JEROCADES, Antonio
Nacque il 1° sett. 1738 a Parghelia, piccolo centro nei pressi di Tropea in Calabria, da Andrea, pescatore e mercante, e dalla sua seconda moglie, Antonia Pietropaolo. Ebbe due fratelli, Vincenzo e Domenico, avviati al commercio e alla marineria, e una sorella, andata sposa a F. Mazzitelli, che assieme al fratello Antonio intratteneva rapporti commerciali con Marsiglia. Destinato alla carriera ecclesiastica, frequentò il seminario di Tropea con precoce successo, sebbene - in una finora inedita autobiografia - trent'anni più tardi, lo J. ricordasse che all'epoca i suoi "pregiati diletti" erano "il corso e la caccia, il nuoto e la pesca, talché, odiando implacabilmente la scuola e il maestro, vivea più volentieri nei monti e nei lidi" (Tigani Sava, p. 638). Versatile e pronto, si impadronì rapidamente della cultura classica e delle tecniche della composizione letteraria, sia in italiano sia in latino, in versi e in prosa, dando inizio a una ricca produzione di scritti di genere e di occasione.
Conclusi gli studi nel seminario di Tropea, nel 1759 lo J. aprì a Parghelia una scuola per i ragazzi del posto, dove, oltre a insegnare latino, italiano, greco, ebraico e francese, teneva un corso di filosofia e uno di matematica. Convinto della necessità di dare spazio alla creatività dei ragazzi, ispirandosi all'ideale di un cenacolo platonico, volle creare accanto alla scuola un'accademia, il "Giardino del lieto lavoro", nella quale, in un'atmosfera classicheggiante e arcadica, gli allievi trovassero un "onesto piacere" nel rappresentare "qualche rustico lavoretto". L'esperienza, protrattasi per qualche anno, gli servì per mettere a punto i principî della sua pedagogia, ottenendo molti consensi ma anche molte critiche.
Insofferente della vita di provincia, cercò nuovi spazi entrando in corrispondenza con A. Genovesi e con J. Martorelli. A giudicare dalla lettera indirizzatagli il 29 dic. 1764, Genovesi gli rispose cordialmente, incoraggiando il "giovane generoso" a "farsi conoscere in tutto il regno e all'Italia per lo studio di promuovere le buone cognizioni e le arti utili" (cfr. Savarese, p. 175).
Presumibilmente intorno al 1765 lo J. si trasferì a Napoli, dove, ospite per qualche tempo dello stesso Genovesi, iniziò a frequentarne la cerchia di amici e allievi, partecipando del clima di rinnovata battaglia anticuriale di quegli anni. Il Genovesi appoggiò la pubblicazione presso la stamperia dei De Simone del Saggio dell'umano sapere ad uso de' giovanetti di Paralia (Napoli 1768), per il quale redasse un favorevole parere di stampa.
Nel Saggio, definito da B. Croce "già vicheggiante", lo J., sottolineando l'importanza del rapporto tra filologia ("scienza verbale") e filosofia ("scienza reale"), espose compiutamente le linee ispiratrici della sua pedagogia, di schietto impianto genovesiano. Proponeva infatti un piano di educazione per i figli dei contadini e dei commercianti: "Qual opera maggiore d'istruire la gente nella vera maniera di vivere col menomo de' mali? Qual consiglio più efficace che quello di piantar una scuola pubblica d'agricoltura e di commercio a spese di quel denaro che si applica al mantenimento di certe opere che si credono buone e sane senza speranza di ritrarne del frutto? […] I sacerdoti sono i dottori del popolo, non i divoratori delle umane sostanze" (p. 10). Ritenendo che "si ha a meschiar l'utile al dolce" e che i "ragazzi vogliono cose e non parole" (p. 7), sosteneva che fondamento della loro educazione dovessero essere la storia, la matematica e le lingue. Nel volume, al Saggio che gli dà il titolo, seguono le Rime puerili (pp. 121-200), una silloge di "rime composte in varie occasioni e ora ai ragazzetti indirizzate". Traspare con evidenza nelle poesie della raccolta una sensuale tenerezza per quei "satiri ricciutelli" educati nel "giardino del lieto lavoro". Lo J. ipotizzò anche la stesura di un Catechismo civile, rimasto presumibilmente solo allo stadio dell'abbozzo, come risulta da una lettera inviata al fiscale della Giunta degli abusi nel 1769.
Dal 1767 al 1770 lo J. insegnò ideologia presso il collegio Tuziano di Sora; Genovesi, che gli aveva procurato l'incarico, ne seguì da lontano l'attività raccomandandogli tra l'altro, in una lettera del 27 febbr. 1768, "di non dar luogo alla calunnia, benché falsa che possa essere, imperciocché la maggior parte degli uomini non cura d'informarsi della verità delle cose e non si giudica che sopra il rumore comune" (cfr. Savarese, p. 211).
Ma i consigli non valsero a tenere a freno il temperamento dell'abate calabrese. Nel 1770, infatti, lo J. compose un Intermezzo, intitolato Pulcinella da quacchero, che fu recitato dagli allievi nell'intervallo di una composizione drammatica, e che, secondo D. Martuscelli, aveva avuto una prima redazione, mai apparsa in pubblico, come Pulcinella fatto principe, con palese sarcastico riferimento a Ferdinando IV. Nella scena decima il quacchero protagonista espone la propria dottrina. La cosa non piacque al vescovo di Sora che volle la sospensione dello J. e del rettore che aveva consentito lo spettacolo. Allo scandalo provocato dalla recita si aggiunsero, per lo J., le accuse di sodomia e di corruzione dei giovani. Fu richiesto l'intervento di B. Tanucci e fu aperta una "discreta inchiesta" su una vicenda resa complessa dai contrasti di natura giurisdizionale tra autorità statale ed ecclesiastica.
Prima che l'indagine si chiudesse, lo J. si rifugiò a Napoli e nel 1771, dopo una sosta in Calabria e a Messina, approdò a Marsiglia. Bene accolto dalle logge massoniche locali, stabilì quei contatti che col tempo si sarebbero trasformati in piena ed entusiastica adesione alla massoneria. Al rientro da Marsiglia soggiornò brevemente a Roma, come appare dalla lettera al nipote A. Mazzitelli (Esopo in Italia, ovvero Delle favole di Fedro. Parafrasi italiana, Napoli 1779, pp. 246-256; rist. ibid. 1799 e 1816-17). Gli fu consigliato di rinunciare a pubblicare la propria Apologia e di accettare invece il rientro a Sora per un periodo di "correzione" e di "quasi carcere" che, sotto la sorveglianza speciale del vescovo, si protrasse per un paio di anni, trascorsi i quali tornò a Napoli. Qui nel 1776 aprì una scuola privata di filosofia e archeologia, molto frequentata. In sempre più stretto contatto con i circoli massonici, strinse rapporti di amicizia con G. Filangieri, M. Pagano, F. Conforti, D. Cirillo, L.L. Rolli, i fratelli D. e F.A. Grimaldi, S. Mattei, D. Naselli Aragona, G. Aracri. Le sue doti di brillante improvvisatore in versi e in musica, la facile vena metastasiana delle sue canzonette lo rendevano ben accetto nei salotti e nelle conversazioni. All'epoca la massoneria napoletana - pur divisa e percorsa da conflitti, che lo J. annota e deplora - godeva della protezione della regina Maria Carolina, che rese inefficace il nuovo bando contro di essa voluto nel 1775 dal Tanucci, di cui provocò l'anno seguente l'allontanamento dal governo.
In questi anni, soprattutto nel periodo trascorso nel 1775 nella terra natia, lo J. si diede a un'intensa attività di composizione di liriche destinate a confluire nelle raccolte stampate successivamente, a cominciare da Gli amori di Fileno e Nice (Napoli 1777; poi 1812, 1820-21). Seguirono Le parabole dell'Evangelio. Parafrasi (ibid. 1782). Lo J. si dedicò ai volgarizzamenti anche di altri testi classici perché convinto che "i primi maestri de' popoli sono stati i poeti e gli storici, la prima scuola il tempio e il teatro, il primo istituto la religione […]. L'umano sapere non era allora che favola o, come diceva Vico, lingua reale" (p. 104).
I miti antichi e le parabole sono dunque la veste allegorica di cui lo J. riveste il suo maggiore impegno: la diffusione del verbo massonico. Infatti, a Napoli nel 1783, pubblicò la prima edizione della Lira focense (rist. ibid. 1785, 1790, 1820; a Milano nel 1809, a Cosenza nel 1812 e da ultimo a Foggia, nel 1986, da cui si cita) e il Paolo o Dell'umanità liberata (Napoli 1783). La Lira deve il suo titolo alla ripresa della tradizione secondo la quale i Focensi, esuli, fondarono colonie a Marsiglia e a Parghelia, accomunate nella adesione alla massoneria. Nelle liriche in essa raccolte lo J. esprime compiutamente, con un linguaggio in codice, la sua visione di una umanità destinata a una vita armoniosa e serena, fondata sull'amicizia, la "fratellanza", la libertà. Tale prospettiva palingenetica compare nel quadro di una "Cosmonomia" fondata su una visione panteistica della natura che eternamente ripete il suo ciclo vitale. Nello J. la visione dell'andamento ciclico e catastrofico della natura, e di conseguenza della storia degli uomini, ha le sue radici nella tradizione gnostico-ermetica, ripresa da molti altri intellettuali napoletani, rivissuta tuttavia nel contesto della società contemporanea, e si proietta nell'utopia del ritorno dell'età dell'oro, immagine salvifica di un mondo nuovo in cui si è fondato "il tempio di Sofia" (p. 140). Questo auspicio tuttavia non è esente da paure e incertezze, dalla sensazione di una crisi imminente, e lascia trasparire l'attenzione alle circostanze concrete della situazione reale del tempo. Argomenti e accenti analoghi tornano nel poema che è stato definito la vera "epopea della massoneria", il Paolo o Dell'umanitàliberata, in dodici canti in ottave, in cui lo J. ripercorre l'avventuroso viaggio di Paolo di Tarso da Messina a Roma, passando per Malta e la Grecia, per predicare la parola di Cristo, ostacolato da Satana e protetto dall'arcangelo Michele, fino all'incontro con Pietro e al vittorioso scontro con Simon Mago, facendone l'allegoria del trionfo del verbo massonico. Lo J., in tale percorso, ritaglia un posto anche per se stesso quale "vate" il cui avvento è profetizzato durante una sosta di Paolo a Parghelia.
Il catastrofismo millenaristico dello J. parve tragicamente confermato dal terremoto che si abbatté sulla Calabria nel 1783. Colpito negli affetti amicali (Orazione recitata ne' funerali solenni di M. Accorinti morto a Messina nel terremoto de' 5 febbr. 1783), lo J. commentò la tragedia con Il terremoto del Capo (1783), attaccando con violento sarcasmo il capitolo di Tropea e l'interpretazione del disastro come castigo divino per le colpe degli uomini, cui il volgo risponde con vane preghiere.
Nel 1784 lo J. partì per il suo secondo viaggio a Marsiglia, dove intensificò i rapporti con le logge massoniche locali, traendone nuovi impulsi per l'attività di proselitismo. Stese così il Codice delle leggi massoniche ad uso delle logge forensi, Neapoli [ma Parghelia] 1785 (Stolper, pp. 601-619), in cui sono minutamente descritte la struttura delle logge e le leggi che ne devono regolare l'attività. Tra il 1785 e il 1790 lo J. visse a Napoli dove diede alle stampe una serie di opere: Inni di Orfeo esposti in versi volgari (1785), Gl'Inni della Chiesa romana esposti in versi volgari (1787), Il Quaresimale poetico ad uso delle coloniefocensi (1787), Le Odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari (1790). Nel 1788 partecipò con M. Pagano, D. Cirillo, D. Tommasi alle celebrazioni per la morte di G. Filangieri, evocando con accenti commossi l'amicizia fraterna e gli ideali comuni in La gloria del saggio e L'ombra di Filangieri (Napoli 1788).
La sua attività fu oggetto dei violenti attacchi di F. Spadea che, nella Antilira focense o Dialoghi con cui si rende ravveduto unmassone o libero muratore (Napoli 1789), decodificò il linguaggio massonico dello J., accusandolo di "fatalismo, materialismo, ateismo, panteismo, naturalismo". A sua volta lo J. si difese con la Gigantomachia (Napoli 1789). Nello stesso anno fece un terzo viaggio a Marsiglia, dove seguì la convocazione degli Stati generali a Versailles attraverso le notizie fornitegli dall'amico C. Valdier. Rientrato a Napoli, fece un viaggio a piedi fino al suo paese, di cui resta traccia affettuosa nella memoria dell'allora giovanissimo G. Rodinò.
Nel 1790 il governo, allarmato dalla diffusione della massoneria in Calabria, inviò L. de' Medici sul posto per un'indagine. Nella sua relazione al ministro J.F.E. Acton, il visitatore segnalava l'attività delle logge di Tropea e di Catanzaro, dicendole dipendenti da quelle di Marsiglia e fondate dallo Jerocades. Non fu, però, preso alcun provvedimento; quanto allo J., l'attenzione riservatagli dal governo non gli impedì di ottenere nel 1791 la cattedra di filologia presso l'Università di Napoli, per la quale scrisse una Orazione intorno alla concordia della filosofia e della filologia per l'apertura della nuova scuola della storia filologica (Napoli 1792), da porsi in rapporto con il contemporaneo Disegno delle parti della filosofia corrispondenti alle parti della filologia secondo il piano di Bacone e di Vico. L'anno seguente passò sulla cattedra di economia e commercio che era stata del Genovesi, cui dedicò l'Orazione per l'apertura della scuola di economia e commercio, rimasta inedita.
A partire dalla Rivoluzione francese, l'attività dello J., come di molti altri intellettuali napoletani, si rivestì di toni esplicitamente politici. Nel casino di Capodimonte, e poi in casa di D. Bisceglia, lo J. tenne periodiche riunioni durante le quali si facevano "discorsi continui de' processi de' Francesi, de' giacobini, di rivoluzione e degli abusi del governo di Napoli colla necessità delle riforme, eccitando del fermento negli animi della gioventù" (Pedio, p. 73). La sua esposizione pubblica culminò nella partecipazione al banchetto offerto ai giacobini napoletani dall'ammiraglio L.R. Le Vassor de Latouche-Tréville nel gennaio 1793 sul vascello Languedoc. Nel corso del ricevimento lo J. improvvisò un Inno alla partenza, in cui esaltava la rivoluzione e che gli costò il confino nel convento dei padri giuliani di S. Pietro a Casarano, sulle alture di Cardinale, in provincia di Catanzaro, fino al 1794. Appena liberato, fu coinvolto nell'inchiesta sulla congiura che fece capo a E. De Deo.
Per quanto l'episodio sia rimasto relativamente oscuro, pare dimostrato che lo J., interrogato in carcere, facesse i nomi di alcuni implicati, in particolare di F. Conforti e dell'abate T. Monticelli. Successivamente G. Pepe e G. Rodinò attribuirono la delazione a una momentanea debolezza dell'abate vecchio e malato, sulla cui credibilità restò comunque più di un'ombra. Di nuovo confinato a San Pietro a Casarano, lo J. non rinunciò alle proprie idee, stringendo rapporti con i giacobini locali. Durante il periodo repubblicano accolse con un'orazione entusiastica il passaggio nel territorio di Cardinale delle truppe comandate da A. Spanò, inviate a contrastare il cardinale Ruffo. Caduta la Repubblica, lo J. scontò queste manifestazioni con una ulteriore detenzione nel carcere dei Granili a Napoli, dove ebbe compagni di pena G. Pepe, G. Rodinò e il nipote A. Mazzitelli, ufficiale della Marina fedele all'ammiraglio F. Caracciolo.
Liberato dalla prigionia, partì per Marsiglia dove trovò rifugio presso i parenti Mazzitelli e seguì da lontano la tragica sorte di molti amici e del nipote Andrea, condannato a morte nel febbraio 1800. Per intercessione del cugino L. Mazzitelli, nel settembre 1801 ottenne il permesso di rientrare in patria, purché il soggiorno a Napoli non superasse i tre giorni. Dopo un lungo e laborioso viaggio raggiunse finalmente Parghelia. Ma le peripezie dello J. non erano ancora finite. Infatti, venuto a morte il fratello Vincenzo, ne scrisse un elogio funebre (Napoli 1801), il cui contenuto parve politicamente sospetto alla curia vescovile di Tropea, che ordinò il ritiro definitivo dell'abate nella casa dei padri liguorini della stessa città.
Qui lo J. si spense, come risulta dall'atto di morte, il 25 nov. 1803.
Fonti e Bibl.: Molti manoscritti inediti dello J. e documenti che lo riguardano sono conservati in archivi e biblioteche pubblici e privati (Arch. di Stato di Napoli, Biblioteca nazionale e Biblioteca della Società napoletana di storia patria; Catanzaro, Biblioteca comunale, Fondo della famiglia Jerocades-Collace di Parghelia), mentre numerosi altri sono andati dispersi. A oggi il più completo e organizzato regesto delle opere manoscritte, edite e inedite, e della letteratura su di lui è quello di F. Tigani Sava, A. J.: contributo bibliografico, in La Calabria dalle riforme alla Restaurazione. Atti del VI Congresso storico calabrese, Catanzaro… 1977, Salerno-Catanzaro 1981, II, pp. 635-713. Tali indicazioni bibliografiche vanno comunque integrate con: Antonio Genovesi. Autobiografia e lettere, a cura di G. Savarese, Milano 1963, ad ind.; N. Cortese, Il Mezzogiorno eil Risorgimento italiano, Napoli 1965, pp. 103-106; E. Stolper, La massoneria settecentesca nel Regno di Napoli, in Riv. massonica, LXVI (1975), parte III, pp. 525-534; parte IV, pp. 601-617; P. Minervini, La lingua dell'abate massone A. J. nei suoi scritti editi ed inediti, Napoli 1978; E. Chiosi, Andrea Serrao. Apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981, pp. 75 s., 300 s., 333; M. Cataudella, A. J.: aspetti di letteratura giacobina in Calabria, in Per una idea di Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese. Atti del Convegno… 1981, a cura di P. Falco - M. De Bonis, Cosenza 1982, pp. 72-88; G. Mazzitelli, Due calabresi nel XVIII secolo, Savona 1985; T. Pedio, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Bari 1986, pp. 70-86, 92-95, 252, 269, 307-318, 350, 485; A. J. un abate poeta in loggia. La Lira Focense, a cura di A. Piromalli - G.S. Bravetti, Foggia 1986; V. Ferrone, I profeti dell'illuminismo…, Roma-Bari 1989, pp. 207-211, 269-277; G. Giarrizzo, Massoneria e illuminismo nell'Europa del Settecento, Venezia 1994, pp. 348, 390-395.