MACCARANI, Antonio
MACCARANI, Antonio. – Nacque a Roma nella prima metà del Cinquecento da Tiberio – consigliere del rione Trastevere nel 1530, caporione nel 1534 – e, probabilmente, da Cristofara Trinci, sposata in seconde nozze il 23 marzo 1519. La famiglia Maccarani, attestata a Roma almeno dal 1404, apparteneva a quell’oligarchia municipale affaristica che da molti anni si tramandava senza interruzione le cariche pubbliche cittadine.
Ebbe due fratelli, Stefano (1500-81), membro del Collegio dei notai capitolini, notaio dell’archivio dei canonici e archivisti di S. Spirito in Sassia, consigliere e caporione del rione Pigna, più volte notaio dei caporioni, dal 1568 scriba Senatus e archivista della Curia di Campidoglio, e Vincenzo (1513-77), più volte consigliere del rione Trastevere, e due sorelle, Concordia e Clementia.
Si addottorò in utroque iure, ma non è documentata alcuna sua attività in campo giuridico. Perseguì l’ascesa sociale della sua famiglia con tutti i mezzi disponibili (a eccezione della carriera ecclesiastica): acquisizione di cariche pubbliche, politica matrimoniale, investimenti immobiliari e fondiari, servigi a potenti in cambio di protezione.
Fu consigliere dei rioni Pigna (1554, 1562, 1565, 1576) e Trevi (1581), caporione di Pigna (1556), sindaco degli ufficiali del Popolo romano (1557), conservatore (1568); fu, inoltre, amministratore della Società dei raccomandati del Ss. Salvatore ad Sancta Sanctorum – la confraternita più antica e potente della città, della quale avevano già fatto parte il padre e il nonno – e priore della Società dei secolari sub nomine Iesu.
Le strategie matrimoniali rientravano nel disegno di consolidamento e di ascesa sociale: nel 1556 sposò Giulia di Francesco Centelles – appartenente a un’eminente famiglia romana, zia paterna di monsignore Girolamo Centelles, futuro vescovo di Cavaillon in Francia –, la quale gli portò in dote una grande vigna tra Testaccio e porta S. Paolo e gli diede quattro figli: Vincenzo detto Cencio, Camilla, Laura e Cristofara. Per il figlio Vincenzo, le cui nozze furono celebrate l’11 giugno 1579, egli scelse come consorte Lavinia di Mario Capizucchi, esponente di una delle famiglie più antiche di Roma. Nel 1586 Vincenzo si recò in Fiandra per combattere al servizio del duca di Parma, Alessandro Farnese, e nel 1588 vi trovò la morte. Poco dopo morì anche suo figlio Tiberio ancora bambino. Attraverso i matrimoni delle figlie Camilla e Laura si imparentò con una famiglia della nuova aristocrazia del denaro, i Luraghi, mercanti-banchieri comaschi, stabilitisi a Roma verso la metà del Cinquecento. Il 19 genn. 1580 Camilla sposò Giovan Battista, consigliere del rione Regola nel 1581 e nel 1584 e del rione Parione nel 1590; dal loro matrimonio nacquero Livia e Paolo, quest’ultimo erede del fedecommesso e del cognome Maccarani. Laura – nota nell’alta società romana del tempo come «la bella Maccarana» – sposò, il 23 apr. 1585, Pompilio, fratello di Giovan Battista, da cui ebbe Ludovico. Pompilio morì nel giugno 1587 e Laura, il 2 febbr. 1588, sposò in seconde nozze Ludovico Visconti, membro di una prestigiosa famiglia milanese, figlio del conte Camillo, nipote del referendario e futuro cardinale Alfonso Visconti e parente del cardinale Niccolò Sfondrati, il futuro Gregorio XIV. Dalla loro unione nacquero Vittoria, Clarice, Anna e Francesca.
Il M. abitò inizialmente nel rione Trastevere, dove i Maccarani avevano alcune proprietà immobiliari e la cappella funeraria nella chiesa di S. Crisogono. Dopo la metà del Cinquecento si trasferì nel rione Pigna seguendo il fratello Vincenzo, che aveva acquistato per tutta la famiglia un palazzo presso l’attuale piazza Margana, e aveva trasferito la cappella nella più prestigiosa chiesa di S. Maria sopra Minerva. Alla morte di Vincenzo, nel 1577, ne ereditò il cospicuo patrimonio immobiliare che incrementò con ulteriori acquisizioni nei rioni Pigna, Ponte e Trevi, dove finì per stabilirsi in un grande palazzo ai piedi di Monte Cavallo.
Egli, come molti esponenti dell’aristocrazia municipale, visse della rendita delle sue proprietà, dedicandosi ad attività finanziarie redditizie e a basso rischio. Pertanto, mise le sue ricche rendite a disposizione non solo di prelati e aristocratici – che ne attinsero in sempre maggiore misura per sopperire alle loro continue esigenze di lusso e rappresentanza – ma anche di conventi e di Comunità cittadine. Concluse contratti di «censo», tra gli altri, con il cardinale M.S. Altemps e con il cardinale Cesi, con i Caetani di Sermoneta (3300 scudi al 7% nel 1574 sulla tenuta di Ninfa) e con il duca di Parma Ottavio Farnese, con la Comunità di Orvieto e con il monastero di S. Pietro in Vincoli. Partecipò a numerose «compagnie d’offizio» e spesso vi fece partecipare anche i suoi familiari (2000 scudi nel 1579 con il cardinale de’ Medici per l’acquisto dell’ufficio di sommista della Cancelleria e 1800 scudi con Paolo Maina per l’acquisto del notariato dell’auditor Camerae, entrambe al 9%). Talvolta offrì prestiti senza interessi con l’obiettivo di estendere la propria rete di alleanze con personaggi influenti (400 scudi nel 1589 a monsignore Alfonso Visconti che andava nunzio presso l’imperatore).
Molteplici furono, come ricordato, i suoi investimenti nelle «compagnie d’offizio», che, introdotte da Leone X nel 1514, si diffusero notevolmente nel corso del secolo per la crescita eccessiva del prezzo degli uffici venali. Si trattava di società che raccoglievano il danaro di medi e piccoli risparmiatori e lo prestavano a chi, volendo acquistare un ufficio, non disponeva di tutta la somma necessaria; la rendita dell’ufficio, quindi, era suddivisa tra il titolare e i suoi finanziatori in proporzione alla somma conferita da ciascuno; ai finanziatori si garantiva che, in caso di morte del titolare dell’ufficio, le loro quote non sarebbero divenute vacanti. Più tardi fu introdotto un elemento di rischio anche per il prestatore e i contratti furono rogati «sopra il pericolo della vita» del prestatore stesso o di una persona a lui cara; in caso di morte del designato, il prestito diventava vacante. Per questo motivo il M., che, il 1° apr. 1586, in una «compagnia d’offizio» con Valerio Astalli aveva impegnato 1000 scudi sopra il pericolo della vita del figlio Vincenzo, dopo la partenza di questo per la guerra nelle Fiandre fece trasferire il rischio sulla vita della moglie Giulia e della nuora Lavinia per 500 scudi ciascuna.
Nel 1585 il M. ottenne il patronato della cappella di famiglia e decise di sostituire il quadro d’altare raffigurante la Madonna assunta in cielo con quello da lui stesso commissionato qualche anno prima al pittore comasco Marcello Venusti, intitolato Noli me tangere, che rappresenta la Maddalena in abito rosso e manto giallo, inginocchiata davanti al Cristo – vestito da giardiniere e coperto di un mantello azzurro, con in testa un cappello alla contadina, sulla spalla destra una vanga – che le fa cenno di non toccarlo. Completato da altra mano per la morte del Venusti, il quadro rimase nella cappella Maccarani – oggi del Sacro Cuore – fino ai primi del Novecento. Restaurato per il giubileo dell’anno 2000, è stato ricollocato nella cappella del fonte battesimale. Il restauro ha rivelato, nell’angolo in basso a sinistra, una pittura più antica raffigurante una roccia, il ritratto del committente con le mani giunte, secondo una tipologia all’epoca molto diffusa.
Fu legato da sincero affetto al genero Giovan Battista Luraghi, impegnato con successo nell’attività di banchiere e, dopo la morte del suo unico erede maschio, Vincenzo, e del figlio di questo, Tiberio, egli fece affidamento su di lui per il futuro della famiglia. Nel dicembre 1594 giunse, tuttavia, improvviso e inaspettato il fallimento del Luraghi, che fuggì da Roma e si rifugiò presso monsignore Girolamo Centelles a Cavaillon, dove morì nel luglio 1610. Immediatamente i creditori pretesero e ottennero la confisca delle sue proprietà, compresa una preziosa raccolta di antichità, e la scomunica per usura. Il M., che aveva garantito alcune operazioni del genero, fu coinvolto nel disastro e dovette intaccare il suo patrimonio per tacitare i creditori. Sentendosi tradito, decise di cancellare il nome dei Luraghi dalla sua discendenza ed elaborò un rigido fedecommesso con primogenitura maschile a favore del nipote Paolo. Questi, per entrarne in possesso, dovette sostituire al proprio cognome quello del nonno, rompendo in tal modo definitivamente i rapporti con il padre e con tutti i parenti Luraghi, e sposare la cugina Vittoria Visconti.
Il M. morì a Roma il 18 maggio 1602 e fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Maria sopra Minerva.
Paolo nacque a Roma il 15 febbr. 1583 ed ereditò nel 1602 i beni del nonno materno. Il 2 febbr. 1603 fu nominato erede universale anche dalla nonna materna Giulia Centelles e nel 1624 recuperò una parte del patrimonio di suo padre, Giovan Battista Luraghi. Ereditò inoltre i beni del cugino Ludovico Luraghi e quelli dei Visconti, famiglia a cui apparteneva la moglie Vittoria, che era sua cugina, figlia di Ludovico Visconti e Laura Maccarani (in ricordo dell’avvenenza della madre, cui somigliava, chiamata «la bella Maccaranina»). Con accorti investimenti e con un’intensa attività di prestito, prevalentemente sotto forma di «censi», divenne uno degli uomini più ricchi di Roma.
Ricoprì cariche pubbliche solo in età avanzata: fu deputato del Monte di pietà, conservatore nel 1659 e nel 1664, senatore supplente per 45 giorni dal 15 marzo 1659, guardiano della Compagnia del Ss. Salvatore ad Sancta Sanctorum dal 1655 al 1660 e dal 1662 al 1667, incarico di grande prestigio connesso alla custodia del collegio Capranica.
Abitò nel rione Trevi, ai piedi della Dataria, in un grande palazzo di fronte alla chiesa di S. Maria dell’Umiltà, che aveva fatto ampliare e restaurare da Onorio Longhi, dove custodiva una ricca, anche se eterogenea, raccolta di dipinti e marmi antichi. Nel 1643, per volontà della madre Camilla, fece ristrutturare l’altare maggiore della chiesa dell’Umiltà consacrandolo all’Assunzione della Vergine. Inizialmente vi fece trasferire dall’altare di destra, fatto costruire molti anni prima dalla madre, un’antica e preziosa immagine della Vergine molto cara alla sua famiglia, quindi commissionò un quadro dell’Assunta al pittore milanese Antonio Mariani della Cornia. Della ristrutturazione fu incaricato Martino Longhi il Giovane, il cui padre, Onorio, aveva già curato i restauri di tutti gli edifici del Maccarani.
Paolo fu l’amministratore e il più importante agente di Giulio Mazzarino (cardinale dal 1641) a Roma e prese parte attiva a tutte le sue operazioni finanziarie, dall’acquisto del palazzo Bentivoglio sul Quirinale (23 marzo 1641), al restauro e riedificazione dell’antica chiesa dei Ss. Vincenzo e Anastasio nel rione Trevi, particolarmente cara al cardinale, che in quella chiesa era stato battezzato e in quel rione aveva trascorso la sua infanzia.
Paolo fu uno degli intermediari – gli altri furono l’abate Elpidio Benedetti e il Mariani della Cornia – ai quali il cardinale Mazzarino si affidò per la formazione della sua collezione d’arte, lasciandosi orientare dal loro consiglio e dal loro gusto. Avvalendosi del proprio denaro e della propria rete di conoscenze nel mondo artistico romano, Paolo inviò alla corte di Francia preziosi carichi di quadri, statue, mobili, cornici e ventagli, ma vi indirizzò anche ogni genere di artisti: pittori, scultori, restauratori, decoratori, musicisti. Al di là delle questioni d’affari, un rapporto di amicizia e di confidenza traspare dalle numerose lettere di Mazzarino a lui indirizzate. In tono informale il cardinale tenne Paolo continuamente informato sullo svolgimento dei più importanti avvenimenti politici e diplomatici, dall’ostilità di Innocenzo X verso la Francia alla questione dei Presidi, dalla reintegrazione dei tre cardinali Barberini all’accordo con il Parlamento di Parigi dopo il blocco attuato da Luigi di Borbone, principe di Condé (1649). Paolo, dal canto suo, mise probabilmente a disposizione del cardinale Mazzarino i suoi rapporti privilegiati con la corte filospagnola di papa Pamphili, che gli derivavano dall’ascendenza lombarda della famiglia del padre e di quella della moglie. Nell’ultima lettera, molto affettuosa, a lui indirizzata tre giorni prima di morire (6 marzo 1661), Mazzarino lo incaricò dell’esecuzione di alcune disposizioni testamentarie e gli riservò un dono prezioso e molto personale: un orologio d’oro con diamanti che teneva a capo del letto. Paolo godette della stima di Alessandro VII che, con motu proprio del 22 maggio 1660, lo incaricò di sovrintendere alla ricostruzione, affidata all’architetto Carlo Rainaldi, della chiesa di S. Maria in Campitelli.
Ebbe due figlie, Giulia ed Elena, che si fecero entrambe suore. Privo di eredi maschi, come già aveva fatto con lui suo nonno elaborò, con il testamento del 17 apr. 1666, un fedecommesso con primogenitura maschile, che fu a favore di Lelio Alli, esponente di una famiglia romana di antica nobiltà strettamente legata alla corte medicea. Anche Alli avrebbe sostituito al proprio cognome quello dei Maccarani.
Paolo morì a Roma il 15 ag. 1667 e fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Maria sopra Minerva.
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