GRILLO, Antonio
Nacque da Sigismondo verso la metà del sec. XIV, appartenne a una importante famiglia dell'aristocrazia genovese, di tradizionale orientamento ghibellino, costantemente presente con vari esponenti nelle principali istituzioni della vita politica della città fin dall'epoca delle origini del Comune e impegnata in una svariata gamma di attività in tutto il vasto ambito di espansione dell'economia commerciale genovese nei secoli del Basso Medioevo.
La prima attestazione documentaria reperibile dell'attività del G. risale al 22 nov. 1376, quando sul suo banco vennero versate le 1017 lire di Genova che costituivano il pagamento di 9 "luoghi" della Compera [prestito] Nova Salis effettuato dal notaio Cosmaele de Lazaro su mandato di Giovanni de Orio, abate del monastero di S. Stefano, del quale il de Lazaro era procuratore; sul banco del G. vennero regolate nella medesima circostanza anche altre operazioni finanziarie relative a "luoghi" della compera di proprietà dei monaci benedettini, rientranti nella politica di risanamento della gestione patrimoniale del monastero intrapresa dall'energico abate.
Troviamo nuovamente notizia dell'attività del banco del G., questa volta in società con Battista Lomellino, nel 1386, quando il banco dei due soci è uno fra i banchi bancheriorum civitatis che vengono deputati a ricevere il deposito delle somme necessarie all'acquisto dei castelli della Valle d'Arroscia, nell'entroterra della Riviera di Ponente, dai vari membri della discendenza dei marchesi Federico e Francesco di Clavesana.
La valle, di notevole importanza strategica per il controllo delle vie d'accesso alla Riviera di Ponente dall'entroterra piemontese, costituiva un importante obiettivo della politica espansionistica genovese, abilmente diretta dall'ambizioso doge Antoniotto Adorno. Attraverso una serie di matrimoni, il complesso dei diritti feudali gravanti sull'area, originariamente appartenenti al consortile dei marchesi di Clavesana, si era suddiviso fra più titolari: Manuele (II) di Clavesana (figlio di Federico) e Giovanni dei marchesi di Saluzzo (figlio di Argentina di Clavesana) detenevano una quota minore, mentre ben tre quarti erano di proprietà dei marchesi Manuele di Enrico e Antonio (II) di Aleramo Del Carretto, eredi dei diritti di Caterina di Clavesana. Già nel 1385 i due Del Carretto, zio e nipote, avevano ceduto al Comune di Genova la metà loro spettante del Marchesato di Finale (l'altra metà era rimasta a Lazzarino e Giorgio Del Carretto); nell'ottobre del 1386 accettarono di vendere ai Genovesi, che nei mesi precedenti avevano rilevato le quote degli altri coeredi, anche i diritti detenuti sulla Valle d'Arroscia per il prezzo di 60.000 fiorini d'oro; di questa imponente cifra, pari a ben 75.000 lire di Genova, un terzo venne pagato appunto proprio tramite il banco gestito dal G. e da Battista Lomellino. Se si considera che gli altri due terzi della cifra erano stati ripartiti fra più banchi, si può dedurre di quale considerazione politica (connessa probabilmente all'antica tradizione ghibellina della famiglia, assai legata politicamente ai Doria e agli Adorno) e di quale potenza finanziaria godesse in città il banco dei due soci. Questi, infatti, dovevano indubbiamente godere di legami privilegiati con l'entourage del doge Antoniotto Adorno il quale, interessato a costituirsi nelle terre carrettesche una propria base di potere territoriale, sicuramente affidò la gestione delle delicate questioni finanziarie connesse alle trattative diplomatiche a persone di sua assoluta fiducia.
Proprio al G. e alla sua potenza finanziaria dovette quindi rivolgersi l'Adorno alcuni anni dopo, nel momento di massima crisi del suo governo, nei mesi cioè che precedettero, in un convulso alternarsi di contatti con Gian Galeazzo Visconti e con gli emissari del re di Francia Carlo VI, la dedizione della Repubblica alla Corona di Francia. In quel momento di gravissime difficoltà finanziarie, oltre che politiche - di fronte alla necessità di attrarre denaro fresco nelle esauste casse del Comune per sostenere il proprio governo contro l'ostilità delle fazioni interne fino a quando non si fosse riusciti a condurre in porto le trattative avviate con Milano o con la Francia - il doge ricorse all'espediente di vendere al G. per il prezzo di 9000 fiorini il castello di Lerma, situato in posizione strategica nell'Oltregiogo presso Ovada, che solo nel 1385 i Doria avevano venduto al Comune per la metà di questa cifra (6000 lire di Genova, cioè 4500 fiorini d'oro). Questo accordo - che fornisce una concreta testimonianza delle possibilità economiche del G. - fu siglato il 17 sett. 1396 e indubbiamente diede una boccata d'ossigeno alle finanze genovesi, ma la sua attuazione comportò un'aperta violazione delle disposizioni statutarie che vietavano recisamente la possibilità della vendita di un castello di proprietà del Comune e impose quindi un'esplicita autorizzazione da parte del Consiglio, concessa sulla base della considerazione che le leggi devono piegarsi alle necessità.
Le polemiche interne seguite a questa vendita, del resto rapidamente retrocessa negli anni seguenti, non toccarono in ogni caso il G., il quale, dopo l'avvento della dominazione francese, ebbe modo di mettere ulteriormente a frutto i legami politici e finanziari stabiliti negli anni precedenti per assicurare l'ulteriore evoluzione dell'attività del suo banco. Nel 1386, infatti, l'Adorno era intervenuto nelle questioni del grande scisma soccorrendo il pontefice romano, Urbano VI, e offrendogli per vari mesi rifugio in Genova con la sua corte; per quanto i rapporti personali fra il collerico Urbano VI e l'ambizioso Antoniotto fossero ben presto degenerati in un tempestoso scontro, la solida fedeltà all'obbedienza romana dimostrata dai Genovesi, non intaccata neanche dalla sottomissione alla Francia, sostenitrice del papa di Avignone, e i legami indubbiamente stretti fra i membri della corte pontificia in esilio e il mondo finanziario della metropoli ligure contribuirono a dare un notevole impulso alla presenza di banchieri genovesi nelle file dei collettori papali in un momento in cui la lotta fra le contrapposte obbedienze per il controllo della Cristianità comportava assai frequentemente, oltre allo scontro di candidati delle due obbedienze per la titolarità delle diocesi, anche una sorda lotta per l'acquisizione dei proventi delle decime e delle varie collette promosse nei paesi della Cristianità per finanziare gli utopistici progetti di crociata.
Proprio in connessione al progetto fra tutti maggiormente caro alla corte di Francia - e in particolare a quel maresciallo Boucicaut che tanta parte avrebbe avuto negli anni successivi nelle vicende genovesi -, e cioè quello di organizzare una spedizione per soccorrere l'agonizzante Impero bizantino, troviamo appunto una nuova attestazione documentaria dell'attività del G., questa volta in società con Nicolò Lomellini. Una registrazione dei Registri Vaticani ci informa, infatti, che il 27 luglio 1399 fu dato mandato al G. di pagare sul proprio banco la cifra di 1000 fiorini - originariamente destinata a Morruele Cicala - a Ilario Doria, inviato dell'imperatore d'Oriente Manuele II Paleologo. Il denaro avrebbe dovuto essere prelevato dai fondi della colletta per la crociata antiturca raccolti in Occidente dal vescovo di Calcedonia e confluiti sui banchi dei collettori papali al servizio del pontefice romano Bonifacio IX.
I fondi avrebbero dovuto essere utilizzati per rimborsare le spese sostenute nei mesi precedenti da I. Doria e dagli altri inviati, i vescovi di Calcedonia e di Crisopoli, nel corso del viaggio compiuto verso i Regni dell'Occidente, dove speravano di raccogliere ulteriori fondi per l'organizzazione di una grande spedizione militare, ma evidentemente dovettero verificarsi dei problemi, o forse delle malversazioni, nei pagamenti, perché una annotazione del 31 agosto dello stesso anno nei registri contabili pontifici ci informa che il vescovo e I. Doria si sarebbero appropriati indebitamente di denaro destinato alla crociata. Non sappiamo con certezza se la somma in oggetto fosse la stessa che avrebbe dovuto essere trattata dal G., né quale parte egli possa aver avuto nella supposta malversazione.
Allo stato attuale delle ricerche questa registrazione costituisce la più tarda attestazione relativa al G. e alla sua attività di banchiere, anche se è assai probabile che questa sia proseguita ancora, per un certo tempo, senza però incrociare il percorso dei grandi eventi storici.
Del G. si ignorano il luogo e la data di morte.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Antico Comune, reg. 778 (Arociae Massaria), cc. 1v, 48v, 51v, 53v, 82v, 101v, 120v; Arch. segreto, Abbazia di S. Stefano, b. 1514, doc. 407bis; Confinium et finium ex parte, filza 3, doc. 6; Arch. segreto Vaticano, Reg. Vat., 316, cc. 216r, 234r; Libri iurium Reipublicae Genuensis, a cura di E. Ricotti, II, in Historiae patriae monumenta, VII, Augustae Taurinorum 1857, col. 1076; E. Jarry, Les origines de la domination française à Gênes, Paris 1896, p. 200; H. Sieveking, Studio sulle finanze genovesi nel Medioevo e in particolare sulla Casa di S. Giorgio, in Atti della Società ligure di storia patria, XXXV (1905-06), 1-2, II, p. 63; C. Belloni, Diz. stor. dei banchieri italiani, Firenze 1951, p. 112; A. Esch, Bankiers der Kirche im grossen Schisma, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XLVI (1966), pp. 358, 360, 391; E.P. Wardi, Le strategie familiari di un doge di Genova: Antoniotto Adorno..., Torino 1996, p. 136; E. Basso, Un'abbazia e la sua città: S. Stefano di Genova (sec. X-XV), Torino 1997, p. 121.