicuri di accrescere così il favore di cui godevano presso la corte, che li gratificò con un sostanzioso indennizzo e la promessa di future ricompense.
Il G. partecipò dunque alla stagione delle riforme teresiane come fermiere generale, al vertice di una società che, anche grazie alla sua abilità, si impose come un potere intermedio tra principe e sudditi. Svolse un ruolo importante nella razionalizzazione del settore delle imposte indirette e nel risanamento economico dello Stato, ma soprattutto fu con la corte nella battaglia contro l'oligarchia patrizia e i tradizionali gruppi finanziari che ostacolavano il rinnovamento. Se da un lato il G. tutelava gli interessi della propria compagnia, anche conducendo una severa lotta contro frodi, esenzioni e privilegi, dall'altro la sua funzione era equiparata a quella di un pubblico ufficiale, ruolo che lo rese una figura di primo piano nel mondo della finanza milanese ed elemento prezioso per la monarchia asburgica. Confermano la fiducia che la stessa Maria Teresa riponeva in lui gli incarichi diplomatici che gli furono affidati: nel 1757 fu consulente della corte per un trattato commerciale con la Santa Sede; nel 1780, come delegato regio, firmò un trattato tra Lombardia, Ducato di Modena e Granducato di Toscana per l'apertura della nuova strada dell'Abetone (da Pistoia a Modena), perno del collegamento tra i paesi gravitanti nell'orbita asburgica.
Accorto uomo d'affari, il G. a partire dalla metà degli anni Sessanta impiegò le risorse dei fermieri per finanziare nuove iniziative nel settore manifatturiero e importanti prestiti a privati. Nello stesso periodo cominciò anche a impiegare i cospicui guadagni ottenuti nella gestione della Ferma, diversificando gli investimenti.
Acquistò importanti proprietà terriere, tra le quali le corti di Sermide e Ostiglia nel Mantovano, in società con Mellerio e Pezzoli, e le tenute di Santa Vittoria nel Reggiano e di Rubiera nel Modenese; finanziò la creazione di tre case commerciali ad Amsterdam, Amburgo e Cadice, impiegandovi i figli Marco, Giacomo e Paolo dapprima come apprendisti, poi come soci e amministratori; impegnò i suoi capitali in un'intensa attività di prestiti pubblici e privati. Dotato di disponibilità, credito sulle principali piazze, buone informazioni e importanti relazioni il G., conclusa l'esperienza della Ferma, guidava un'impresa capace di operare su scala mondiale, una "ditta" che F. Braudel paragonò, in condizioni mutate, a una moderna banca d'affari (Braudel, 1981, pp. 383 s.). Alla attenta cura dei suoi interessi egli univa d'altra parte "una signorilità nel tratto e una liberalità assai rara nel ceto mercantile" (Capra, 1984, p. 292); seppe così assicurarsi la stima e la fiducia di Maria Teresa, di Francesco III di Modena e della regina di Napoli, Maria Carolina d'Asburgo Lorena, di ministri come C. Firmian, plenipotenziario a Milano dal 1758 al 1782, e W.A. Kaunitz, cancelliere dal 1753. Protettore e mecenate di intellettuali e artisti, il G. fu amico di letterati quali Metastasio, G. Baretti e G. Parini; lavorarono per lui a Cernusco sul Naviglio, dove nel 1769 acquistò una villa, L. Vanvitelli e G. Piermarini e a Milano, nel palazzo signorile di via S. Antonio, ancora il Piermarini insieme con il Parini, A. Appiani e M. Knoller, che vi curarono gli interventi figurativi.
Il 28 dic. 1770 il G. fu nominato consigliere della Camera dei conti, organo di nuova istituzione per la supervisione delle operazioni delle amministrazioni regie e pubbliche. Egli incarnava il modello di "funzionario ideale", devoto e competente, che la monarchia asburgica era riuscita a imporre nel corso degli anni Sessanta grazie a un processo di radicale riforma delle istituzioni locali. Anche nell'esercizio di questa carica il suo operato corrispose alle aspettative della corte. Nel quadro di un'azione di governo che recepiva il nuovo indirizzo di politica economica liberista e fisiocratico affermatosi in Europa, che in Lombardia si traduceva nel sostegno allo sviluppo e all'espansione produttiva, il G. partecipò attivamente al dibattito sulle materie della riforma, fornendo consulenze sul commercio, le strade, le monete e l'annona.
Tra i suoi compiti vi fu anche quello di stendere, per diversi anni, il bilancio generale dello Stato di Milano e di Mantova. Nel 1779 chiese e ottenne "l'onorifica giubilazione" e gli subentrò il figlio Marco, già dal 1773 consigliere della Camera dei conti. Tuttavia la rinuncia agli incarichi pubblici non impedì alla corte di ricorrere ancora ai suoi servigi, rivolgendosi a lui non solo in quanto esperto banchiere ma anche nominandolo suo rappresentante in questioni delicate come la vendita a Pio VI (tra 1784 e 1785) dei beni allodiali della Mesola, nel Ferrarese, di pertinenza dell'imperatore.
Come protagonista della vita economica e politica del Ducato il G. aveva ottenuto nel 1757 la cittadinanza milanese, prima tappa d'una ascesa sociale con caratteri tradizionali: l'accumulo di una grande fortuna, l'investimento parziale in proprietà terriere, l'assunzione di un importante ufficio pubblico e l'acquisto di palazzi e ville, simboli della ricchezza e del prestigio raggiunti. L'integrazione nel ceto aristocratico, modello per la classe dirigente nella società di antico regime, non aveva d'altra parte per il G. solo un significato di promozione sociale, ma comportava anche l'opportunità di accrescere il prestigio della casa e il credito del quale godeva nel mondo degli affari; la rapidità con cui seppe condurre la famiglia al vertice d'una élite arroccata nella difesa dei propri privilegi testimonia la lucidità con cui interpretò gli elementi di conservazione e novità nella società milanese della seconda metà del XVIII secolo, legando la sua fortuna al successo in Lombardia della politica riformatrice della monarchia asburgica.
Nel 1774 presentò al tribunale araldico di Milano, di recente istituzione, una documentata supplica nella quale enumerava le prove di nobiltà generica e specifica della famiglia e ricordava gli alti servizi resi alla monarchia, ciò che mostra come, nel mutato clima culturale, ci si muovesse verso una concezione della nobiltà come classe privilegiata al servizio del re. Il 10 sett. 1774 il tribunale ordinò l'inserimento della famiglia nel catalogo delle nobili e quello del suo stemma gentilizio nel codice araldico. Fu invece Vienna a concedere al G., nel 1778, il titolo di conte e feudatario di Bussero e Corneliano, nel 1780 quello di cavaliere dell'Ordine di S. Stefano d'Ungheria e, nel 1785, di commendatore dello stesso Ordine, quali riconoscimenti dei servizi resi.
All'inizio degli anni Ottanta il G. fu all'apice della fortuna e del successo. Lo stesso P. Verri che, facendosi interprete del malcontento nei confronti dei fermieri, era stato suo avversario tenace e ne aveva denunciato la collusione con i potenti, mutava giudizio e scriveva al fratello Alessandro: "Greppi è il solo che io abbia conosciuto il quale, avendo ammassata una grande ricchezza, abbia sempre avuto l'animo magnifico e signorile, ed è il solo uomo che, immerso negli affari importanti, non ha perduto l'energia e la sensibilità di cuore. Egli è bene presso la corte, e bene presso la città; molti lo vogliono arbitro delle loro differenze" (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, X [1° luglio 1778 - 29 dic. 1779], a cura di G. Seregni, Milano 1939, p. 117).
Deciso a consolidare lo status raggiunto e a sancire l'appartenenza della sua famiglia all'élite nobiliare, il G. assunse a partire dal 1779, quando acquistò la proprietà ex gesuitica della Galliavola, in Lomellina, un nuovo indirizzo nella gestione del patrimonio familiare. Attuando un progressivo disimpegno dei capitali destinati alle attività commerciali, che non comportò tuttavia l'abbandono definitivo degli investimenti nel settore, si dedicò con crescente interesse alla gestione delle sue aziende agricole, rafforzando la propria condizione di rentier. Tuttavia seguitò a muoversi al confine tra il mondo aristocratico, al cui modello si adeguava, e quello mercantile delle origini. Portò così nell'agricoltura la capacità imprenditoriale di cui aveva dato prova nella gestione della Ferma generale e, prendendo a esempio l'opera dei grandi affittuari della zona pianeggiante e irrigua della Lombardia, fece delle sue proprietà, e in particolare di Santa Vittoria, imprese con una spiccata vocazione capitalistica. L'importanza che ai suoi occhi rivestivano, dal punto di vista sociale e da quello economico, gli investimenti nell'agricoltura è evidenziata dal testamento che redasse nel giugno del 1783, nel quale indicò nella terra l'investimento più vantaggioso e sicuro e invitò i figli Giacomo e Paolo ad abbandonare definitivamente la pratica del commercio, proibendo loro, una volta concluse le esperienze di Amburgo e Cadice, di partecipare alla gestione di nuove ditte. Ebbe il medesimo significato di adesione alla cultura e ai costumi nobiliari un'altra importante clausola dello stesso atto, che istituì un fedecommesso a favore del ramo primogenito, quindi del figlio Marco (il figlio maggiore Giuseppe, sacerdote, vi aveva rinunciato), che di lì a poco si sarebbe unito in matrimonio con Margherita Opizzoni, di famiglia nobile pavese, garantendo così il futuro della casa.
Ritiratosi a Santa Vittoria nel 1787, deciso ad allontanarsi dagli impegni e dalle fatiche della vita pubblica per dedicarsi esclusivamente agli interessi familiari, dall'anno successivo il G. seguì con trepidazione le notizie che giungevano dalla Francia, informato con crescente partecipazione dal figlio Paolo, che tra 1788 e 1792 soggiornò a Madrid, Parigi e Vienna. Devoto agli Asburgo e profondamente legato al mondo di antico regime che andava tramontando, il G., sebbene si fosse distinto in passato come uomo aperto alla modernità, non seppe superarne i confini per aderire alle idee dell'Ottantanove. A Santa Vittoria, che lasciò solo in occasione di brevi soggiorni a Venezia e Milano, trascorse gli ultimi anni della vita guidando con mano ferma la famiglia e difendendone con determinazione gli interessi duramente colpiti dal peso delle requisizioni e delle contribuzioni nel periodo dell'occupazione francese e della Repubblica Cisalpina. Trovò conforto e prezioso sostegno in Paolo, il figlio più brillante e, senza dubbio, il suo erede spirituale.
Il G. morì a Santa Vittoria di Castelbosco di Sopra (Reggio Emilia) il 22 luglio 1799.
Fonti e Bibl.: L'Archivio storico diocesano di Milano conserva l'Archivio della nobile famiglia Greppi, che comprende le carte private della famiglia, diverse cartelle di carteggi e l'Archivio della Ferma generale. Presso l'Archivio di Stato di Milano è conservato il Dono Greppi, che raccoglie un carteggio di oltre 80.000 lettere, nonché carte della famiglia in diversi altri fondi, tra i quali: Albinaggio, p.a., cart. 16; Araldica, p.a., cart. 85; Araldica, p.m., cart. 119; Catasto, cartt. 1838, 1867 bis, 1881, 1881 bis, 1906, 1910 bis, 1939; Dispacci reali, cart. 23 (Ferma generale); Notarile, cartt. 45358, 46481, 46482, 47400, 49303, 49304, 49319, 49329, 49330, 49333; Registri delle Cancellerie dello Stato, serie I, 20, e serie XLIII, 1-12 (Camera dei conti); Rubriche notai, cartt. 1410, 1411, 3096, 3097, 3098, 3111, 3999; Uffici e tribunali regi, cartt. 807-861 (Camera dei conti). L'Archivio storico civico di Milano conserva carte della famiglia nei fondi Famiglie, cart. 790, e Località milanesi, cart. 309, oltre a documenti relativi alla Ferma generale nel fondo Materie, cartt. 340 e 379. Documenti relativi alla Ferma generale sono anche nell'Archivio di Stato di Bologna, Fondo Pallavicini, serie III e IV. Il manoscritto, di pugno dello stesso G., intitolato Storia dell'accaduto ad A. G. dall'anno 1749 rapporto alle Ferme generali della Lombardia austriaca a tutto il giorno d'oggi è conservato a Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Lombardei collectanea, f. 43. Il manoscritto de La scienza del fermiere, dove il Verri tratteggiò un ritratto del "fermiere cortigiano" ispirato al G., è conservato in Milano, Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico, Archivio Verri, cart. 391, f. 4.
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Vedi inoltre: E. Puccinelli, Il carteggio privato dei Greppi: spunti per un'analisi delle relazioni familiari ed intime tra i membri della casa, in Acme, L (1997), 1, pp. 93-116; E. Riva, Vicino alla fonte di tutte le grazie. I rapporti tra la corte di Vienna e la famiglia di A. G. nella seconda metà del Settecento, ibid., pp. 355-401; G. Di Renzo Villata, "Sembra che… in genere… il mondo vada migliorando". Pietro Verri e la famiglia tra tradizione giuridica e innovazione, in Pietro Verri e il suo tempo, a cura di C. Capra, Milano 1999 (Quaderni di Acme, 35), pp. 218-221; G. Gregorini, Pietro Verri e la Ferma generale mista: note e documenti, ibid., pp. 940-949; E. Puccinelli, Tra privato e pubblico: affari, politica e famiglia nel carteggio di A. G., in "Dolce dono graditissimo". La lettera privata dal Settecento al Novecento, a cura di M.L. Betri - D. Maldini Chiarito, Milano 2000, pp. 38-61; Enc. Italiana, Appendice I, p. 695.