GUAINERI, Antonio (Gaynerius, Guainerius, de Guaineriis, de Gaineriis, de Garneriis, de Vayneriis)
Nacque probabilmente a Pavia verso la fine degli anni Ottanta o l'inizio degli anni Novanta del sec. XIV da Giorgio, cittadino pavese. Nei manoscritti e nelle stampe delle sue opere, nonché in atti ufficiali degli Studi di Padova e di Pavia, è sempre indicato come cittadino pavese.
Risulta quindi senza fondamento l'affermazione presente in alcune compilazioni erudite che fosse nato a Chieri, notizia definitivamente smentita da un documento dell'Archivio comunale di Chieri, che testimonia la concessione del permesso di abitare in Chieri, nel quale viene indicato come "Magister Anthonius Vaynerius de Papia physicus" (Castorina Battaglia, p. 1390).
Il suo corso di studi presenta notevoli punti interrogativi: i pochi riscontri documentari in nostro possesso smentiscono le date del conseguimento dei titoli accademici considerate finora certe. È noto che i sudditi del Ducato milanese erano obbligati ad addottorarsi presso lo Studio di Pavia; d'altra parte sappiamo con certezza che il G. frequentò lo Studio di Padova. Per quanto non siano pervenuti documenti che riguardano il suo conseguimento dei gradi accademici, sembra che abbia sostenuto l'esame di licenza in medicina a Padova e abbia poi ottenuto il dottorato a Pavia. I suoi rapporti con la facoltà di medicina dello Studio patavino, in particolare con Iacopo da Forlì (Giacomo Della Torre), Galeazzo di Santa Sofia e Bartolomeo Montagnana, sono suffragati da un appoggio documentario. Il G. compare infatti in alcuni atti ufficiali dello Studio di Padova: è presente, il 17 dic. 1410, all'esame di licenza in medicina di Vulpiano da Imola, promotori Iacopo da Forlì, Galeazzo di Santa Sofia e il Montagnana. In questo documento è indicato come "magistro Antonio de Papia studente in medicina" (Acta graduum academicorum…, p. 54), aveva cioè già conseguito il titolo di magister artium. Il 9 genn. 1412 presenziò all'esame di licenza e al dottorato in medicina di Giovanni Beccucci di Verona, promotori Iacopo da Forlì e Galeazzo di Santa Sofia, ed è ancora indicato come studente di medicina. Il 18 genn. 1412 era presente all'esame di licenza e al dottorato di Antonio de Scuchinelli di Soncino, promotori sempre Iacopo da Forlì e Galeazzo di Santa Sofia. In quest'ultimo documento è indicato come "magister Anthonius de Guaineriis de Papia, filius domini Georgii" (ibid., p. 95).
È probabile che il G. abbia completato gli studi e conseguito la licenza fra l'8 e il 18 genn. 1412 e che sia rientrato a Pavia non solo per il dottorato, ma anche per ottemperare alla prescrizione degli statuti pavesi del 1409, esemplati a questo proposito su quelli della facoltà medica di Montpellier, che rendevano obbligatorio un tirocinio pratico di sei mesi presso medici esercitanti la professione. In effetti il G. ricorda, con grande stima, come suoi maestri Luchino Bellocchi e Giovanni Francesco Balbo, entrambi archiatri di Filippo Maria Visconti. Ebbe subito un incarico di insegnamento presso lo Studio di Pavia: compare infatti fra i professori elencati nella lettera ducale, datata Milano 7 ott. 1412, che accompagnava l'invio del rotulo dei docenti dello Studio di Pavia per l'anno accademico 1412-13. Il G. risulta ingaggiato "ad lecturam medicinae de nonis" con lo stipendio di 120 fiorini (Maiocchi, pp. 122 s.). Al 1415 risale il decreto, suggello di un'udienza ducale concessa ai Guaineri, durante la quale furono ricevuti "Giorgio Guajnero con Antonio Guajnero medico e Paolo Guajnero figlioli di esso Georgio perdonando loro quanto haveano fatto contro lo Stato ducale" (Robolini, p. 205).
Non conosciamo la data delle sue nozze con Antonia dei conti di Meda e neppure la data della nascita dei figli, sappiamo solo, da note contenute nel secondo foglio di guardia del ms. 232 conservato presso la Biblioteca municipale di Vendôme, che sarebbero nati a Pavia e Casale. Nel suo testamento redatto a Pavia il 5 dic. 1451, presso il notaio Simone de' Fornari, attualmente non conservato fra i rogiti di quel notaio presso l'Archivio di Stato di Pavia, nomina come eredi i figli Zanone, Giorgio e Teodoro, che fu consigliere e medico del re di Francia Luigi XII (cfr. Robolini, p. 206; Castorina Battaglia, p. 1392).
Non è nota la data precisa del suo trasferimento in Piemonte, ma alcuni documenti dell'Archivio comunale di Chieri confermano le notizie del suo soggiorno piemontese. Lo troviamo nel 1415 medico comunale in Chieri, dove rimase con questo incarico fino al 1417. Sempre al 1417 risale il documento che, come si è visto, testimonia la richiesta e il permesso di abitare in Chieri, il che suggerisce l'ipotesi che il suo incarico come medico comunale abbia forse subito un'interruzione. Nel gennaio 1420 risulta al servizio dei Savoia come "phyisicus domini". Nel 1422 lo troviamo a Chambéry, ma già nel 1423 ottenne di nuovo un contratto biennale dal Comune di Chieri, col salario di 50 fiorini sabaudi l'anno. Nel 1428 fu docente presso lo Studio che da Torino era stato trasferito a Chieri. I progressi della sua carriera sono testimoniati sia dai buoni rapporti con Antonio Magliani, medico personale di Amedeo VIII, cui dedicò due delle sue opere composte in questo periodo, il De pleuresi e il De febribus, sia dal servizio presso i Savoia, prestato ora come medico personale di Ludovico, figlio di Amedeo, a seguito del quale viaggiò attraverso il Piemonte, raccogliendo con curiosità e passione notizie ed esperienze di carattere medico e naturalistico che troveranno poi voce nelle sue opere. Nel 1431 curò un prelato presente al concilio di Basilea. Nel 1432, durante un viaggio a Thonon al seguito di Amedeo VIII, ebbe occasione di curare Giangiacomo Paleologo marchese di Monferrato. Passò quindi al suo servizio e per suo incarico studiò le acque termali di Acqui, ne confermò l'efficacia terapeutica e ne consigliò l'uso al marchese afflitto da gotta e da calcoli. Nel 1435 accompagnò alle terme di Acqui Giangiacomo insieme con i marchesi Gonzaga e d'Este e un cospicuo seguito. Alla fine del 1435 tornò in Savoia e prestò la sua opera là e in varie altre zone in occasione della peste. Il 12 genn. 1442 era a Casale Monferrato per l'investitura del feudo di Montecucco, concesso dal marchese a Giorgio Solaro. Nel 1445, dopo la morte di Giangiacomo, tornò a Torino presso la corte di Ludovico, ora duca di Savoia.
Il 19 apr. 1447 fu di nuovo ingaggiato come medico comunale di Chieri con un salario annuo di 200 fiorini sabaudi, segno che il G. aveva conquistato una notevole reputazione nella sua professione. Sembra però che egli avesse desiderio di ritornare in patria, come dimostrano le dediche a Filippo Maria Visconti di due sue opere composte nel periodo piemontese, il De peste et venenis e il De aegritudinibus matricis; infatti nel 1448 era di nuovo a Pavia, membro del Collegio dei medici e artisti pavesi. Il 2 dic. 1448 nella sua casa, posta nella parrocchia di S. Michele Maggiore, presso porta Ponte, si tenne una riunione per protestare formalmente contro l'ammissione al Collegio stesso di un dottore straniero. Il G. compare anche nel documento preparatorio del rotulo dello Studio pavese per l'anno accademico 1448-49, "ad lecturam ordinariam medicine de sero", due volte, la prima con lo stipendio di 300, la seconda con lo stipendio di 325 fiorini.
La sua attività di docente è testimoniata successivamente da due documenti dello Studio pavese: il 7 maggio 1453 figurava fra i promotori della licenza in medicina di Matteo da Meda e il giorno dopo fra i promotori, all'esame in arti e medicina, di Giovanni Maria de Fabis. Non si può escludere che il G. possa essere identificato con il medico "Antonio Guayne", oggetto della lettera che il 25 nov. 1453 Agnese Del Maino inviava da Pavia alla figlia Bianca Maria Visconti, duchessa di Milano, per chiederle di ovviare alla svista compiuta inserendo il nome del medico nel rotolo dei lettori, ma non in quello degli stipendi e ricordandole che il medico, che aveva curato Agnese stessa e Galeazzo Maria Sforza, aveva rifiutato un incarico a Bologna con uno stipendio di 400 ducati. L'annotazione contenuta nel codice conservato a Madrid, nella Biblioteca de la Fundación Lázaro Galdiano, n. 653 potrebbe testimoniare, per questo periodo, una sua attività professionale anche a Milano: "Iste liber est mei Antonii Papiensis ex Guayneriis quem perdideram et in Mediolano in apotheca Johannis de Pergamo peroptimi apothecarii 1453 die quarta Julii reinveni" (Kristeller, Iter Italicum, IV, p. 589b). Il G. compare infine nel rotulo del 1455 "ad lecturam Almansoris" - vale a dire per la lettura e il commento del nono libro Ad Almansorem di ar-Rāzī, uno dei testi curriculari prescritti per il corso di medicina pratica - con la clausola di cedere il posto all'arrivo di Benedetto da Norcia. Un'ultima notizia circa la sua attività di docente ci viene ora da una nota del manoscritto conservato a Ottobeuren (Baviera), Archiv des Benediktinerstifts, n. II.356, cc. 1-2, nella quale Udalricus Ellenbog afferma di aver seguito a Pavia un corso del G. Super nonum Almansoris.
Non conosciamo la data precisa della sua morte, che dovette avvenire intorno al 1455, probabilmente a Pavia; sappiamo tuttavia che fu sepolto nella chiesa pavese di S. Michele Maggiore.
Il G. fu un medico pratico di alto profilo scientifico e di ottimo successo professionale, che rimase legato costantemente all'ambiente accademico, per quanto nella sua carriera l'esercizio della professione appaia chiaramente prevalente rispetto all'impegno di insegnamento universitario. Le sue opere testimoniano l'attività di docenza, tratto costitutivo e irrinunciabile di qualsiasi medico dotto e garanzia della sua affidabilità scientifica. Si può constatare, scorrendo i titoli così come compaiono nelle collezioni più o meno complete che, a partire dal 1473-74, vennero stampate sotto intestazioni varie - Opera medica, Practica, Opus preclarum ad praxim - che i suoi scritti (De aegritudinibus capitis; De pleuresi; De passionibus stomachi; De fluxibus; De matrice seu aegritudinibus mulierum; De arthetica passione seu de juncturis; De calculosa passione; De peste; De venenis; De febribus; De balneis; Antidotarium, a parte i trattati specialistici De peste; De venenis, De febribus, De balneis e l'Antidotarium) trattano gli argomenti tipici di una practica medievale, organizzata secondo lo schema tradizionale a capite usque ad pedem.
Le sue opere videro la luce separatamente, man mano che l'autore giudicava esauriti gli argomenti trattati, perché, come il G. dichiara all'inizio del Commentariolus de aegritudinibus capitis, desiderava conferire al suo lavoro carattere di completezza ed esaustività e non consegnare ai posteri opere incomplete, come a suo giudizio era successo spesso nel passato a molti autori, il cui lavoro era stato interrotto dalla morte. Non sempre è possibile stabilire una cronologia attendibile per la composizione delle sue opere. Al 1434 risale con certezza il De febribus, dedicato ad Antonio Magliano; è probabile che anche il De pleuresi, sempre dedicato al Magliano, risalga a quel periodo. Al 1435 risale il De balneis, mentre in base a un manoscritto datato si può assegnare a prima del 1440 la composizione del De peste et venenis, e sempre a prima del 1440 risale il De aegritudinibus matricis, dove viene ricordato come vivente Luchino Bellocchi.
Le opere del G. ebbero una notevole fortuna: stampate più volte nel corso del '400 e della prima metà del '500, sia separatamente sia come collezione, attestate anche da una discreta tradizione manoscritta, furono oggetto anche di volgarizzamenti e di traduzioni in ebraico. Esse ci restituiscono l'immagine fedele e perfino, in molti casi, vivace di quella che era la pratica della medicina dotta intorno alla metà del '400, prima che l'ondata dell'umanesimo medico, con la sua istanza del ricorso diretto alle fonti greche, mettesse in crisi la sistematizzazione medievale di forte impronta arabizzante della medicina. Prova assai significativa del valore delle sue opere e della stima che riscuotevano nell'ambito medico è la loro presenza - in stampa e in manoscritto - nella biblioteca di Nicolò Leoniceno, uno dei principali protagonisti dell'umanesimo medico.
Le opere del G., che si rivolgono a un pubblico di studenti ma anche di giovani colleghi, sono strutturate secondo i dettami classici delle trattazioni di medicina pratica, dove appunto la medicina, al livello epistemologico di ars scientifica, tratta essenzialmente delle regulae. Dopo una sezione dedicata ai nomi e alla definizione della malattia si passa alle cause, alle specie, ai segni dimostrativi, ai segni prognostici del decorso e infine alla terapia (somministrazione di farmaci e regolamentazione del regime delle sex rerum non naturalium). La premessa che il G. dedica alla terminologia della malattia trattata, passando in rassegna i vari nomi che identificano la malattia in latino, in greco, in arabo, riveste la funzione propedeutica di fornire indispensabili conoscenze del lessico tecnico e insieme costituisce un essenziale punto di raccordo con il versante teorico della cultura medica. È forse opportuno precisare che quest'interesse per la terminologia medica, che si presenta spesso come una chiave per tentare, attraverso il nome, di identificare la malattia e comprenderne l'essenza, è un atteggiamento di impronta decisamente medievale di ascendenza isidoriana, ancorato a opere come i Synonima di Simone Genovese e radicalmente diverso da quello dei medici filologi dell'umanesimo medico che, partendo dall'esigenza imprescindibile di eliminare la confusione di un lessico specialistico passato attraverso numerose fasi di traduzione, si orienteranno decisamente, grazie allo studio etimologico, verso il tentativo di una vera e propria rifondazione terminologica.
La divisione della medicina in teorica e pratica, che lo scolasticismo medico medievale aveva ereditato dalla medicina alessandrina e dalla sistemazione araba, sanzionata, nell'ambito dell'insegnamento accademico, dalla divisione delle cattedre di medicina teorica e di medicina pratica, si risolveva ancora in questo periodo nel rapporto di subalternità della pratica alla teoria. Il G. nelle sue opere, pur premurandosi sempre di seguire le regole che assicurano la collocazione dei suoi scritti e della sua attività al livello epistemologico alto della medicina pratica come ars scientifica, non dà tuttavia molto spazio a problematiche teoriche. Pur essendo sempre presente nel G. la preoccupazione di inquadrare i problemi medici e le loro prospettate soluzioni entro un quadro che assicuri il livello epistemologico alto della pratica medica, tuttavia non viene dato conto del sostrato teorico delle soluzioni proposte perché, come afferma in più occasioni, non è il luogo, quello di scritti che riguardano la pratica medica, di impegnarsi nell'esposizione di teorie naturali che costituiscono il campo specifico dei medici teorici e soprattutto dei filosofi.
A parte le numerose osservazioni personali sparse nei suoi scritti e alcuni ritrovati tecnici da lui messi a punto, quali l'uso di sonde e cannule nella rimozione di calcoli impegnati nell'uretra, o la formula dell'acqua vegeto-minerale, in seguito attribuita a Thomas Goulard, su un piano diverso, ma particolarmente interessante dal punto di vista storico, è l'estensione del concetto di sostanza velenosa - e quindi di avvelenamento - a tutte le sostanze che, una volte assunte dall'uomo, ne corrompono tutta la complessione attraverso l'azione di una certa "qualità occulta". Il G. respinge cioè la distinzione, comune all'epoca, fra veleni che agirebbero attraverso una qualità manifesta (caldo, freddo, umido, secco) e veleni che agirebbero attraverso una qualità occulta, vale a dire non riconducibile a una delle qualità manifeste, ossia a una qualità a noi sconosciuta.
Il G. dimostra grande padronanza dei testi che costituivano la tradizione consolidata della cultura medica medievale di ambito universitario. Gli autori più citati sono Avicenna, ar-Rāzī, Galeno, Ippocrate, Mesue, Serapione, Averroè, Aristotele, ma anche i maggiori autori delle generazioni precedenti, fra gli altri Alberto Magno, Taddeo Alderotti, Gilberto Anglico, Arnaldo di Villanova, Pietro d'Abano, Bernardo di Gordon, Simone Genovese, Gentile da Foligno, Marsilio di Santa Sofia. Il termine stesso commentariolus, che spesso compare nei titoli delle sue opere, se in alcuni casi sottintende l'esempio predominante seguito - per esempio ar-Rāzī nel De aegritudinibus capitis -, più spesso tuttavia è soltanto sinonimo di tractatus o di summarium, indica la volontà di sottolineare la familiare connessione del suo operare e del suo insegnamento con la tradizione di testi istituzionalmente autorevoli, che formavano il corpus della dottrina riconosciuta, ai quali si viene ad aggiungere il suo personale bagaglio di experientia che, illuminata e guidata sempre dal suo patrimonio dottrinale, gli permette di mantenere un certo grado di distacco e di indipendenza dagli autori che pure cita e utilizza. Questa sua esperienza, guidata dalla dottrina, gli consente anche di assumere, in alcuni casi, un atteggiamento critico nei confronti della spiegazione astrologica di certi fenomeni medici, pur accettando generalmente la causalità astrologica di alcune malattie e osservando i tempi astrologici nella somministrazione delle terapie.
Uno fra gli aspetti caratteristici delle sue opere è quello di dar spazio e voce anche all'eterogeneità dell'empiria; cita infatti anche i ritrovati dei praticanti vulgares, pur preoccupandosi sempre di tener ben distinti gli ambiti dell'arte e dell'operatività, per assicurare la scientificità della pratica medica. Il G. dimostra notevoli conoscenze di alchimia, ricordando rimedi alchemici e descrivendo strumenti e tecniche di distillazione, sublimazione e fermentazione. Certo è che anche nelle sue opere, come in molte altre Practicae di un'epoca in cui i limiti della cultura medica erano stati messi tragicamente in evidenza dalla sua impotenza di fronte alle ricorrenti epidemie di peste, si assiste a quella che oggi definiremmo una molteplicità di offerta terapeutica, nel cui ambito trovano posto, accanto alle terapie codificate dai testi degli autori classici, i rimedi di autori recenti, le ricette e i ritrovati di farmacisti, gemmarii e di varie altre categorie di praticanti la medicina non dotta, fino, in alcuni casi, a cure e modalità di somministrazione che rientrano nella sfera della magia, dandone in quest'ultimo caso esplicita giustificazione richiamandosi all'effetto che certi tipi di terapie e certe modalità di somministrazione avrebbero sull'immaginazione dei pazienti. A proposito di quest'ultimo aspetto va notato che il G. opta sempre, quando è possibile, per la spiegazione naturale dei fenomeni e ricorre a quelle che noi oggi definiamo spiegazioni e pratiche irrazionali solo in quei casi che non rientrano nel quadro della patologia umorale e della interpretazione qualitativa del sistema ippocratico-galenico.
Per un censimento dei manoscritti e delle stampe delle opere del G.: L. Thorndike, IV, pp. 670-677; A.C. Klebs, Incunabula scientifica et medica, Bruges 1936 (ed. anast. Hildesheim 1963), pp. 161 s.; G.W. Panzer, Annales typographici, Norimbergae 1803, VII, p. 498 n. 28; VIII, pp. 431 n. 773, 442 n. 869; M.B. Stillwell, The awakening interest in science during the first century of printing. 1450-1550, New York 1970, pp. 122 s., con ampi rimandi a bibliografia precedente.
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