LORENZINI, Antonio
Nacque a Montepulciano nel 1514, da Domenico, in una famiglia di agiate condizioni economiche. Sulla sua giovinezza non si hanno notizie, se non che studiò diritto civile e canonico presso l'Università di Siena.
All'inizio degli anni Quaranta entrò al servizio del cardinale Marcello Cervini, uno degli uomini di punta della riforma cattolica, che allora stava avviando un'intensa azione di governo pastorale.
A quella data il L. non aveva offerto particolari manifestazioni di impegno religioso e, probabilmente, fu scelto solo in quanto conterraneo del Cervini. La scelta si dimostrò, tuttavia, accorta. Il L. fu, infatti, un collaboratore fedele e affidabile, sia come segretario e maestro di casa sia come esecutore di incarichi politico-religiosi. La sua attività fu a tratti molto intensa e si svolse in tutte le diocesi governate dal Cervini, anche se, allo stato attuale delle ricerche, è difficile individuare i casi in cui il L. si limitò a un ruolo di mero esecutore e quelli in cui svolse un'attività più autonoma.
La prima esperienza di governo pastorale del L. si svolse tra il 1540 e il 1544, periodo in cui il Cervini fu vescovo di Reggio Emilia. All'indomani della nomina, Cervini decise di intraprendere una complessiva riorganizzazione della diocesi, affidandosi a diversi collaboratori: il vicario episcopale, Ludovico Beccadelli; il gesuita Giacomo Lainez e il Lorenzini. Proprio il L. iniziò, il 7 febbr. 1543, una visita pastorale della diocesi, conclusa il 26 maggio. Seguendo le indicazioni del vescovo il L. si mosse su una linea che anticipava le future disposizioni del concilio di Trento, cercando di imporre ai parroci l'obbligo di residenza, di garantire il decoro dei luoghi sacri e la regolarità nell'amministrazione dei sacramenti, acquisendo, inoltre, informazioni sulla vita morale del clero e del laicato. I dati raccolti da lui furono poi alla base degli statuti emanati dal Cervini nella seconda metà del 1543, che seguivano il modello, ormai affermato, di quelli emanati a Verona da Gian Matteo Giberti. L'attività svolta nella visita della diocesi garantì al L. la stima del suo vescovo, che non venne meno neanche quando egli fu accusato di detenere libri lutherani: un'accusa che non va letta come il riconoscimento di tendenze eterodosse, ma che va piuttosto collocata nella particolare temperie degli anni Quaranta del Cinquecento, in cui cominciavano a essere perseguiti comportamenti che fino ad allora non avevano suscitato particolari diffidenze.
Conclusa l'esperienza reggiana, la vita del L. rimase a lungo intrecciata con quella del Cervini. Nel maggio 1545 il L. si trovava al concilio di Trento in qualità di maestro di casa del Cervini, e lavorò a stretto contatto con il segretario del concilio, Angelo Massarelli, con cui strinse forti legami di amicizia. In quel periodo, tuttavia, il L. si allontanò spesso da Trento, per adempiere ad alcune missioni per conto del suo protettore e per seguire una serie di vertenze relative alla diocesi di Gubbio, conferita al Cervini nel febbraio del 1544. Nell'autunno del 1545, per esempio, il L. si recò a Roma e fece ritorno a Trento solo nel gennaio 1546.
Intorno al 1548 il L. abbandonò Trento per prendersi carico dell'amministrazione della diocesi di Gubbio, che suscitava più di qualche preoccupazione. Oltre a soffrire dei disordini tipici delle strutture ecclesiastiche pretridentine, la diocesi era paralizzata da un aperto conflitto tra l'autorità vescovile e quella di un preposito locale, Galeazzo Beni, che con l'appoggio di alcuni canonici, aveva assunto l'ufficio di vicario generale al posto del candidato nominato dal Cervini, impadronendosi dell'amministrazione dei beni ecclesiastici. Per acquisire la piena disponibilità della diocesi, il Cervini dovette iniziare una causa giudiziaria presso la Sacra Rota, che si rivelò particolarmente complessa a causa delle protezioni di cui godeva il Beni, membro di un'antica famiglia eugubina e amico del cardinale Federico Cesi e dell'uditore di Rota Tommaso Tani. Nel frattempo, il L. avviò una serie di misure punitive nei confronti dei canonici, con uno zelo giudicato a tratti eccessivo dallo stesso vescovo. Con la progressiva soluzione della vertenza, il L. poté coadiuvare il Cervini in un'attività pastorale via via più intensa, culminata nel sinodo diocesano del 1549, che sancì un profondo rinnovamento della vita religiosa locale.
La collaborazione del L. con il Cervini fu sempre molto stretta e non coinvolse solo le attività di governo pastorale. In molti casi il L. curò gli interessi privati del Cervini, per esempio sovrintendendo alla costruzione della villa di Vivo d'Orcia, che la famiglia Cervini realizzò a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento.
Non si dispone di molte notizie sulla vita del L. negli anni intorno alla metà del Cinquecento. Probabilmente restò a fianco del Cervini che in quel periodo operò a Roma e a Gubbio alternando le attività pastorali con gli impegni in Curia, presso il S. Uffizio e la Biblioteca vaticana.
Il 9 apr. 1555 Marcello Cervini fu eletto papa, con il nome di Marcello II. Il L., che era stato suo conclavista, fu nominato capo della famiglia pontificia. Ma le aspettative suscitate dal pontificato di Marcello II restarono ben presto deluse, a causa della declinante salute del papa. Lo stesso L. comunicò quasi quotidianamente alla famiglia Cervini le notizie sulle condizioni del pontefice, che morì nella notte tra il 30 aprile e il 1( maggio, dopo poche settimane di pontificato.
Con la morte del suo protettore, le prospettive del L. si fecero assai incerte. Pur avendo a lungo collaborato con un cardinale di rilievo, egli non era un uomo di corte, né volle inserirsi nelle strutture inquisitoriali potentemente rafforzate da Paolo IV; possedeva, però, una ormai solida esperienza di governo diocesano che, al momento giusto, si rivelò preziosa. Per alcuni anni il L. rimase a Roma, senza assumere funzioni di qualche rilievo, anche se ricevette, intorno al 1568, il titolo di vescovo in partibus di Cesarea. Nello stesso anno, il cardinale Giovanni Ricci, arcivescovo di Pisa e conterraneo del L., decise di utilizzarlo come vicario per la sua diocesi.
I problemi della diocesi di Pisa erano particolarmente gravi. Il potere arcivescovile era fortemente indebolito a causa dei contrasti con i potenti corpi canonicali e dell'assenteismo degli arcivescovi, che si limitavano a percepire le rendite della carica senza attendere a un vero governo pastorale. Nel centro cittadino il tracollo demografico, seguito alla conquista fiorentina del 1406, aveva portato all'abbandono di numerosi luoghi di culto e all'usurpazione di beni ecclesiastici da parte di privati. Né le cose andavano meglio per i grandi monasteri della diocesi, che erano stati sottoposti a sistematiche spoliazioni da parte dei Medici e delle grandi famiglie nobili pisane e fiorentine. Particolarmente grave era, infine, la situazione delle chiese del contado, di cui erano nominalmente titolari esponenti del clero cittadino, che però si limitavano a percepirne le rendite senza preoccuparsi della cura d'anime e della manutenzione degli edifici.
L'attività pisana del L. cominciò nella primavera del 1568. Il 7 aprile ricevette, con esplicita dispensa pontificia, il titolo di vescovo suffraganeo, mentre il 26 fu nominato vicario generale e vicelegato apostolico; poco dopo divenne anche canonico della cattedrale. Contemporaneamente, il cardinale Ricci, nel corso di una fugace apparizione al sinodo diocesano, fissava alcune linee generali per una riforma della vita religiosa cittadina. L'11 maggio 1568 il L. iniziava la sua prima visita della diocesi, alla quale seguirono altre due, una nel 1569 e una nel 1571.
Le visite del L. perseguivano essenzialmente due obiettivi: il disciplinamento dei comportamenti del clero e la riorganizzazione della struttura diocesana, dal punto di vista beneficiale e da quello pastorale. Il primo obiettivo fu in qualche modo raggiunto attraverso misure punitive che colpirono gli ecclesiastici rei di delitti comuni o concubinari con pene pecuniarie o, nei casi più gravi, detentive. La vita ecclesiastica pisana acquistò così un tono più severo e gli ecclesiastici ridussero una serie di comportamenti scandalosi, come la partecipazione a mascherate carnevalesche o a risse.
Assai più difficile fu invece intervenire sulla struttura ecclesiastica pisana. Sin dal 1568 il L. compì un'accurata visita dei luoghi di culto della città e del contado, attuando la prima completa ricognizione della diocesi mai realizzata a Pisa. L'attenzione del visitatore si concentrò in particolare su due questioni: in primo luogo, la situazione giuridica dei luoghi di culto e la loro conformità alle norme sancite dal concilio di Trento; in secondo luogo, il comportamento morale del titolare del beneficio. In entrambi i campi dovette registrare una situazione spesso confusa, in alcuni casi ai limiti del collasso. La decadenza di molti luoghi di culto e la scarsa qualità di molti sacerdoti appariva chiaramente legata al mantenimento di una struttura parrocchiale ormai eccessiva rispetto ai bisogni di una città in declino demografico, che favoriva la dissociazione tra il possesso del beneficio e la cura d'anime. Il L. propose dunque una riorganizzazione complessiva del sistema parrocchiale, ma la resistenza dei titolari finì per bloccare la sua azione ed egli dovette limitarsi a emanare, l'8 luglio 1571, un decreto che prendeva atto della situazione esistente e, in qualche modo, la stabilizzava, accorpando solo temporaneamente alcune chiese curate.
Del resto, anche in altri campi l'azione del L. dovette scontrarsi con resistenze insuperabili. Così, egli non riuscì a imporre ai chierici della collegiata di S. Stefano - legata all'omonimo Ordine cavalleresco fondato nel 1562 da Cosimo de' Medici - l'adempimento dei loro doveri religiosi e la rinuncia al cumulo dei benefici, poiché il granduca Francesco I si rivolse direttamente al cardinale Ricci, che cassò i provvedimenti del Lorenzini. E neppure poté indurre il priore della collegiata, Francesco Perignani, che era stato nominato vescovo di Cortona, ad abbandonare la sua carica. Anche i monasteri femminili, infine, si opposero duramente alle riforme introdotte dal L., che intendeva ripristinare una severa clausura.
La resistenza delle monache non si limitò all'invio di memoriali contro il L. ma giunse a episodi clamorosi, che coinvolsero l'antico monastero di S. Martino in Chinsica, da poco ricaduto sotto la giurisdizione arcivescovile. Nel carnevale del 1572 la badessa del monastero invitò a cena una nota prostituta, sfidando apertamente il L. che, poco dopo, fu fatto oggetto di un vero e proprio tentativo di aggressione da parte delle monache.
Maggiori successi ottennero invece gli interventi sulle chiese del contado. In questo ambito il L. riuscì a imporre norme più rigide per gli avvicendamenti dei cappellani che sostituivano i titolari e per la manutenzione delle chiese e la tenuta dei registri battesimali. Rimase, però, sostanzialmente irrisolto il problema della decadenza di alcuni luoghi di culto, che avevano ormai perso ogni significato per le comunità locali.
Nel complesso l'attività del L. produsse alcuni risultati significativi, se non altro perché consentì un'analisi della struttura della diocesi di cui si giovarono anche i successivi arcivescovi di Pisa. Probabilmente il L. contava di affrontare progressivamente i nodi scoperti, ma la morte del cardinale Ricci, il 19 maggio 1574, gli impedì di portare a termine la sua attività a Pisa, anche se egli rimase in carica fino all'autunno dello stesso anno.
Il 2 dic. 1575 successe a Filippo Geri come vescovo di Assisi, ma non ebbe tempo di iniziare un vero e proprio governo pastorale. Nel febbraio 1576 era ancora a Pisa, dove guidò i solenni funerali dell'arcivescovo Ludovico Antinori.
Il L. morì ad Assisi nel maggio 1577.
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